Capitolo 10. Bronx: l’umanità sfida il non luogo

Foto di Alessandro Schiariti

Foto di Alessandro Schiariti

Er polentaro alza con una mano il pentolone riparandosi il palmo e le dita con uno strofinaccio ripiegato su se stesso, nell’altra mano agita un mestolo:

– Tutti al loro posto!

Magdaleine si accomoda vicino a me, io le accarezzo la spalla. Con maestria la polenta viene spalmata sulla tavolata comune. Le donne del posto la coprono dei loro sughi, travestendola da cartina geografica ricca di mari di salsicce, isole di funghi, montagne di pomodoro, vallate di melanzane e laghetti di zucchine. Poi Amadou prende in braccio le sue piccole e loro cospargono a caso di parmigiano. Alla destra di ogni posto c’è una forchetta, alla sinistra un fazzoletto di carta, a trenta centimetri di distanza da ogni testa, più in là dell’ombra di ogni naso, inizia quella delizia collettiva.

Le forchette intagliano, afferrano, fluttuano nell’aria, suonano lo stare insieme. I soffi che raffreddano iniziano una canzone e il masticare tenero costruisce assonanze che sanno di legami senza pregiudizi.

Nonostante il clima familiare mi sento al centro delle attenzioni, come se prima o poi si debba parlare di tutto ciò che in questo momento mi sembra naturale dare per scontato, e allora gioco d’anticipo:

– Questo posto sembra una grande comune, ma Primavalle in realtà com’è?

Mi risponde uno dei signori italiani che abitano nel palazzo di Amadou. Si chiama Rino, ha fatto il liceo classico e poi il muratore:

– Primavalle era rossa, ma rossa che più rossa nun se pò. Mo è macchiata, è ‘na farsa. E’ molto più simile ar resto der Paese.

Sono molto incuriosito. Mi interessa andare più a fondo, conoscere la storia da chi l’ha vissuta.

– Fino agli anni novanta abbiamo retto, poi quarcosa s’è ingrippato. Non c’è stato il ricambio – inizia a spiegare Rino. – Non ci siamo capiti, c’è stata ‘na frattura. Anzi no, ‘na crepa.

Resto affascinato da questa immagine e allora gli chiedo: – Che differenza vedi tra una frattura e una crepa?

– Non lo so, forse penso ai miei genitori. Io je scappavo dalla finestra, l’avrei presi a carci pe’ scenne ‘n piazza. E loro lì a rincorreme. ‘Na vorta, ‘na vorta sola, j’ho dato ‘na pizza. A mi padre, ma piano. Lui s’è messo a piagne. Poi l’ho abbracciato, ma avevo creato ‘na frattura. Er movimento aveva creato ‘na frattura, evidente, insanabile. Loro, i vecchi, avevano davanti un modello borghese, inarrivabile e accettavano la loro inferiorità. Erano sempre pronti a sta’ a novanta e noi nun lo sopportavamo. Allora prendevamo ‘na chitara e nun importava che non la sapevi sona’, sonavi e basta. Perché non serviva prenne lezioni pe’ esse’ ‘n chitarrista. Come nun serviva avecce ‘na bella voce p’esse ‘n cantante. A noi nun ce fregava niente d’esse ben vestiti pe sentisse belli. E allora daje a uscì a torso nudo, omini e donne, senza timore. E sotto sotto quei bastardoni dei nostri genitori ce stimavano pure. Me ricordo quanno mi madre m’ha beccato in camera colla fija dell’amatissimo dottore. Io me la stavo a spigne, come ‘na cagna. Me faceva schifo e avevo lasciato la porta spalancata apposta. Volevo fajelo vedé che non c’era niente da’nvidiaje a st’animali da salotto. Facevamo scandalo, quante vorte me sò sentito dì: “Me fai prenne l’infarto! Assassino!”. Ma a me nun me ne fotteva ‘n cazzo. Pe’ me loro avevano fallito e io dovevo esse er contrario. Dovevo rompe le catene. Le catene mie, quelle d’en fijo, perché loro alle loro c’erano troppo affezionati.

– Quindi la frattura è una rottura? – Gli chiedo per trovare una conferma.

– Non proprio… – Mi risponde incerto Rino.

– Vediamo se ho capito…

Mi alzo e vado verso i secondi, prendo una costoletta d’abbacchio che avevo adocchiato. E’ stata impanata e fritta dalla moglie di Amadou. La spezzo – si sente lo scricchiolio dell’osso – ma in modo da non dividerla. Resta appesa, come se parte di un tendine, o un ossicino, o quel che si è solidificato di un impasto, di un lavoro artigianale, tenesse ancora unite le due parti.

– E’ qualcosa del genere?

– Bravo, c’hai preso! 

– Bene, ora resta da definire la crepa…

– La crepa e’ ‘n misto tra ‘na rota bucata e ‘n buco pe’ strada. O forse è ‘na rota che se buca pe’ ‘na buca pe’ strada. Ner senso che nun sai mai se te sei bucato te o se s’è rotto tu fijo. Fatto sta che s’è crepato ‘n rapporto e co’ questo te e tu fijo.

– Mi sembra un’immagine molto diversa dalla precedente, forse meno prevedibile, meno voluta, ma più difficile da recuperare.

Rino si commuove, tira fuori un fazzoletto di stoffa usato chissà quante volte. Lo cerca di aprire, nonostante sembri essersi seccato su se stesso a mo’ di cartapesta. Riesce a recuperarne un pezzettino ancora elastico e giù con la tamponata al naso. Poi col mignolo lo introduce all’interno della narice destra. Ruota il mignolo, prima in senso orario e poi in senso antiorario, si riprende bevendo un bicchiere di vino e fa scomparire il fazzoletto, riponendolo nelle sue tasche.

– Er fatto è che nun te n’accorgi. Che da ‘n giorno all’artro te li ritrovi grossi e qualunque cosa je proponi è troppo tardi. Te la bocciano. Nun ce capisci niente de quello che vojono fa’. Nun te cagano. Poi te ce abitui, passa er tempo e se smette de comunica’. Io per esempio nun so ‘n cazzo de mi fijo, a vorte penso pure che sia frocio. 

– Crede che invece suo figlio sappia tutto di lei?

– Ma de che… Nun me becca mai. Sa che so’ stanco, che me lavo, che magno a pranzo e a cena.

– Ma sa se è felice oppure se è triste?

– Che sa… Non so nemmeno se je fregherebbe.

– E suo figlio come è?

– E’ triste, Madonna quant’è triste! Ma che je devo fa’… Qui semo ‘n po’ tutti tristi.

– Ma a voi, quelli della vostra generazione, cosa è successo? Perché vi siete spenti?

– Da ‘na parte c’è stato Berlusconi. Per esempio la Standa, che qua ha chiuso subito, tra l’artro, c’ha cambiato il modo de fa’. Quanno se l’è comprata lui, se semo spaccati. Andacce o non andacce? Poi il sogno, che bene o male s’è ‘nfirtrato, ha preso tutti: meno tasse, il lavoro, er Drive In, la televisione commerciale, il sogno americano. Dall’altra parte l’eroina. L’eroina ha fatto tutto.

Si ferma e per un istante resta assorto con gli occhi al cielo.

– Qui l’eroina ha portato via ‘n sacco de compagni. C’è chi s’è bruciato, ma molti so’ proprio morti. E quanno se ne so’ annati hanno portato co’ loro anche parte de chi è restato. C’erano siringhe ovunque, non solo pe’ tera. C’erano siringhe nei giardini de scola, sulle cortecce dell’arberi. Sulle gradinate, sui terazzi, nell’ascensori, nei parcheggi, dentro le macchine parcheggiate. E noi, in mezzo a sta robba, c’avemo cresciuto i nostri fiji. Quanno li portavamo a gioca’ nel parco, dovevamo scanza’ le siringhe e a vorte, in giro, dovevamo portalli ‘n braccio pe’ paura che se pungessero.

– Ma perché ha avuto tanto successo questa droga?

– Mah, nun lo so. Io credo pure che è stata ‘na cosa mirata. Ce volevano fa’ fori.

– E come è entrata nel vostro mondo?

– Noi se divertivamo con niente, qua da ragazzi era tutta campagna. Se rotolavamo giù pe’ la valle. Oppure annavamo a vede’ la partita der Tanas, quanno venivano a giocà da noi c’era l’inferno. Er pomeriggio stavamo nei pressi de quella che mo chiamamo piazza Mario Salvi, pace all’anima sua. Se c’era da fuma’, se facevamo le canne. Ma nun te crede, er fumo nun se trovava, se ne facevamo quarcuna, ogni tanto, e se la passavamo. ‘Na cazzata de qua, ‘na cazzata de là, ‘n discorsetto politico, ‘na manifestazione, ‘na sonata. Poi, m’o ricordo come fosse ieri, nun se trovava da fuma’ in nessuna maniera. Erano settimane, ma niente niente niente. Noi stavamo ‘n piazza come sempre, era estate, c’era ‘n sole che spaccava le pietre, saranno state le tre de pomeriggio. Vedemo arriva’ er Mucchetta, che poraccio è morto quattro anni fa… O vedemo bianco, che se trascina. Je dimo: “A Mucché, che c’hai?”, e lui: “Ho provato ‘na cosa bellissima, è come ‘na bomba, ma morto mejo”. E quell’estate in tanti se bucarono. E’ stato ‘n flip. Ce so’ entrati a rota e noi tutti ce se semo abituati. Piano piano da punk semo ridiventati poveracci. E ‘nfine come l’artri, co’ a differenza ch’eravamo de meno e sempre in ritardo.

Mentre Rino fa un’altra pausa, deglutendo rumorosamente, cerco di cambiare discorso e gli chiedo dove facessero politica in quegli anni.

– Pe’ strada – mi risponde come se fosse scontato. Poi ci pensa su e aggiunge: – Mah, a di’ la verità, pure in sezione. Andavamo a quella der PCI. Quanno entravi là dentro te sentivi a casa. Io correvo a dà n’occhiata a L’Unita e er capo d’a sezione se ‘ncazzava. Mi diceva: “Tu se voi esse comunista nun te devi legge’ L’Unità, lascialo perde ‘sto giornaletto. Te devi impara’ a legge’ Il Sole 24 Ore, er giornale der padrone. Perché solo così poi capi’ come ragiona er nemico, solo così poi capi’ come risponneje”. 

Mi giro verso Noè che segue attento la conversazione:

– Tu avrai vent’anni meno di Rino: ci sei mai stato in sezione?

– Lì dai fasci mascherati? – mi chiede polemico.

– Non lo so, dimmelo tu.

– Sono entrato nella sezione del Pci, poi Pds, poi Ds, poi Pd. Convertita in Prc, poi Sinistra Arcobaleno, poi Rivoluzione Civile, poi confluita in Sel. Beh, c’è un corridoio lungo e stretto, alla fine del quale trovi una cattedra da maestro, con uno sfigato, uno solo che custodisce il posto. Non sai se c’è qualcosa oltre quella cattedra tanto è il timore misto alla rabbia che ti mette quest’uomo. Lui è lì a trattarti come un pivello, come se dovessi meritartelo quel tempo con lui. Ed è geloso e ti controlla ogni passo. Sembra pronto a tirar fuori una bacchetta per dartela in testa nel caso in cui tu cerchi di scorgere qualcosa oltre quel corridoio. Lui ti blocca la strada e infine scopri che oltre quel corridoio, aldilà di quella cattedra, non c’è più niente e nessuno. Le stanze sono state affittate a un gruppo che fa balli latinoamericani e la sezione per cinque giorni su sette non ha attività programmate, è praticamente chiusa al pubblico. 

Noè potrebbe essere figlio di Rino. L’altro punto di vista del suo racconto. E’ per questo che decido di chiedere anche a lui del rapporto con i suoi genitori. Per capire meglio quali dinamiche intergenerazionali vivano in questo posto.

– Sono il loro contrario, – mi risponde schietto Noè, –  vorrei esserlo per lo meno.

– Non ti sto chiedendo come vorresti essere ma come ti vedi realmente. E quello che ho capito è che sei un ragazzo fortunato. Hai un’idea netta perché netto è stato il modello che hai avuto davanti. E’ come uno che mangia tutti i giorni la pizza e poi ha voglia di pasta. Beato lui. Sei affamato di qualcosa e lo devi ai tuoi genitori, anche se sono diversi da te. Ci resterai male, ma si può dire che i tuoi genitori ti abbiano dato tutto. 

– Delemberte non mi faccia parlare…

– Senti giovanotto, rispondimi: cosa significa essere umano?

– Uomo, vivente –  balbetta, colto di sorpresa.

– No, intendo “essere” umano. Io sono umano, tu sei umano, ecc.

– Significa io sono uomo, io vivo.

– Ok, vuoi giocare. E cosa significa vivere da uomo?

Noè mi guarda perplesso: – Avere una storia che ha un inizio e una fine. Quindi essere destinati a morire.

– No, quello significa smettere di vivere, magari anche da uomo. Ma vivere da uomo oppure essere uomo cosa significa? Signor benzinaio, vediamo, cosa significa? – chiedo guardando Ascella che ci sta seguendo incantato e al mio richiamo sobbalza sulla sedia.

– Io? Che culo! Beh, io de uomo c’ho che ‘na lacrimuccia ogni tanto me scappa. Che ‘na cazzata ogni tanto la faccio. Che ‘e botte ce ‘e prenno. Che devo fatica’. Che vorrei sempre fa’ de più, pure se nun ce la faccio. So de n’esse ‘n dio. De n’esse miliardario, però ‘a mattina, si arrivo presto, ‘n caffè ar bar ‘o pago a n’amico e lascio pure du spicci de mancia se er cameriere me sta simpatico. Sì, perché so’ rozzo, ma so’ ‘n signore.

E tutti in coro: – Eeeeeeeeeeeeeeeeeeh! 

– Bravo il nostro amico. L’uomo è vivo percorrendo i suoi limiti. Lì è la sua esistenza. Nell’errore, nel limite, si manifesta per quello che è. Si mette continuamente alla prova, si fa creatura. Smette di non vivere, di non essere. I tuoi, caro Noè, ti hanno fatto uomo. E le tue idee, i tuoi progetti sono umani?

– Non lo so, mi dica lei…

– Noè, la certezza che tu hai si sgretolerà insieme alla nostra battaglia. Allora sarai come i tuoi genitori e poi diverso da loro. Ma non sarà per sempre. Non ci avranno mai!

– Ora gliela faccio io una domanda: qual è il suo progetto politico?

– Ci sono poche certezze in questo mondo, mi rivolgo ad Amadou per esempio. Sei italiano o maliano? Romano o straniero? Hai una bella famiglia o una famiglia povera? Hai una casa o è di un altro? Sono scelte, scelte che fanno gli altri per noi. 

Allora prendo la testa di Magdaleine tra le mie mani e le bacio la fronte. Lei non si oppone.  A quel punto domando alla piccola platea: – Cosa è successo?

Rino risponde prontamente: – C’hai provato!

– E si potrebbe aggiungere che lei ci sarebbe stata! – affermo provocando Magdaleine che replica stizzita: – Ti sbagli! Da cosa lo avresti dedotto?

– Non lo avevo dedotto, infatti. Era un tranello, ho fatto questo esempio per avere maggiori elementi per capire se ci saresti stata.

E Rino: – Che fio de ‘na mignotta! Questo colle parole e co’ ste cazzatelle ce se rivorta a tutti quanti!

– E no, caro Rino, non è così. Magdaleine mi ha fatto capire che non ci sarebbe stata. Questo significa che con le parole non ho ottenuto quello che volevo. Anzi, le parole, queste parole che sto usando in questo momento, mi stanno allontanando da lei. Lei si sentirà in imbarazzo e starà pensando: “Che cretino Maurice! Ma è questo il modo? Ma son queste le parole?”. Il linguaggio è la nostra arma, ma è un’arma dalla doppia lama. E’ un’arma che non si acquista dal ferramenta. E’ un’arma che sa di noi, che sa del nostro corpo, della nostra nudità, del nostro tempo, del nostro spazio. Se non rincorri la tua soggettività, se non sei in grado di distruggerti e ricomporti velocemente, se non occupi uno spazio, se non ti denudi di ciò che ti appiccica addosso questa sporca società e se non sei in grado di entrare in relazione con l’altro, l’arma non funziona. Il mio progetto è semplice: ognuno di noi deve essere se stesso, con i suoi limiti. Deve sfidare questi limiti e deve essere aiutato dall’altro a tentare di superare questi limiti, correndo il rischio di cadere. Ognuno dovrà trovarsi uno spazio, farlo suo e aprirlo all’altro. La voce viene da sé, sarà allora che saremo chiamati a scegliere le nostre parole. Non le stesse. Nell’incontro di diverse soggettività, nella somma dei nostri lessici più cari, avremo costruito un altro mondo. Avremo posato parole più pesanti delle pietre ed eretto un castello senza pareti. Lo abiteremo e lo faremo come stiamo facendo già in questo momento.

Nené alza il calice: – Che bella magnata! E’ proprio vero che colla panza piena tutti insieme se sta bene. Evviva le cuoche!

Parte un applauso ed io mi concentro proprio su di loro. Sono delle donne fantastiche, forti, passate dall’essere convinte rivoluzionarie all’essere casalinghe e poi lavoratrici e ancora disoccupate. Infine mogli, madri, di nuovo casalinghe e a tratti lavoratrici in nero. Comunque, ancora rivoluzionarie. La moglie di Amadou è una delle poche maliane arrivate in Italia.

– E’ incredibile quello che abbiamo fatto – mi racconta – di solito parte prima l’uomo, cerca di trovare una sistemazione e se Dio vuole dopo tanti anni torna nel suo Paese. Del suo percorso in Italia non si deve sapere nulla, sarebbe pieno di vergogne. Ma io non ce l’avrei fatta a lasciarlo solo. Amadou mi ha caricato sulle spalle nel deserto, mi ha dato forza quando forza non ce l’avevo. Io gli ho promesso il rispetto, l’amore. Arrivati qui è stato difficile, la nostra cultura vuole che io resti a casa e Bastoggi in questo mi ha aiutato. Ho difeso il nostro appartamento con tutta me stessa, non ho fatto entrare nessuno. Ma col tempo abbiamo capito che dovevamo diventare un po’ italiani. Ho cercato lavoro, ho fatto la donna delle pulizie, la badante, la parrucchiera. Poi sono arrivate loro, le nostre piccoline e io ho perso il mio ultimo lavoro.

La moglie di Rino è stata una prostituta.

– Battevo sulla Salaria, nun me vergogno. Lo so che je faccio male a Rinuccio mio a dillo in pubblico, ma ‘ntanto lo sanno. Nun batto più e lo devo solo a lui. E’ er core mio. Ma chi ce l’ha mannato! M’ha preso ch’ero sporca de fango, tutta ‘nsanguinata. M’ha portato qua, m’ha curato le ferite, come se ero ‘na cagnetta abbandonata, m’ha coccolata colle parole. E c’ha ragione Delemberte, le parole so’ tutto. Quella sera nun m’ha toccata. Alla mattina me ne sarei dovuta torna’ al palo. So’ uscita de casa sua, l’ho ringraziato e me so’ avviata. Poi però ho pensato che ce l’avrei potuta fa’, che ar monno nun so’ tutti zozzoni. Che io ero quarcosa de più de quella fessa tra le cosce. Ma c’avevo paura! Quello è n’ambiente dove te ce mettono e nun te ce fanno più usci’. Quelli so’ polipi che te strangolano. Arrivano dappertutto, nun te poi nasconne. Quell’omo là, quell’omo là –  dice indicando Rino, – m’o so’ ritrovata dietro, come n’angelo. M’aveva seguita. Me fa: “Vieni con me! A Bastoggi i papponi non possono entrare”. Ed io che nun ce credevo: “E le puttane sì?”. Sì le puttane ce possono entra’. Mai nessuno m’ha detto niente, eppure lo sapevano. Mai nessuno m’ha torto er saluto. M’hanno voluto bene e io oggi so n’essere umano.

La donna orientale che le sta seduta accanto è timida e minuta. Quando si accorge che è arrivato il turno della sua presentazione, si limita a sorridere e si nasconde dietro al marito, che spiega:

– Lei era stata promessa in sposa ad un imprenditore bengalese. Aveva solo dodici anni. Noi ci amavamo, ma io sono orfano dall’età di otto anni, non avevo la possibilità di essere rappresentato davanti alla sua famiglia. Siamo scappati il giorno prima del suo matrimonio. Se oggi tornassimo nel nostro Paese forse potremmo finire impiccati.

Allora la donna decide di prendere la parola e racconta:

– A Roma stiamo bene, Sakil ogni sera mi porta le rose che non riesce a vendere mentre io tutto il giorno sto con i miei bambini e con quelli delle mie amiche italiane. Sono una specie di baby-sitter. Certo, non mi paga nessuno, ma ho tante amiche e ci facciamo favori reciproci. Che ne so, noi non abbiamo la macchina, se ci serve un passaggio ce lo danno loro. La moglie del fruttivendolo ci porta la frutta, quella del macellaio la carne.

Chiedo se mangiano sempre insieme e Amadou sorride:

– No, questo è un grande evento! Siamo sempre a Bastoggi amico mio! Si guardi intorno!

– Male, da domani mangeremo sempre insieme e lo faremo qui. Gli uomini devono attrezzare una veranda. I residenti pagheranno tre euro a pasto, i non residenti saranno tenuti sott’occhio dal vostro cane e pagheranno dieci euro. I soldi andranno alle donne, li gestiranno loro. Piano piano avrete più clienti, più persone fidate che potranno mettere piede in questo luogo sicuro. E man mano che vi ingrandirete colorerete e pulirete questo posto.

Noècerca di riportarmi con i piedi per terra:

– Non è possibile, ci vogliono dei permessi, la licenza!

Ma io, fingendo una sicurezza che darà forza a tutti gli altri, gli rispondo:

– Non tutto è scritto nei miei libri. Siamo a Bastoggi: qui la polizia non può entrare. Perché dovrebbero farlo la guardia di finanza oppure gli omini della Asl? E domani fai venire qui a cena anche i tuoi!

Le donne sembrano preoccupate da questo progetto che le vede protagoniste: 

– Ma se non ce la faremo a fare pranzo e cena? Dobbiamo cucinare per casa e anche per tutti!

– Non avete capito, cucinare per casa coinciderà col cucinare per tutti. E poi se sarete stanche resterete chiuse. Che problema c’è?

– Ma come facciamo con la pubblicità?

– Direte che ci sono io! Useremo questa nuova bettola per degli incontri di politica clandestina!

Ninetto è entusiasta:

– Sei ‘n genio Delemberte! Ma tu’ moje che ne pensa? Non ha spiccicato ‘na parola.

Magdaleine a suo modo mostra di essere dei nostri:

– Sono una pittrice, mi piacerebbe lavorare per voi, datemi solo un po’ di tempo.

– Finalmente un sorriso! – festeggia Ninetto.

Magdaleine ha una sensibilità più profonda della mia, difficilmente sgorga in superficie. E’ violenta, la sua sensibilità, la smuove nelle viscere, ma si perde nel labirinto che avvolge la sua corazza.  Poche volte sono riuscito a metterla a nudo, ma ora più che mai non demordo:

– Mi ero veramente sbagliato poco fa?

E lei: 

– Cretino. Ti sei ricordato di prenotare due camere d’albergo?

Consapevole del fatto che il suo viso angelico si sarebbe trasformato in un broncio pieno di rughe e che le sue sopracciglia da bambola di porcellana si sarebbero spettinate e accavallate come quelle di un vampiro, prendo coraggio e rispondo:

– Staremo da un amico! Non ti preoccupare, tu starai sul letto ed io mi arrangerò.

Foto di Alessandro Schiariti

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P.S.

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