Venezia 1763. Il conte Antonio Nogarola e il cadavere dissanguato

VENEZIA – Nella risoluzione di un omicidio è accertato che la scena del crimine sia uno dei tasselli principali per lo svolgimento dell’indagine.

Leggere correttamente le tracce lasciate dall’assassino può significare concludere il caso nel più breve tempo possibile. Oggi, grazie a congegni tecnologicamente avanzati si è in grado di analizzare anche le tracce più labili. Ma non basta. Un investigatore deve saper interpretare anche le ferite e analizzare le loro caratteristiche per poter risalire all’arma del delitto. In passato, durante il periodo della Serenissima, la polizia usava metodi estremamente avanzati per l’epoca. Gli investigatori spesso ottenevano un ottimo risultato proprio dalla lettura della scena del crimine e del cadavere, con l’ausilio di chirurghi e specialisti vari. Un CSI ante litteram.

Gli eventi che si riportano accaddero a Venezia nel Settecento e sono il frutto di una accurata ricerca storica d’archivio.
All’alba dell’otto maggio del 1763, presso la contrada della Misericordia, nella città di Venezia, la luce tenue rischiarava un corpo immobile avvolto in una coperta. La gente accorsa aveva avvisato immediatamente le guardie di contrada, le quali a loro volta avevano avvisato il tribunale penale della Quarantia Criminal. Poche ore dopo alcuni funzionari erano già all’opera esaminando il cadavere con il supporto di un chirurgo accorso per il caso. La morte era dovuta senza dubbio alle numerose ferite da arma da taglio che avevano causato il decesso per emorragia. Il chirurgo conta ben otto ferite, impresse tutte sulla testa, quattro delle quali vengono considerate mortali. Il medico, che possedeva una discreta esperienza, rileva anche altre piccole contusioni causate forse da una caduta. Il referto non mancava di descrivere anche la tipologia di arma usata, le otto ferite apparivano causate da più armi, tra le quali sicuramente un corpo contundente, una arma da taglio e un’arma che lasciava un segno molto particolare, un’arma con una punta triangolare. I segni di queste erano specifici ed erano caratteristici di poche armi esistenti. C’è qualcosa però di strano. Primo non ci sono lesioni da difesa, quindi era stato colpito senza lasciargli il tempo di reagire, secondo, il cadavere risulta totalmente dissanguato. Le ferite alla testa non possono spiegare la mancanza totale di sangue e quindi cosa era successo?

Mentre si stanno cominciando a raccogliere le testimonianze accade qualcosa. Una donna in lacrime, visibilmente sconvolta, vuole vedere il corpo. Forse lo conosce. Forse è suo marito. La donna è la moglie del nobile veronese Gerolamo Ceola, scomparso da casa la sera prima. L’urlo straziante non lascia dubbi. In lacrime racconta che lo aveva atteso invano tutta la notte ma non era rincasato. Le chiedono se sapeva dove doveva recarsi quella sera. La moglie della vittima racconta che si doveva vedere con un suo amico, il conte Nogarola di Verona. La donna si ricorda anche di aver visto il conte verso l’una di notte alla casa da gioco senza però suo marito, e poi, poco prima delle quattro, era andato via.

Gli investigatori allora si fanno accompagnare alla casa del conte Antonio Nogarola, per chiedergli se sapeva nulla del suo amico. Mentre attendono sul portone del palazzo, un vicino di casa racconta ai soldati che allarmato dal trambusto della sera prima, aveva sentito delle grida provenire da una stanza del pian terreno. La servitù comunica che il proprietario di casa non si trova. Il magistrato da ordine di perquisire l’intero piano terra. Una stanza, non usata e tendenzialmente chiusa a chiave, viene trovata aperta. Gli ufficiali della Quarantia Criminal prendono nota di alcuni elementi utili alle indagini. Il funzionario segnala nella sua relazione che il suolo è bagnato e calpestato recentemente. Si contano le impronte e si cerca di capire i movimenti. Si evidenzia che c’è la presenza di cenere e gesso forse per coprire alcune macchie presumibilmente di sangue, anche i muri sono schizzati di sangue. Nella stanza vi è un letto nel quale manca la coperta, forse la stessa con la quale è stato avvolto il cadavere. C’è stato anche un tentativo di dar fuoco al letto, zuppo di sangue, forse nella volontà di cancellarne le tracce. Si comincia a capire dove era finito tutto il sangue del conte. Ma perché dissanguarlo? Il primo pensiero che attraversa la mente degli investigatori è il legame tra la prima scena del crimine e la seconda. E’ chiaro che il conte era stato ucciso nella stanza della casa e successivamente trasportato alla Misericordia, all’epoca una zona periferica di Venezia. Come mai era stato trasportato fin li? si decide di fare un secondo sopralluogo alla Misericordia e dopo poco tempo, non troppo distante dal luogo del ritrovamento del cadavere, si trovano gli abiti della vittima nei pressi del Bastione detto del Crocifisso, argine del fiume Adige. Qui alcuni testimoni affermano che verso le  quattro avevano intravisto due uomini. Di questi non conoscono però le generalità anche se forti sospetti ricadono sul conte Nogarola che risulta scomparso.

Il giorno seguente l’indagine viene passata al Consiglio dei Dieci, la procedura prevedeva infatti che fosse questa magistratura ad occuparsi dei casi in cui la vittima o l’artefice di un delitto fosse stato un nobile. Il Consiglio dei Dieci spaventa. I suoi uomini si muovono nell’ombra, usano qualsiasi mezzo anche le denunce anonime per raggiungere i sospettati. Non si può scherzare con loro. Ci si può trovare nei camerotti a Palazzo Ducale da soli, senza un avvocato a rispondere alle loro domande.
Nel frattempo succede qualcosa. Si presenta agli investigatori ancora la moglie della vittima, la quale comunica che il conte Antonio Nogarola e il suo stalliere, erano partiti di tutta fretta per Malcesine, una località nei pressi del Lago di Garda.

L’orario coincideva con l’avvistamento di due persone sulla scena del crimine. Si inviarono a Malcesine degli ufficiali di polizia. Le notizie che giunsero erano buone. Lo stalliere e lacchè del conte Nogarola, forse sotto gli effetti del vino, aveva raccontato una sera ad alcuni amici di bevuta, dell’omicidio. Ora non si hanno dubbi.
Il 23 settembre si emette un primo bando contro la persona di Placido Furletto, lo stalliere, fissando la taglia a mille ducati se preso in città e duemila se consegnato da uno stato estero. I cacciatori di taglie, autorizzati dalla Serenissima, iniziano a muoversi.
Gli investigatori nel frattempo li cercano nella vicina Verona, ma risulta che erano rimasti solo tre giorni, prima di partire verso Milano. Da li si erano diretti a Torino dove il conte aveva chiesto asilo al Re Carlo Emanuele III di Savoia detto il Laborioso e soprannominato dai torinesi Carlin.
Nel frattempo lo stalliere era fuggito lasciando perdere le tracce. Il Consiglio dei Dieci richiese al Re Carlo Emanuele III che gli fosse consegnato il conte, reo di omicidio. Questi, che aveva un ottimo rapporto con la Serenissima, accettò e nel mese di luglio il conte Nogarola viene condotto a Venezia ed interrogato.

Il conte racconta la dinamica dell’omicidio nei dettagli. La notte del sette maggio si era messo d’accordo con lo stalliere per accompagnare la vittima nella stanza disabitata della casa, dove avevano nascosto un palo di ferro. Quando il conte Girolamo Feola, all’oscuro del triste destino, era giunto nella casa, accompagnato dal lacchè verso una stanza, in agguato lo attendeva lo stesso conte Nogarola, con una lettera in mano.

Il padrone di casa gli mostrò la lettera e gli accennò che erano documenti circa una causa che avevano in comune e lo invitò a leggere dandogli in mano un cerino acceso per poter vedere meglio. Alle spalle, il lacchè nel frattempo aveva preso il palo di ferro e colpi violentemente il conte Ceola sul capo, facendolo cadere a carponi sul pavimento. La vittima riusci a lanciare un urlo, quello udito dai vicini, prima di essere finito a colpi di mazza ferrata e di spada branditi dallo stesso conte. L’assassino continua il suo racconto, verso l’una di notte, dopo essersi puliti del sangue, si erano recati nella casa da gioco dove c’era la moglie della vittima, nel tentativo di depistare le indagini. Li erano rimasti tre ore per  poi tornare nella stanza dove avevano lasciato il cadavere. Qui decidono di spogliarlo completamente e di dissanguarlo. Questo spiegava anche il materasso intriso di sangue e poi bruciato. Il piano prevedeva, infatti, di portarlo verso la riva dell’Adige e di gettarlo nel fiume, facendo credere che fosse annegato e le ferite fossero state causate dalla corrente del fiume. Per poter far questo fu mandato il servo a portare i vestiti sull’argine, dove fu gettata anche la mazza di ferro insanguinata. I due, quindi, si erano incamminati verso il fiume ma il peso del cadavere li aveva rallentati e giungendo alla Misericordia, dopo che si erano accordi che qualcuno li osservava, avevano deciso di abbandonare li il loro carico. Il resto della storia era già stata ricostruita.

Nello stesso mese il Consiglio dei Dieci lo giudica colpevole e lo condanna alla decapitazione.

Il 20 marzo del 1764 dal carcere di Venezia il Conte invia una lettera al padre:

“Piangeva nelle carceri umiliato Davide il pericoloso morbo del figlio, quando avvisato della di lui morte si alzò giulivo con ammirazione della corte, e in festevole treno di ragia pompa ringraziò l’altissimo di ciò che pigli fosse stato in piacer di disporre.
Questa pregevole rassegnazione dell’Ebreo monarca spero sia un esempio assieme e un conforto all’avviso cattolico dell’attimo mio signor Padre nell’arrivo di questa mia, ora vivo, che scrivo, ma non più vivo ora che lei legge”.

Le cronache dell’epoca riportano che il conte salì il patibolo con passo sicuro e dopo aver pregato per l’ultima volta, si mise da solo in ginocchio con il capo rivolto verso il boia che lo attendeva con la scure in mano. Alle ore 16 in piazza San Marco, su di un palco in legno tra le due colonne, cadde nella cesta la testa del conte Nogarola, nobile di Verona, mentre fissava la Torre dell’Orologio che segnava la sua ultima ora. Nei necrologi dei Provveditori alla Sanità si riportò il disegno della sua decapitazione.

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