Citomegalovirus, la malattia congenita che le mamme non conoscono

 

Diagnosi precoce e prevenzione sono essenziali. Negli USA il CMV costa 2 miliardi di dollari all’anno

CANADA – Delia J. fa l’infermiera in un grande ospedale, ha lavorato nel reparto emergenze fino all’inizio del terzo trimestre di gravidanza. Una gravidanza serena fino a quando un esame con ultrasuoni ha rilevato diverse anomalie nella crescita del bambino, che è poi nato privo di vita alla 36esima settimana.
Sandy S. è invece maestra all’asilo e mamma di Jane, una bimba di un anno che fatica ad avere interazioni sociali e ha problemi di linguaggio a causa di una grave forma di sordità sensori-neurale. Delia racconta di non essere sempre riuscita, durante le emergenze in cui anche i secondi sono fondamentali, a lavarsi le mani quando avrebbe dovuto, Sandy invece non aveva mai sentito parlare del citomegalovirus, che ha probabilmente contratto dai bambini nel suo asilo e ora entrambe, come migliaia di donne nel mondo, ne devono affrontare le tragiche conseguenze.
La domanda sorge spontanea: cosa si sa e cosa di può fare per diminuire i rischi di contagio da citomegalovirus (CMV) nei posti di lavoro?

La professoressa Marion Rita Alex dell’Università canadese St. Francis Xavier, in un articolo recentemente pubblicato su “The American Journal of Maternal Child Nursing”, prende spunto da queste due storie per parlare di strategie, ostacoli e costi nella prevenzione del CMV.
Innanzitutto il CMV congenito è associato a una spesa annuale di 1-2 miliardi di dollari negli Stati Uniti, non contando costi indiretti come le mancate entrate dei genitori e l’educazione speciale per i bambini con disabilità.

La diagnosi precoce resta un elemento chiave, in quanto interventi precoci possono portare a massimizzare il potenziale di sviluppo del bambino, per esempio i bambini con problemi all’udito possono ricevere impianti cocleari e beneficiare delle terapie del linguaggio.
La vera sfida però è la prevenzione dell’infezione della madre, per questo conoscere e promuovere le norme igieniche in gravidanza è essenziale. Il CMV si trasmette attraverso urina, saliva, sangue, sperma, secrezioni vaginali o latte materno e si parla di trasmissione orizzontale se avviene tra due persone attraverso il contatto e della ben più pericolosa trasmissione verticale se avviene dalla madre al feto durante la gravidanza. È stato invece notato che l’esposizione al virus attraverso il latte materno in seguito alla nascita non è associata a disabilità permanenti.
Tra i luoghi di lavoro più a rischio ci sono gli asili, le strutture sanitarie più affollate o dotate di meno risorse, le comunità e case-famiglia e le strutture di assistenza ai senzatetto.
Un sondaggio del 2006 svolto negli USA ha rivelato un dato allarmante: solo il 22 per cento delle 643 donne intervistate aveva sentito parlare di CMV congenito e, tra altre condizioni che portano ad anomalie alla nascita, come sindrome di Down, toxoplasmosi e AIDS, il CMV, per altro più diffuso, è risultato il meno conosciuto.
Ancora più sorprendente è che, mentre il 90 per cento delle ostetriche e dei ginecologi americani sa che lavarsi le mani riduce il rischio di infezione da CMV, solo il 55 per cento dei questi sa che anche evitare la saliva dei bambini contribuisce ad abbassare la probabilità di infezione.

Un interessante studio ha invece calcolato per quanto tempo il CMV è infettivo su diverse superfici comuni negli ambienti di lavoro, 1 ora su metallo e legno, 3 ore su vetro e plastica e 6 ore su gomma e stoffa.
Inoltre, siccome è stato dimostrato che le donne che lavorano a stretto contatto con i bambini hanno un tasso maggiore di sieropositività al CMV, è stato proposto uno screening per questa categoria e una campagna di sensibilizzazione mirata, oltre all’uso di prodotti per la pulizia delle mani a base di alcool, in grado di eliminare la maggior parte dei virus.

Per quanto riguarda i dipendenti degli ospedali invece l’OMS dal 2009 prevede 5 momenti di igiene delle mani: prima di toccare un paziente, prima di procedure che esigono sterilità, dopo l’esposizione a fluidi corporei, dopo aver toccato un paziente e dopo aver toccato l’ambiente intorno a un paziente.

I principali ostacoli ancora da superare in questo senso sono però la mancanza di controlli sulla compliance e l’assenza di lavandini o dispenser appositi nella maggior parte delle strutture; troppo spesso inoltre i dipendenti non conoscono a fondo il problema o pensano che l’indossare i guanti sia alternativo all’igiene delle mani.


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