Verso l’8 marzo. Donne lavoratrici fanno i conti con l’arretramento sociale

Alitalia: Il banco di prova di un paese dove i diritti sono diventati privilegi e dove il lavoro, un lusso per pochi

ROMA – Fra pochi giorni sarà la festa delle donne e mai come ora c’è così bisogno di parlare di donne: donne che lavorano, che sono figlie e poi madri. Ma cosa significa essere donna nel terzo millennio?
Non si può non ragionare sul sistema welfare che appare sempre più inadeguato e  sul pericoloso arretramento a cui stiamo assistendo, al fatto ineluttabile  che si stia tentando di far tornare le donne tra le mura domestiche.
E’ innegabile che siano le donne, quelle che più di tutti stanno pagando la crisi, quelle che hanno subito e continuano a subire i maggiori attacchi ai diritti faticosamente conquistati, al sessismo nel lavoro e alla discriminazione di genere.
Si potrebbe raccontare migliaia di storie di donne, farne un mosaico rappresentativo della società in cui viviamo, una società che  sta purtroppo tornando indietro di quasi un secolo.
I dati Istat del 2011, rappresentano uno scenario davvero drammatico, il 64% delle donne è disoccupata e soltanto il 73% lavora dopo la prima gravidanza e il 15% abbandona dopo il secondo figlio. A questo va aggiunto che è il sud del paese a essere il più colpito dal flagello della disoccupazione rosa.

Numeri mostruosi per un paese basato sul lavoro, viene allora da chiedersi se l’essere donna e madre debba essere considerato un fattore discriminatorio. Apparentemente no, ma i fatti raccontano una favola ben diversa, sono molte le donne espulse dal mondo del lavoro a causa della gravidanza e del diritto ad essere madri. E quelle fortunate, che hanno ancora il lavoro, sono spesso costrette a rinunciare ad una parte della retribuzione per prendersi cura dei figli e dei genitori anziani, per sopperire alla carenza di servizi sociali del paese.
Per non parlare delle donne pensionate, che  sono destinate ad avere pensioni sempre più da fame. La discriminazione subita delle donne lavoratrici emerge chiaramente anche  dal rapporto annuale dell’INPS; tra le donne sale di molto la percentuale  di chi percepisce una pensione inferiore ai 500 euro mensili, il 61% contro  il 50,8% del totale.
L’ aspetto più drammatico di questa situazione è  il profondo senso di solitudine che attanaglia le donne, la disoccupazione rosa non fa notizia, e come spesso accade le donne finiscono sui tabloide per questioni molto diverse, che aggravano il senso di frustrazione generale. Sembra davvero impossibile che nel terzo millennio le donne debbano ancora dimostrare che oltre ad un bel corpo c’è anche un cervello!
In questo mosaico di donne invisibili e discriminate, ci sembra rilevante parlare delle donne di Alitalia, che sono tra le prime ad aver assaporato-in una delle più grandi aziende industriali del paese- cosa rappresenti essere donna nel mondo del lavoro.

In seguito al fallimento di Alitalia S.p.A., nel dicembre 2008, tutto il personale fu  posto in CIGS e gli assets strategici passarono in mano a CAI – Compagnia Aerea Italiana. Quest’ultima azzerando  i contratti preesistenti  procedette a riassumere il personale di cui necessitava dal bacino della Cassa Integrazione.
Tale operazione doveva avvenire  nel rispetto all’accordo stipulato a Palazzo Chigi nell’ottobre del 2008, noto come “Lodo Letta”, che  prevedeva nei criteri di assunzione del personale di volo, vari fattori, tra cui,  i carichi familiari, con particolare riferimento ai genitori di minore con handicap ai sensi della L. 104/92.

A fronte di tale accordo, apparve tuttavia, evidente che la strada che intendeva percorrere la nuova compagnia fosse quella dell’aumento della produttività e dell’abbassamento del costo del lavoro. “Il miglior materiale umano a minor costo”- dichiarava l’Ad Sabelli nei giorni della vertenza Alitalia, che ha segnato uno vero e proprio sparti acque, nel  settore del trasporto aereo, e non solo.
Fino allo start up di CAI alle lavoratrici di Alitalia, come alle colleghe di altre compagnie aeree, era consentito in ottemperanza a una legge (151/2001)nata a tutela dei minori e dei disabili, l’esonero dal lavoro notturno.
Questo garantiva alle lavoratrici con figli minori di tre anni, genitori unico-affidatari con minori fino a 12 anni  o genitori con figli disabili, di tornare a casa la sera, per stare vicino ai propri bambini. Un diritto del minore dunque, tuttavia CAI, probabilmente per evitare rigidità gestionali, sottopose ai lavoratori una clausola ambigua, all’atto della firma della lettera di assunzione.  La clausola,  comportava l’espressa rinuncia ai diritti di legge, poiché la lavoratrice  accettava di lavorare più giornate consecutivamente, anche di notte.  Vale la pena ricordare che non firmare questa clausola comportava la non assunzione- spiega l’associazione per i diritti dei minori FamilyWay- senza neanche il sostegno della cassa integrazione.

In seguito, nel febbraio del 2009 un accordo siglato tra alcune organizzazioni sindacali e azienda stabilì che tutte le nuove assunzioni potessero avvenire indipendentemente dai criteri stabiliti, e su vari basi di lavoro, il che comportò che molte lavoratrici si trovarono costrette a rinunciare al posto di lavoro per non allontanarsi dai propri figli. Sancendo cosi la fine di ogni speranza di veder riconosciuti i propri diritti. 
Le conseguenze di questa gestione del personale sono drammatiche-spiega l’Unione Sindacale di Base-le lavoratrici che sono rimaste fuori dal ciclo produttivo per tale ragione, sono moltissime, molte quarantenni , con figli a carico, voci mute di un sistema cinico, basato sui canoni della produttività a tutti costi.

Le madri che hanno accettato di lavorare in questa condizione-continua FamilyWay- vivono il dramma di non vedere garantiti i propri diritti e quelli dei figli, costrette ad allontanarsi da casa, anche per sei giorni consecutivi, privando i figli ed i disabili delle uniche figure di riferimento, capaci di accudirli ed assisterli continuativamente.
A nulla sono valse le denunce delle lavoratrici, che per mesi si sono rivolte a ministri e istituzioni.
Questo meccanismo rappresenta un grave precedente, in cui i datori di lavoro all’atto dell’assunzione possono far firmare clausole “prendere o lasciare” cui i termini di legge vengono totalmente aggirati.
A queste si aggiungono le donne che sono state escluse dall’assunzione in base al raggiungimento, nell’arco della cassa integrazione/mobilità, del requisito minimo per andare in pensione-continua USB- e che oggi non solo vedono i propri colleghi di pari anzianità, nel proprio posto di lavoro, ma rischiano, in virtù delle recenti  manovre pensionistiche, di restare senza ammortizzatori sociali per molti anni.
Un vero e proprio esercito di povertà al femminile.
Le donne di Alitalia hanno quindi rappresentato il banco di prova di un sistema, dove i propri diritti si vedono rispettati sempre meno. Un paese in cui essere donna sarà sempre più complicato. Esattamente come un secolo fa.

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