Biotech, l’Italia rischia di perdere il controllo anche di questo settore

 

Palmisano (Assobiotec): “Il sistema non funziona. Rischiamo di perdere un treno per la ripresa economica”
Secondo il vicepresidente di Assobiotec mancano propensione all’investimento di lungo periodo e incentivi fiscali adeguati come il credito d’imposta: il resto delle speranze le uccide la burocrazia

ROMA – Crisi economica, aziende che spostano la produzione dove la manodopera costa meno, aziende italiane che scelgono di quotarsi all’estero o che passano nelle mani di capitali stranieri: questa è la cronaca italiana degli ultimi anni. Del  biotech non si parla spesso: eppure è un settore che in tutti i Paesi industrializzati viene considerato strategico e ripaga con la crescita e con l’occupazione chi ha avuto la lungimiranza di investirci; il biotech, infatti, impiega lavoratori qualificati, crea un indotto importante e potrebbe essere uno dei treni per la ripresa economica di cui il Paese ha tanto bisogno.
Pare però che il nostro paese non abbia ancora i binari giusti per far viaggiare questo treno: il rischio è di perderlo, di farlo arrivare dritto oltralpe, dove i preparativi sono stati fatti in tempo. Ne abbiamo parlato con Riccardo Palmisano (in foto), vicepresidente di Assiobiotec, in occasione della prima edizione della European Biotech Week (EBW) .

”Il rischio è che con il biotech italiano si ripeta quello che è già successo alle aziende della chimica farmaceutica – spiega – cioè che le nostre aziende non riescano a raggiungere la massa critica per competere nel mondo globalizzato e che le migliori vengano acquistate da capitali esteri.  Sarebbe una grave perdita, perché questo è un settore in crescita che in tutto il mondo sta mostrando i suoi effetti trainanti sull’economia. E’ chiaro che l’Italia non può competere in settori in cui la differenza viene fatta dalla manodopera non qualificata, dato che ci sono paesi in cui questa costa molto meno; potremmo, invece – e dovremmo – competere sul biotech, visto che le nostre università formano ricercatori all’altezza del loro compito ed in Italia esistono ancora eccellenze di livello mondiale sia nella ricerca di base che in quella clinica; ma ci vuole un sistema che funzioni, ed è quello che manca ora”.

Il biotech, soprattutto quello legato alla salute, dà ottimi risultati ed è in crescita, le università preparano professionisti capaci, che infatti sono apprezzati all’estero, allora che cosa è che non funziona in Italia?
Ci solo almeno tre problemi principali. Il primo è la mancanza di propensione al rischio del sistema finanziario: il biotech dà un ritorno a circa 15 anni, mentre in Italia si preferiscono operazioni in grado di dare un ritorno decisamente più a breve termine. Questo significa che, soprattutto quando si arriva alle fasi più avanzate di studio o alla messa in produzione, possono mancare i capitali necessari.

Il secondo problema risiede nella mancanza di adeguati meccanismi di incentivo finanziario. Senza volerci paragonare agli USA, basterebbe osservare quanto avviene in Olanda o in Francia, paesi con cui dovremmo misurarci e dove le cose funzionano senz’altro meglio. Tra i meccanismi più semplici da mettere in campo c’è, ad esempio, un sistema competitivo ed affidabile di credito di imposta; oggi lo si può ottenere solo sugli investimenti incrementali, decisamente troppo poco.
Infine, quand’anche un’azienda riesca a risolvere il problema dei capitali, alla fine si trova a  fare i conti con la burocrazia e quello può essere un colpo fatale.
 
Si tratta di problemi già noti – come i tempi lunghi e le mille autorizzazioni della burocrazia italiana – o c’è qualche cosa di più?
E’ un insieme di innumerevoli meccanismi scoraggianti, in grado solo di dilatare i tempi e far lievitare i costi. Partendo da questi presupposti, è piuttosto improbabile immaginare di aprire in Italia un impianto di produzione biotecnologico, cosa già di per sé estremamente onerosa e complessa. Alla burocrazia che affligge le prime fasi della ricerca e della produzione biotecnologica (si pensi ad esempio ai tempi di ispezione degli impianti di produzione), si aggiunge quella relativa alle  sperimentazioni cliniche: i troppi comitati etici attraverso i quali bisogna passare e le regole diverse applicate da ogni centro mettono il nostro paese in una posizione di grave svantaggio rispetto agli altri. Per questo motivo, nonostante le riconosciute eccellenze in molti settori della clinica,  sempre più spesso l’Italia viene esclusa dai trial multinazionali, con un evidente danno sia in termini economici sia in termini di crescita dei nostri ricercatori e della nostra università. Quella che viene danneggiata, in una parola, è l’ “economia della conoscenza”, che taglia fuori l’Italia dal giro che conta e lascia sempre più isolati i ricercatori clinici, che partecipano sempre meno alle sperimentazioni più significative. Infine, quando anche si sia arrivati a raggiungere il traguardo dello sviluppo di un farmaco, si ripresentano problematiche tipiche del sistema italiano: ottenuta l’approvazione a livello europeo si incontrano tempi lunghi e valutazioni finora poco trasparenti a livello nazionale; poi cominciano i tempi di attesa per l’inserimento nei prontuari delle singole regioni. E di nuovo si perde tempo, a danno dei pazienti, ma anche dell’industria di ricerca: l’orologio della scadenza brevettuale non si ferma, infatti, per aspettare le lungaggini della burocrazia italiana; per questo motivo, quindi, la filiale italiana di una multinazionale biotecnologica perde due anni di potenziale ritorno dell’investimento rispetto alla filiale, ad esempio, tedesca. Ciò determina ancora una volta un grave danno per gli investimenti fatti in Italia e la perdita della ricaduta che avrebbero nel nostro Paese. Sono tanti problemi che nel loro insieme scoraggiando gli investimenti e non consentono al biotech di esprimere in Italia il suo elevato potenziale. 

Si parla tanto di collaborazione tra pubblico e privato, soprattutto nella ricerca scientifica e nel successivo sviluppo di prodotti, qual è la situazione nel biotech?
La collaborazione tra pubblico-privato è importantissima in molti settori, nel biotech in modo particolare ed ancor più nel settore delle malattie rare di cui mi occupo nella mia azienda. C’è necessità – soprattutto nelle biotecnologie che sono una scienza relativamente nuova – di fare molta ricerca di base e in diverse direzioni per poter selezionare ciò che funziona meglio e portarlo allo sviluppo fino in fondo. E’  corretto che la ricerca di base sia di competenza delle università e degli enti di ricerca non profit, ma la seconda fase, quella del trasferimento tecnologico, non sostenibile economicamente dalla struttura pubblica, dovrebbe poter confluire verso l’industria privata. E la collaborazione non finisce qui, non si tratta di creare una semplice ‘staffetta’ all’interno delle fasi della ricerca, ma di innestare un circolo virtuoso, affinché il trasferimento tecnologico possa alimentare nuovi fondi per la ricerca di base. Insomma, un sistema sostenibile. E’ un modello che funziona, e lo abbiamo già potuto verificare attraverso i risultati della collaborazione tra Tigem, San Raffaele, Telethon, alcune grandi aziende di ricerca e quella che possiamo considerare la punta di diamante del biotech made in Italy, la Molmed. Purtroppo si tratta di una delle poche eccezioni perché in Italia, dato che il sistema pare non essere pronto ad accogliere questo modello di biotechnology transfer.


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