Festival delle scienze. Il Nobel Amartya Sen parla di “Felicità e disuguaglianze”

ROMA – «Eravate qui per sentire parlare di felicità, invece ho parlato soprattutto di economia. Posso solo dire che per arrivare ad avere un’Europa felice, occorre occuparsi di cose tristi.

Avrei voluto che fosse stato altrimenti”. Sintetizza così la sua lunga e articolata conferenza di al Festival delle Scienze di Roma, l’economista indiano Amartya Sen, Thomas W Lamont University Professor of Economics and Philosophy alla Harvard University e Premio Nobel per l’Economia nel 1998. Si scusa con il numeroso pubblico – che ha voluto guardare per tutta la durata del suo intervento chiedendo che fossero lasciate accese le luci in sala – per aver incentrato gran parte del suo discorso sulle questioni economiche che attanagliano l’Europa. «In effetti – dice Sen – il titolo di questa conferenza, più che “Felicità e disuguaglianze” poteva essere “Felicità e istituzioni sociali” o “Infelicità e istituzioni europee”».

È infatti alla profonda crisi economica europea, alle politiche di deflazione e alle misure di austerità adottate da molti paesi dell’Unione, che il Premio Nobel si è concentrato a lungo durante il suo discorso. «L’Europa – prosegue Sen – ha bisogno di un grande cambiamento. Un paese da solo –   la Grecia , il Portogallo o l’Italia – può non essere in grado di cambiare la potente delusione nella quale i leader politici sembrano essere incarcerati». Sen ha voluto ribadire con forza un concetto già espresso in passato, ma che purtroppo ha ancora bisogno di essere sottolineato, e cioè che il welfare state necessita di riforme, non di austerità, e che vi è un forte bisogno di ripensare tutta la materia riguardante la politica europea, rimuovendo le strategie restrittive che creano disoccupazione, minano i servizi pubblici e di fatto bloccano la ripresa economica.

Per arrivare all’analisi dell’attuale “disastrosa” situazione in cui versa l’Europa, Sen ha voluto partire con una citazione dal Purgatorio di Dante:  “O umana gente, nata per volare in cielo, perché cadi al primo soffio di vento?”. Perché, infatti, l’uomo non riesce a sfruttare appieno le sue potenzialità di condurre una vita soddisfacente, di essere felice e libero di scegliere che tipo di vita fare? Secondo Sen la ragione sta nella natura della società in cui viviamo, ed è al ruolo dei mercati e delle istituzioni statali e regionali che bisogna guardare per comprendere come si sia potuti arrivare al disastro e all’inaccessibilità alla felicità, soprattutto in Europa. 

Il Premio Nobel ha poi criticato il revival delle teorie utilitariste, per affermare che l’etica sociale non può essere basata soltanto sul criterio della felicità. La felicità, nel senso di più piacere e meno dolore, da sola non serve a spiegare il livello di benessere individuale, ed è attualmente lontano dall’essere un buon indicatore di benessere collettivo poiché non tiene conto di coloro che sono stabilmente privati dei loro diritti, delle donne nelle società sessiste, degli oppressi, degli emarginati, dei precari, da tutti coloro, cioè, che sono ormai allenati a trarre piacere dalle cose minime per rendere la propria vita sopportabile. Lo sguardo di Sen sul termine felicità si è espresso in maniera molto più ampia, abbracciando la filosofia spontanea di Gramsci, e giungendo a una possibile declinazione europea del termine, con un’acuta analisi degli attuali problemi dei paesi dell’Unione.

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