Come trattano gli ammalati: cronaca di una giornata alla ASL

RAVENNA – Mentre rimango in attesa che una “seria” commissione di studi definisca se sia più censurabile: portare la “scorta” all’IKEA a far compere (facendogli spingere il carrello); costringere la “scorta” a riaccompagnare un gruppo di “zoccole” a casa dopo che abbiano partecipato, (le zoccole, non la scorta), a serate di sfrenato “burlesque” oppure ancora, in nome della laicità, commettere un reato (punito anche in Italia con la reclusione fino a 3 anni) e, rubando documenti e posta direttamente dalla scrivania del “pontefice”, farne un best seller, mi capita – come a tutti – talvolta di aver a che fare con il Servizio Sanitario Nazionale.

Attenzione! Sono cosciente di vivere in una Regione in cui il “sistema” – stando almeno ai conti economici in equilibrio – sembra funzionare meglio che altrove. Anzi, a ben pensarci e per esperienza diretta, posso senza dubbio affermare che il “sistema” sanitario romagnolo funziona sicuramente MOLTO meglio di quello gestito, solo per stare agli ultimi 20 anni, nell’ordine da: il boy scout Badaloni (chi lo ricorda più), il “refuso” (così lo chiamava Ingrao) Storace, il prode Marrazzo e la “signora” Polverini.

Però, proprio perché qui il “sistema” ci aveva abituato ad un’eccellenza imparagonabile con il resto d’Italia, non si può – oggi – non evidenziare come la crisi economica mieta le sue vittime anche da queste parti. Soprattutto, perché, sensibili come siamo sempre stati al dettato costituzionale dell’articolo 3, non vorremmo trovarci che allentando la vigilanza possa andare ancora peggio.

Insomma, per farla breve, mercoledì scorso, mi sono ritrovato nella sala d’aspetto del centro diabetologico presso il Centro di Medicina e Prevenzione (CMP) della mia città, Ravenna.
Un girone dantesco in cui, un minuscolo cartello su un paletto delimita una “distanza di cortesia”, così “ridicola” che si riesce ad udire distintamente – anche perchè il contrario sarebbe impossibile stante la voce stentorea delle impiegate – ogni parola sia del paziente che degli operatori, da ben oltre il limite fissato.
Si aggiunga a questo, poi, che la fila si snoda in un ambiente “non proprio amplissimo” dove le persone in attesa di essere chiamate, per la maggior parte anziane e, ovviamente, non proprio in forma, si mescolano con quelle in fila in una spirale confusa e ingombrante.

Comunque, dopo essere stato redarguito perché, sono stato beccato ad affiancare la persona che accompagnavo, ben al di la del limite di cortesia, mi sono ritrovato ritto in piedi, proprio a fianco allo sportello – giuro non v’era altro posto disponibile – ma fuori dalla visuale della solerte impiegata che mi aveva “rimproverato”.

In questa posizione, diciamo così: strategica, non potevo non leggere un simpatico cartello, tra i molti di cui abbonda la pubblica grafomania, che diceva più o meno così: “L’orario riportato in appuntamento, non corrisponde necessariamente a quello della visita e potrà oscillare dai zero ai novanta minuti”.

Tralasciando la grammatica, il messaggio è chiaro e fa il paio col motto dantesco (di casa da queste parti) del “lasciate ogne speranza o voi ch’intrate”.

Un ritardo di novanta minuti non è ritardo ma mancata programmazione, casualità, arbitrio. Ed è evidente che dove vige l’arbitrio non v’è rispetto, non solo delle persone interessate, ma anche dello stesso sistema di vita sociale ed economico.

Se il tempo è dilatabile e gratuito, i suoi impegni sono ininfluenti e irrilevanti e, allora, diventano, ininfluenti e irrilevanti i tempi dell’azienda in cui lavora, la sua organizzazione del lavoro e, non resta che sperare nella comprensione del suo datore di lavoro.

Ma ancora, dove vige l’arbitrio, non ci si può stupire se le sale d’aspetto sono quel che sono e gli ammalati restano in balìa del primo paramedico o amministrativo a cui quella mattina – come si dice da queste parti – “tira il culo”.

“È inaccettabile!” mi ha detto un mio amico medico in quella struttura con cui concordo. Ma allora, perché nessuno interviene? Perché nessuno si prende cura di verificare come realmente funzionino i servizi? Perché nessuno si pone il problema, se non proprio della dignità dei pazienti, almeno dei costi economici che una tale disorganizzazione comporta?   

Non pretendo, certo, che il “sistema” insegni le buone maniere ad un’impiegata che – dopo avermi rimproverato per “invasione di privacy” – per risolvere un suo problema lascia avvicinare allo sportello un’altra persona, proprio mentre una sua collega stava “servendo” un altro paziente; né pretendo che a quella stessa impiegata qualcuno spieghi che è inutile che infierisca, urlando, su una povera signora, intenta a correre dietro a suo figlio di poco più di un anno, perché la stessa non è riuscita a fare le “due gocce di pipì” che le occorrevano da portare all’analista.

Quello che pretendo, e vorrei che tutti pretendessero è che la signora, gli operatori e i dirigenti della Struttura in questione (ma non solo) vengano ricondotti alla disciplina contrattuale che  sanzioni i comportamenti irrispettosi della dignità e dei diritti dei “cittadini-ammalati”. Nessuno obbliga a lavorare nel pubblico. Così come da Camera e Senato, ci si può dimettere anche dalla ASL e trovarsi un altro posto. Ma se si sceglie di avere l’onore di lavorare per il benessere collettivo, si deve stare a certe regole che mettano il “cittadino-ammalato”, il “cittadino-utente” al primo posto.

Mi aspetto già, che qualche “anima bella” mi additi al pubblico ludibrio come “traditore della causa” e massacratore dei pubblici dipendenti. No, cari amici, non smetto di stare dalla parte dei lavoratori se affermo che ve ne sono alcuni che non si possono appellare al concetto di “alienazione marxiana”. Semplicemente perché è evidente l’oggetto del loro lavoro e, soprattutto perché è palese l’importanza che questo riveste per i “fruitori” del loro lavoro. Non mi sento un “traditore” perché invoco l’applicazione della Costituzione, dei Contratti Nazionali di Lavoro e delle Leggi.

Credo, insomma, che comportamenti scorretti e al limite della censura non diventano giustificabili solo per le avverse condizioni di lavoro; perché anche altri fanno così o, peggio ancora,  perché il sistema è debole coi forti e forte coi deboli.

Così, come credo, che un’azione illegale e al limite del codice penale, non diventa “buona” perché si arroga il diritto di scoperchiare gli altarini del potere vaticano o solo perché manda in beneficenza il 50 per cento del “ricavato”. Anche perché, resta sempre da capire a chi intaschi il restante 50 per cento lucrato sul presunto scoop.

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