Pinochet e Rasputin: due anniversari di sangue

Due anniversari amarissimi e strazianti in questo dicembre: due anniversari di morte per due uomini che del sangue altrui ne hanno fatto il proprio nutrimento, al pari dei vampiri, nemici di ogni forma di democrazia e del concetto stesso di dignità umana. 

Dieci anni dalla scomparsa del generale Augusto Pinochet Ugarte: il carnefice della Moneda, l’autore del colpo di Stato in Cile ai danni di Salvador Allende, un criminale senza pietà e senza ritegno, un delinquente che, nei diciassette anni nei quali è stato al potere, compì massacri come quello dello Stadio Nazionale di Santiago che rimarranno nella storia come barbarie di stampo nazista, vergogne impossibili da cancellare e, al contrario, da trasmettere alle nuove generazioni, affinché non si perda nell’oblio la ferocia di quegli anni e si costituisca una sorta di argine morale verso i pericoli che il sistema democratico, purtroppo, corre ogni giorno.

Dieci anni e la presidenza di Michelle Banchelet, figlia di un oppositore che morì per un arresto cardiaco in seguito alle torture subite, torturata a sua volta e costretta a fuggire, insieme alla madre, prima in Australia e poi in Germania per scampare alla violenza indegna della giunta militare, eletta presidente nel 2006 e nel 2014 e in grado di rendere, almeno in parte, migliore un Paese in cui ancora si sente l’eco di quei due decenni di orrore, scolpiti nella memoria di chi li ha vissuti e aleggianti come spettri sopra la testa di chi sa di non potersi considerare del tutto al riparo dal ritorno di simili farabutti.

Dieci anni e un pensiero alla giovane e splendida deputata comunista Camila Vallejo, nei cui occhi brillano le stesse speranze e le stesse ambizioni democratiche che animavano la generazione di Sepúlveda e, di conseguenza, i protagonisti dei suoi capolavori. 

Dieci anni e la necessità di ripartire dagli insegnamenti di uno dei simboli della democrazia cilena, in un mondo più che mai bisognoso di socialismo e di libertà, di conquiste umane e civili, di figure alla “Pepe” Mujica, ex presidente dell’Uruguay, capaci di porsi nel solco tracciato da papa Francesco e di ricostruire quell’universo di valori che quattro decenni di ferocia liberista hanno spezzato via, calpestato e distrutto. 

Dieci anni e il desiderio di voltare definitivamente pagina: una volontà collettiva, un sogno che ci auguriamo si avveri, un passaggio d’epoca che abbiamo il dovere di osservare con speranza e apprensione, memori di ciò che Salvador Allende confessò il 18 ottobre del ’71 nel corso di un’intervista con Rossana Rossanda: “Se vincono i militari non sarà un cambio della guardia a Palazzo. Sarà il massacro”. E così, purtroppo, è stato. 

Quarantatre anni e una speranza da alimentare e rafforzare ogni giorno, da innaffiare come una pianta bisognosa di cure e da far vivere in ogni angolo del mondo, mettendo fuori gioco la malvagità e l’indecenza di un potere, quello di certe multinazionali e di un certo mondo bancario e finanziario, che oltre a non avere nulla di democratico, si fonda sul martirio del prossimo e sul sacrificio della persona e dei suoi diritti, a cominciare, ovviamente, da quelli dei più deboli. 

Lo stesso avveniva nella Russia iniqua e arretrata degli zar: un impero asfissiante che implose sotto i colpi di una rivoluzione di popolo, cui sarebbe seguita, di fatto, un’altra dittatura, la quale, tuttavia, ebbe il merito, non piccolo e tutt’altro che secondario, di restituire un minimo di riscatto e di dignità alle masse oppresse e desiderose di liberarsi dalla cappa di ingiustizia e di prevaricazione umiliante di uno zarismo ormai al canto del cigno. Era la Russia di Grigorij Efimovič Rasputin (assassinato da una congiura di palazzo, a San Pietroburgo, il 16 dicembre 1916): icona di un potere marcio, squallido, volgare, simbolo di una Nazione gigantesca ma condannata al declino, eppure dotata di uno straordinario amor proprio, di uno spirito indomito, di una passione civile che le consentì di ribellarsi, di un’ansia di riscossa che fu decisiva e, purtroppo, a sua volta sanguinosa, deflagrante, con conseguenze drammatiche e non certo scevra da nuove forme di oppressione e di degrado morale. 

Due uomini, due anniversari di morte e innumerevoli riflessioni sull’esito di due scomparse che hanno segnato altrettante svolte epocali per i rispettivi continenti: nel caso di Pinochet, il riaccendersi del desiderio di emancipazione e socialismo dal volto umano, allendiano per l’appunto, che ha sempre caratterizzato il Sudamerica, contrastato con ogni mezzo dalla CIA e da un’America che considerava i cugini del Sud alla stregua del proprio “cortile di casa”, ossia di un luogo in cui andare a sfogare le proprie perversioni e la propria volontà di potenza; nel caso di Rasputin, la nascita di quel blocco russo che avrebbe caratterizzato il “Secolo breve”, prima di dissolversi cadendo vittima delle sue stesse contraddizioni, del suo essere un gigante dai piedi d’argilla e del suo non aver mai risolto l’enigma di Rasputin, ossia della mancata risposta all’interrogativo su come si possa far coesistere una tirannide di fatto, mista a una condizione di povertà e di bisogno, con l’aspirazione collettiva al benessere, una classe dirigente sclerotizzata con la richiesta di maggiore protagonismo da parte delle masse popolari e la ristrettezza degli orizzonti perseguiti con la vastità di un territorio sconfinato. Nemmeno Putin è riuscito a sciogliere quest’enigma e il fantasma di questo santone semi-analfabeta incombe ancora sulla Grande Madre Russia, in attesa che il Novecento, conclusosi ormai da tre lustri, esaurisca per sempre il suo ciclo vitale.

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