Capitolo 4. Il Flaneur di Torrevecchia

Saluto Amadou e lo seguo. Camminando a passo svelto, ci addentriamo in vicoli e vicoletti, alcuni dei quali non illuminati. Arriviamo di fronte a un muro alto due metri, percorre una stradina che sembra riservata solo ai pedoni. 

– Qui le macchine non passano?

– Sì, ma non molte, solo chi ci abita. 

E continua, rivolto verso il muro: – Ti piace? Prima c’erano dei murales, poi il sindaco ancora in carica li ha fatti rimuovere.

– Ma è solo un muro…

Stringe il palmo della mano destra sulla sinistra. Si piega un po’. Appoggia le mani sulle sue ginocchia: – Metti il piede qui sopra, ti faccio da scalino. Arrampicati. 

Mi slancio e mi appendo al muro. Lui mi spinge il sedere e sono sopra.

– Buttati, che ti raggiungo!

Siamo in un percorso abbandonato, delimitato da due alti muri e segnato dai resti di un binario. Ai lati, mozziconi di sigarette, di canne, buste dell’immondizia. Un paio di materassi. 

– Vedi, qui ci sono ancora i murales!

Faz inizia a camminare e senza voltarsi inizia a spiegarmi:

– Una volta il trenino passava di qui, da Ostiense a Viterbo, attraverso Torrevecchia.

Io lo seguo guardandomi attorno e chiedendomi dove mi porterà. Continuiamo la nostra passeggiata fino a che il muro si interrompe, il binario morto attraversa una strada e poi prosegue fino ad arrivare alla stazione nuova. 

– Tutto inizia qui, qui dove c’era il passaggio a livello. Dove il traffico schizzava, impazziva. Questa è Torrevecchia alta. La strada inizia a Monte Mario e prosegue per Primavalle. C’era un confine tra due quartieri, tra due mondi. Oggi parlano del quartiere di Torrevecchia, un ibrido. Ma noi siamo o Primavallini o di Monte Mario. Torrevecchia inizia a Monte Mario. Trecento metri, poi il confine e prosegue per circa quattro chilometri per tutta Primavalle. Il cuore di Primavalle è all’altezza di Torrevecchia bassa. Io percorro questa strada tante volte di notte, ne conosco ogni traversa, ogni palazzo.

Allora gli domando: -E’ comunque sempre Roma?

– Non è Roma, è Primavalle. Per me è qualcosa di diverso. E’ casa mia. Ci sono centomila persone. C’è un modo di vivere diverso. A volte ci si sente tutti occidentali, ma qui, in questo posto c’è qualcosa di unico. Forse la sua povertà, la sua sofferenza. Forse la sua storia. Non lo sappiamo neppure noi, forse siamo degli illusi, forse siamo dei cretini. Non ci riteniamo più una borgata, non ci riteniamo un semplice quartiere di Roma. Non abbiamo grandi monumenti, non abbiamo grandi eroi. Ci lamentiamo di ogni cosa e tendiamo a nascondere i nostri ricordi, ce ne vergogniamo. Ma sotto sotto siamo orgogliosi del nostro angolo di mondo.

Dall’esterno, dal confine, la nostra passeggiata cambia direzione, si vira all’interno di un mondo altro. Al buio, ci avviamo verso il centro di una cittadina in sospeso tra la capitale e gli anni settanta. Un quartiere popolare che ricorda a tratti il far-west, a tratti un polo cosmopolita sui generis. Un borgo fatto di moduli abitativi e cemento. 

– Facciamoci tutta la Torrevecchia e vedrai. Vedi qui, allontanandoci dalla stazione del trenino, che non a caso prende il nome di Monte Mario, la strada inizia la discesa, verso la valle. Più si va in basso, più diminuiscono i soldi. 

– Perché, a Monte Mario sono ricchi?

– Eh! Si sentono ricchi! Monte Mario è un’altra storia molto complicata. Quelli che ci stanno vicini  non sono ricchi ma sono fasci. E’ verso lo stadio o a via Cortina D’Ampezzo che hanno la grana. Ce l’hanno eccome! I nostri rivali diretti sono i fasci, gli altri non ce li caghiamo affatto e loro non cagano noi. 

Tiro fuori la mia Moleskine e annoto: “Parlare della rivalità con Monte Mario. Del fascismo e della destra italiana”. Ho capito che qui esistono schieramenti antichi, che in parte condivido, ma che rischiano di trasformarsi oggi in una inutile guerra tra poveri. Dalle parole del Conte dovrei presupporre che chi ha votato Forza Italia risiede a via Cortina D’Ampezzo, ma non ne sono del tutto sicuro. Dovremo incrociare le categorie, ripercorrere una storia collettiva, reinterpretare dei concetti, chiarire la situazione attuale e forse confrontarci coi vicini. Combatterli con la poesia e “combattere” con questa anche quelli meno vicini. Un combattimento fatto di incontri e non di scontri.

Il Conte si sofferma un momento davanti a un edificio giallo a ridosso della strada.

– Vede questo palazzo? E’ una vecchia sede dei servizi segreti. Attivata ai tempi del terrorismo, gli anni di piombo.

Gli chiedo cosa ci sia oggi e se l’abbia mai visto dentro.

– Sì sì, certo certo.  Oggi è ridotto ad un ufficio mezzo vuoto, niente di che, cazzi piccoli e fregne mosce – mi fa il Conte, come se fosse la risposta più naturale del mondo. Annuisco e vado oltre, so che sarebbe impossibile approfondire in questo caso.

La mia attenzione viene poi catturata da una costruzione con le finestre murate.

– Perché? – chiedo perplesso, indicandola.

– Io sono nato lì, era un ospedale, poi una casa di cura. Ora ha chiuso ma hanno deciso di eliminare le vie d’entrata perché ci sono ancora dei macchinari e hanno paura che li rubino. Qui da noi sono stati capaci di smurare una macchinetta distributrice di preservativi…

Continuando a camminare, approdiamo davanti al benzinaio dove il Conte si ferma per salutare il suo amico bengalese. Li conosce tutti.

– Ciao bello come va?

Il bengalese annuisce con la testa per ricambiare il saluto e sorridendo gli fa: -Sempre a camminare, ma fa freddo!

– E sì, certo certo. Si è visto Due spaghi?

– Sta lì a pisciare.

Una sagoma nera è anticipata dalla sua ombra, lunga e imponente. E’ in piedi e si intravede un getto potente che piano piano prende vita tra i mattoni. L’odore acre si mescola a quello di benzina e all’umido della nottata.

Esce fuori una signora, una trans dal viso imbrattato di colori, minigonna di pelle e toppino. Ha un piercing sull’ombelico e la carnagione scura. Si avvicina fissandomi.

– Ciao calino, dieci la boca, venticinquo di dietlo.

Sono talmente imbarazzato e colto di sorpresa che riesco a farle solo la domanda più stupida che mi passa per la testa e  allora le chiedo se sia cinese.

Lei sembra divertita e guardandomi di sottecchi mi risponde:

– Ti ho capito a te. Sei uno di quei polcelloni che gli piacciono i mandalini – e scoppia in una risata ammiccante. Poi continua: – Sono come più ti piace: cinese, filippina, peluviana, giapponegla… anche italiana.

Allora il Conte Faz interviene per togliermi dall’imbarazzo:

– E’ un amico, non parlarci di lavoro.

– Li conosco bene, gli amici tuoi!

– Ancora con quella storia del vecchio Guantanamo.

– L’animale! Non me ne pallàle. Quel bimbo cattivo… Vi vanno due castagne?

Indietreggio d’istinto, non capisco dove vuole andare a parare. Al contempo non voglio sembrare scortese, allora mi giro verso Faz, aspettando che sia lui a rispondere.

La trans scorge il mio sguardo interrogativo e sempre più divertita alza la posta: 

– Se volete, anche un pannocchione! – e inizia a ridere istericamente.

Nel frattempo il Conte comincia ad emettere stralunati vocalizzi, come per schiarirsi la voce: – Sì, sì, scusate, è il peperoncino che con questo freddo mi secca la gola.

– Che peperoncino? – mi azzardo a chiedere.

– Sì, ho sempre quattro o cinque peperoncini in tasca prima di uscire e ogni tanto me ne metto in bocca uno. Quando si ammorbidisce lo mastico un po’, così, per tritarlo alla buona. Poi mando giù. Lo faccio per i capelli. Mi dà forza.

Ascolto la descrizione sempre più perplesso. Questo Conte è davvero stravagante. I miei pensieri vengono interrotti dalla voce di Due Spaghi che esclama:- Allola monto?

Non capisco neanche a cosa si riferisca ma mi affretto comunque a dirle di no. Loro però sembrano ignorarmi e in silenzio vanno ad appartarsi dietro al gabbiotto del benzinaio. Dopo poco inizio a sentire odore di bruciato. Penso alle parole dei ragazzi nel pub, alla storia della collezione di siringhe, a chi mi parlava di Faz come di un vampiro, a quest’ultima storia del peperoncino. Ora me ne vorrei proprio andare.  Invece, inizio ad avvicinarmi.

Ho un po’ paura, il solo pensiero di dover spiegare tutto alla polizia mi riempie d’ansia. Chiamerei Magdaleine, ma significherebbe convincerla a non raggiungermi. Prendo coraggio e faccio gli ultimi passi verso quello che ormai mi sto immaginando come il più macabro dei delitti.

Quando arrivo da loro quello che vedo è solo un barile di ferro con sopra un po’ di carbonella: stanno arrostendo una pannocchia e qualche caldarrosta. 

Due Spaghi è tutta indaffarata e quando mi vede allunga la mano verso il Conte: – Conte, passami giolnale che sta vicino al secchio.

Il Conte glielo passa, lei strappa un foglio, ci mette le caldarroste e mi porge il cartoccio:

– Folse a lei piacciono meno cotte…

L’atmosfera noir in cui mi sentivo calato solo un momento prima cede il posto ad una strana aria di familiarità. Il tepore che viene dal barile mi fa scongelare. Mi sento un po’ più rilassato, mi frego le mani e penso ad alta voce: – Ci vorrebbe proprio un bicchiere di vino!

Due Spaghi mi sente, fa un fischio da camionista e chiama: – Calletto, Calletto!

Un signore alto poco più del barile arriva correndo in pochi secondi. Ha il fiatone, è un po’ anziano. Ha una giacca di pile sopra alla canottiera della salute e dei boxer rosa. Sputa per terra e con voce carica di saliva e di stanchezza si rivolge alla signora:

– Amore mio dimmi, che t’è successo, t’hanno importunato? 

Tira fuori da dietro la schiena una mazza da golf e mi fa:

– Figlio di una buona donna cosa cazzo vai cercando in giro da queste parti? Questa è la mia donna! Ti spacco il culo sai…

Ho paura che gli venga un infarto, ma ne sono ammirato. Non sembra solo una “protezione” ma una sincera devozione. Non riesco a fare a meno di guardarlo stupito. Ha la barba sfatta, bianca. Ha il petto villoso, bianchiccio. I capelli gli incoronano il cranio solo sui lati. Il volto è stanco e rugoso, segnato da due folte e nere sopracciglia che gli conferiscono un’espressione sempre corrucciata.

– No, calo. Stavamo giocando! Volevamo sapele se ti è limasto un po’ di vino.

– All’anima de li mejo mortacci vostra e de chi v’è rimasto accanto! Certo che ce l’ho.

Si rilassa e solleva la mano, fiero di poter accontentare Due Spaghi. Poi si volta e si allontana, per ritornare dopo poco con due cartoni di Tavernello. Nel frattempo il bengalese ha tirato fuori due sdraio e la trans ha avvicinato il suo divano due posti, che ha una molla che buca il cuscino di destra. Ci sediamo mentre Faz distribuisce dei bicchieri di carta e mi presenta al vecchio. Lui a sua volta mi inizia a raccontare la sua storia: 

– Sto in pensione da due mesi. M’hanno dato la minima, ma so’ contento… de sti tempi! Ora faccio l’angelo de ‘sti poracci. So’ vedovo e non ho figli. Pe’ me il Tavernello è acqua benedetta. E’ come bagnasse le labbra ner deserto.  Questo me posso permette ma almeno me ricordo de quanno so’ stato giovane. Me fa riprenne. E’ questo che conta no? Te piace?

– Sì, è… fresco – rispondo annuendo, mandandone giù un sorso per far scendere la caldarrosta.

– Fresco eh? M’aspettavo che dicessi “equilibrato”… Er Conte dice che sei ‘no scrittore!

Mi sento all’improvviso toccato nell’orgoglio. Stiamo dietro a un benzinaio, di notte, tra caldarroste cotte su un barile, divani rotti e vino al gasolio, eppure quella frase mi fa sentire “diverso”, quasi deriso. Forse sono solo io a percepirla come una provocazione, magari vuole essere solo una specie di complimento. Allora decido di seguirla:- Beh, a modo suo può essere anche equilibrato…

Il vecchio ride mezzo compiaciuto. Non credo abbia inteso realmente il mio pensiero ma a lui va bene così. Mi sto accorgendo che in fondo è vero, sembra che ci sia più equilibrio in questo schietto teatrino notturno innaffiato di Tavernello che in quei tanti giorni in cui, sotto i riflettori di una squilibrata realtà ubriaca di champagne Dom Pérignon, sai di essere solo un attore come tanti.

Il vecchio tocca il culo di Due Spaghi che fa una risatina e si toglie la parrucca mostrando il perché di quel soprannome, mentre Faz tossisce e con una scossa esclama:

– Oh cazzo, che ora è?

Fa la solita mossa di arrotolarsi la manica del giaccone di pelle, controlla l’invisibile quadrante posto sul polso e afferma:

– Va beh, divertitevi, divertitevi. Noi dobbiamo andare.

Si alza di scatto, mi fa un cenno e si avvia rapidamente verso la strada, per proseguire questo profano pellegrinaggio alla scoperta di Torrevecchia. 

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