Venezia, 1751: L’assassinio della nobile Vittoria Basadonna all’Hotel Bauer Grunwald

VENEZIA – Quando Mary Roberts Rinehart, scrisse “The door” (1930), pubblicato in Italia nei Gialli Mondadori con il titolo “L’incubo” (1933), non avrebbe mai pensato che la frase “The butler does it”, il colpevole è il maggiordomo, diventasse un cliché.

La trama era molto semplice, Elizabeth Bell è una facoltosa zitella di mezza età. Attorniata da un manipolo di ambigui parenti, abita in una elegante dimora, assistita da un maggiordomo, Joseph Holmes, e da un’infermiera, Sarah Gittings. Sarah, da qualche tempo, ha cominciato a comportarsi in modo strano. Ma la stranezza si tramuta in delitto quando il corpo di Sarah viene rinvenuto nei pressi della villa. L’assassino è molto vicino, forse troppo vicino a Elizabeth Bell. Il romanzo ha un taglio decisamente psicologico. Ma è risaputo che spesso la realtà supera la fantasia. Forse, Mary Roberts non avrebbe mai pensato che ottant’anni dopo un delitto in Italia, ricalcasse il suo scritto. Dalla cronaca di questi mesi il delitto de l’Olgiata ha trovato una conclusione, Alberiga Filo della Torre, assassinata nel 1991, cadde vittima del suo stesso maggiordomo Winston Reves.
Ma è veramente sempre il maggiordomo da guardare con sospetto in un delitto?

E’ una mattina tiepida del 14 marzo 1751, siamo nel palazzo di Bernardo Gritti, a San Moisè, prima che nel Novecento fosse ristrutturato e diventasse l’attuale Hotel Bauer Grunwald. La servitù del palazzo si è alzata per le prime faccende. Sembra una mattina come tante altre ma il silenzio della casa è rotto da un urlo disperato che proviene dalla camera dove dorme la nobile donna Vittoria Basadonna, cugina di Bernardo Gritti. Una donna della servitù esce gridando che la nobile è stata ammazzata. In casa, in quel momento, ci sono Angelo Basadonna, due serve, un cameriere di nome Giuseppe di Latisana e lo stesso Bernardo Gritti. Viene avvisato immediatamente un prete ed il Consiglio dei Dieci. L’istruttoria del processo è affidata a Pietro Zaguri, il quale si reca a palazzo, assistito dallo scrivano Nicolò Cavanis e dal fante Giovanni Durello. Il processo, comprensivo degli interrogatori, prove raccolte e referti, si trova nei processi Criminali, serie dogado, del Consiglio dei Dieci e ci offre un interessante caso di giallo.
Poco dopo che Pietro Zaguri arriva a palazzo, sopraggiungono anche due chirurghi per il referto. La nobile è distesa nel letto, il corpo non è scomposto e se non fosse per tutto quel sangue, potrebbe sembrare solo addormentata. Vittoria Basadonna ha otto ferite, di cui sei mortali, alcune di queste le hanno reciso la carotide e la giugulare. Due ferite sono alla tempia e alla mandibola. Il decesso deve essere avvenuto nel giro di pochi secondi. Si perquisisce la camera e qualcosa colpisce subito gli investigatori.

La stanza è in perfetto ordine se non per un piccolo armadietto vicino al letto che presenta dei segni di scasso. Dentro dovevano esserci dei gioielli che non si trovano. Messa cosi, l’omicidio assomiglia a un furto finito male. Ma la chiave per aprire quell’armadietto era stata ritrovata dalla cameriera sopra l’armadietto stesso, bene in vista. Perché scassinarlo se il ladro poteva aprirlo con le chiavi? Non solo, in camera c’è un altro armadio, dentro viene trovato un piccolo tesoro costituito da oro, pietre preziose e perle.  Quindi, chiunque si fosse introdotto, dopo aver ucciso la donna aveva  lasciato il vero bottino e se ne era andato solo con quello che aveva trovato. Per fretta? Ci sono altre stranezze.  Le finestre che danno sul rio di San Moisè, non sono state forzate e le porte erano chiuse. La cameriera Elena Marcati, di Castelfranco, afferma che lei le aveva controllate personalmente verso le undici di sera ed erano tutte a posto. Per  salire in casa di Bernardo Gritti bisognava fare due rampe di scale, la prima di pietra, chiusa da una porta che dava accesso alla calle, mentre l’altra di legno, chiusa sempre con un altra porta. Ma solo la prima porta che dava accesso alla calle presenta la serratura forzata da dentro. Cinque chiodi della chiusura erano stati rimossi. La conclusione, quindi, è semplice. O il ladro era già dentro il palazzo o era entrato dalle finestre.
Secondo Bernardo Gritti, le finestre dell’ultimo piano alla sera erano chiuse, alla mattina furono ritrovate aperte. Anche la cameriera afferma che c’erano quattro lucernari in soffitta, dei quali uno comunicante con il portico della casa e quella mattina, proprio quello, fu trovato aperto anche se alla sera le sembrava chiuso. Lucrezia Basadonna, nipote della vittima, educanda al monastero di San Daniele, racconta ai magistrati che si poteva entrare in casa tanto dalla parte di Ca’ Veronese, tanto dall’altra parte per mezzo di una terrazza, di proprietà di Alvise Gritti.
Quindi, chiunque fosse stato poteva essere passato tranquillamente dai tetti, ma perché poi uscire dalla porta della strada anziché tornarsene da dove era venuto?
Il problema ora si focalizzava sull’ora del delitto.

Bernardo Gritti racconta che all’una di notte tutto era normale, si era poi alzato durante la notte per fumare ed erano circa le tre e non vide o senti nulla di strano. Angelo Basadonna, che dormiva vicino alla stanza dell’assassinata, era andato a dormire alle tre e non aveva sentito nessun rumore sospetto. La cuoca si era alzata alle sei del mattino. Quindi, l’assassino doveva aver ucciso la donna tra le tre del mattino e le sei, prima che la cuoca si alzasse. Ma come era possibile che nessuno non sentisse un rumore? Qui le cose si complicano e le ipotesi sulla morte entrano in quel campo confuso in cui si intrecciano teorie da libri gialli.
Alvise Gritti, fratello di Bernardo e cugino della vittima, racconta ai magistrati un altro fatto curioso. Angelo Basadonna ha un cane che abita in quella casa, il quale spesso abbaia, ma quella notte restò muto tutto il tempo. Perché? perché il cane quella notte era nella stanza di Giuseppe, il giovane cameriere. Giuseppe Zembler è al servizio in quella casa da alcuni anni ma secondo alcuni testimoni, in particolare secondo Alvise Gritti e lo stesso Bernardo Gritti, aveva un tenore di vita troppo elevato per la paga di cameriere. Il 16 marzo lo stesso Bernardo si reca nuovamente dai magistrati e racconta che ha saputo che Giuseppe spesso faceva entrare in casa sua, gente che non conosceva per suonare la chitarra di nascosto. Inoltre, era dedito alle risse ed almeno in una occasione viene trovato con un coltello stilatto in tasca. Ammonito che non succedesse più o sarebbe stato portato via dai zaffi, Giuseppe risposte che aveva la licenza in tasca per il porto d’armi. Era una licenza del Partitante della Balena.
Il magistrato Pietro Zaguri sembra perseguire questa pista. Manda ordini “di non dar cavalli a persone non conosciute, e defficienti de’ necessari requisiti, et a’ Ministri di arrestare quelle che si scoprissero vagabonde, sfaccendate, et incognite, sopra quali potesse cadere il sospetto di più enorme reità”. Un fante dei Capi dei Dieci viene inviato ai traghetti del Dogado per ordinare che non si dessero barche a chi volesse uscire dalla città se non a persone conosciute, e questo con pena della vita.

Il giorno successivo il Capitan Grande, Mattio Varutti, arresta un sospetto. Si trattava di Bastian, un amico del cameriere. Dopo alcuni giorni però lo si lascia libero avendo un alibi per il giorno del delitto. Si presenta volontariamente anche tale Domenico Gritti, riferendo che un sacerdote Don Giacomo Falconi aveva ricevuto delle confidenze da Lucrezia Basadonna sulla colpevolezza di Giuseppe.
Don Giacomo Falconi viene interrogato due giorni dopo, offrendo, però, una versione diversa. Lucrezia non disse mai che secondo lei Giuseppe era colpevole anzi, lo riteneva una buona persona. Anche Angelo Basadonna dice che il cameriere non c’entrerebbe niente con la morte della zia. Lui stesso, la mattina successiva alla tragedia, aveva controllato quel coltello trovandolo sporco di pesce e quindi non poteva essere l’arma del delitto. Sapeva benissimo che alcune volte aveva suonato la chitarra in compagnia di gente del popolo ma non ci trovava nulla di male. Perché i Gritti ci tengono a convogliare le indagini sul cameriere? Ci sarebbe da pensare, ma Zaguri è insicuro, forse non ci pensa o forse ci pensa troppo.
Il 22 marzo i misteri si infittiscono. A seguito di alcuni controlli si scopre che esisteva un nipote illegittimo di nome Bernardo Gritti. Il vero nobile Bernardo Gritti viene interrogato su questa persona ed afferma che era un figlio naturale del suo defunto zio Alvise Gritti, che aveva cambiato nome in Andrea Grotto per motivi sconosciuti. In quel periodo si trovava a Bologna a servizio della contessa Savioli e sebbene fosse un avventuriero, secondo lui non c’entra nulla. Anche quest’ultima traccia svanisce. Le indagini sembrano ristagnare, con l’unico risultato che solo il cameriere sembra sospettato per il suo tenore di vita.
Forse arriva la svolta qualche giorno dopo. Tale Gabriele Pasta riporta delle informazioni sentite da tale Anna, moglie di Domenico Donati, cameriere di Ca’ Pasta. Ma la notizia proveniva in realtà da Angela, figlia di Anna, la quale aveva sentito dire da sua madre che la cameriera e cameriere della nobile donna Basadonna, la sera del delitto avessero detto “si sta notte ne va ben sto fatto, domattina per tempo podemo andar via”. Si avviano i debiti controlli ed interrogato tale Goffrè Trombetta, testimone oculare del fatto e si scopre che è vero che due persone giovani si erano incontrate il 14 marzo verso le cinque, mentre andavano da San Lorenzo verso San Marco ed avevano detto “Se facessi il servizio questa sera potressi partire anche questa notte”. Ma il dettaglio non trascurabile era che non si era certi che fossero i due domestici di Ca’ Gritti, anzi, Angela si era inventata questo particolare, forse per enfatizzare il racconto della madre, dopo aver sentito dell’omicidio della donna. Nulla di fatto. In realtà il responsabile dell’inchiesta ha già qualcos’altro in mano, una pista che risale a pochi giorni dopo l’omicidio. Il 22 marzo si invia il fante Ignazio Beltrame a Lugo per trovare un contadino che si diceva aveva visto allontanarsi un sospetto nei giorni seguenti il delitto. Strano ma nulla di grave, se non fosse che quel sospetto aveva un fagotto con un fazzoletto che poteva contenere la merce rubata. Il fante trovò il testimone e riportò a Venezia tale Angelo Berti. Ma Angelo Berti si dimostra un testimone inattendibile, il dettaglio del fazzoletto non trova riscontro e forse quella persona non è mai esistita.  

Il 2 maggio l’avvocato Pietro Zaguri viene sostituito nelle indagini da Giacomo Angaran II.
Giacomo Angaran II cambia strategia e tra il 14 ed il 15 maggio interroga il cameriere Giuseppe Zembler. Non gli pone domande sul suo ruolo, è più interessato a scoprire i rapporti tra i nobili in quella casa e le domande fruttano alcuni particolari. Forse Angaran II sospetta qualcosa. Perché nessuno ha sentito il rumore dell’armadietto scassinato o della porta d’entrata. Si parla di uno strano sonno profondo, forse sono stati narcotizzati. Ma l’unico che non è caduto addormentato è proprio Bernardo Gritti. Ma sa bene che è difficile identificare i colpevoli in situazioni simili. I Gritti avrebbero avuto i mezzi e il tempo, magari con la complicità di Pietro Basadonna. Ma una incriminazione di due famiglie nobili cosi potenti, sarebbe stato uno scandalo enorme, in un periodo già economicamente difficile per la Serenissima.
Il 22 maggio 1751 si preferisce chiudere il processo. Giuseppe viene scarcerato con il giuramento che se avesse saputo qualcosa lo avrebbe dovuto dichiarare. Il 21 maggio con una maggioranza di 14 voti su 16 si emetteva un proclama nel quale si scriveva che chiunque denunciasse i colpevoli avrebbe ricevuto una taglia di 2000 ducati. Ma nessuno si presenta e due mesi dopo il 23 luglio viene deciso di prorogare il termine di un altro mese. Non sono stati trovati elementi sufficienti per formulare una accusa, Vittoria Basadonna era stata seppellita dal fratello Pietro Basadonna a San Moisè oramai da numerosi mesi e sul suo omicidio aleggiavano ancora le ombre dell’ignoranza.

Si erano interrogati 88 testimoni e non si aveva nessun colpevole, tutte le piste erano cadute una dietro l’altra. L’indagine dello Zaguri si era orientata subito sull’ipotesi che il colpevole fosse il cameriere, vittima innocente del suo ceto sociale. Qualunque cosa sia successa quella notte, qualunque sia la spiegazione di quell’omicidio, la morte della nobile Vittoria Basadonna, suscita ancora interessi e dubbi.
Nel 1984 Orazio Vecchiato, studia gli incartamenti e pubblica un articolo. Per lui la causa scatenante potevano essere stati i 230 zecchini dati per la dote a Lucrezia Basadonna nell’entrare in monastero, una somma ingente e troppo generosa per l’economia della famiglia. Forse Vittoria Basadonna aveva causato uno scompenso pericoloso per la sopravvivenza economica. Secondo Vecchiato, l’assassino poteva essere stato Alvise Gritti, dal quale era possibile arrivare a casa dell’assassinata, con la complicità del fratello Bernardo. Una teoria del complotto affascinante ma che ancora oggi, resta solo una teoria.

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