Capitolo 14. Walk of fame primavallina: affamati di vita camminano verso il linguaggio

L’appuntamento è per le ore 16 in Piazza Millesimo. Ci sono tutti quelli che ho conosciuto e tanti altri ancora. Il Conte suona la vuvuzela, Gino sta legando con una corda la piccola betoniera all’Ape. Dal finestrino della vettura si intravede la testona di Amadou alla guida. I ragazzi del circolo degli Scipioni indossano tutti nasi rossi da pagliaccio. Ci sono dei ragazzi bengalesi che con acrobazie si lanciano birilli.

Un gruppetto di ragazze ha costruito con il cartone delle ali da farfalla e le porta sotto gli zaini. Ci sono muratori che hanno staccato prima dal lavoro e c’è anche il parroco della chiesa. Intravedo Ascella, che ha deciso di coprire il logo della sua pompa di benzina attaccandosi sulla tuta le pagine di un libro: è “In cammino verso il linguaggio” di Heidegger. Ci sono famiglie con passeggini e signori anziani con in mano delle targhe di rame, incise con un coltellino. Ci sono il cameriere rapper e i suoi amici, hanno uno stereo e si alternano nel freestyle. Uno di loro è senza maglietta e indossa un casco su cui è dipinto un piccione. Chiede di fare largo, si butta a terra e inizia ad avvitarsi sulla testa. Il suo casco gira sull’asfalto e lui con i piedi all’insù. 

Li guardo con ammirazione.
-E’ breakdance, zio! – mi dicono schioccandomi le dita davanti agli occhi, come per destarmi dopo una seduta di ipnosi.
C’è la trans conosciuta nella mia prima promenade a Torrevecchia che dispensa palloncini gonfiati con l’elio ai bambini. Ci sono coppie felici che mostrano dei cartelli con la data del loro fidanzamento nella valle dell’insugherata e ci sono dei single che esibiscono cartelli con la scritta “Waiting for the Insugherata”, come se solo quello scenario possa vederli protagonisti di una magica storia d’amore. Noè ha con sé le bombolette spray e i fuochi d’artificio. Siamo quattrocento.
Dopo dieci metri la prima buca. E’ di Liliana, una bimba di cinque anni. E’ aiutata dai suoi genitori a coprirla con la supervisione di Gino. Alla fine la mamma le toglie la scarpina e la preme sull’asfalto fresco. Laurene fa scegliere a Liliana la vernice. Lei sceglie il rosso: prende la bomboletta e spruzza il primo colore della giornata. Altri dieci metri e un’altra buca: è la volta di Sayed, un fruttivendolo egiziano che sceglie il blu. E’ un gioco bellissimo. Mentre gli autisti bestemmiano perché costretti a dover deviare il loro percorso, noi ci riprendiamo la città.
Un autista si ostina a voler passare e, nonostante i vigili lo invitino a deviare, accelera suonando il clacson. Poi si affaccia ed urla:
-Ma che state a fa’? Tojeteve dar cazzo!
-Stiamo camminando – risponde serafico il parroco.
-Nun c’avete proprio niente da fa’! – sbraita di rimando lui.
Gino interviene con il suo noto savoir faire.
-Ma te, a biondo, ‘nvece ando cazzo vòi anna’? Abbassa la cresta e vedi d’annattene affanculo!
Mentre l’autista sta per perdere il controllo e fa per scendere dalla macchina, il conte lascia la vuvuzela, dà uno scappellotto dietro al collo a Gino e strilla:
-Fermo, fermo, stiamo per compiere lo sfregio dell’Insugherata!
Allora l’autista si ravvede, abbassa gli occhi e alza le mani: – Tanto de cappello!
Poi accenna un sorriso e fa retromarcia.
E tutti urlano in coro:
– Siamo degli eroi!
Via via che il corteo procede verso la valle, la coda del gruppo si fa sempre più lontana. L’ultimo piccione sfugge ormai alla mia vista. Continuano ad aggiungersi sostenitori esaltati o anche semplici curiosi. Decidiamo di girare per via Carlo Livi, una stradina ridotta a una groviera per il continuo passaggio di autobus e ambulanze. Vedo molti abitanti affacciati da finestre e balconi, tutti scattano foto, alcuni registrano con la telecamera e c’è anche chi si precipita di sotto per partecipare alla festa. Sembra che la gente stia prendendo coscienza che è così che si fa la storia.
Ci fermiamo in un grandissimo parcheggio, dove, mi spiegano, ogni domenica si fa il mercato.
Un signore mi chiede se può riparare un muretto e apporci la sua targa. Gli faccio notare che occorre della calce ma, se se la procura, può fare quello che vuole: questo è il suo quartiere, quello è il suo muretto.
– Il campo nomadi è là dietro, ci hanno preparato una sorpresa – afferma Noè indicando una strada di terra battuta che sale tra gli arbusti.
Arrivano otto ragazzi, vestiti eleganti. Hanno il codino, il pizzetto e gli orecchini. Sono di origine slava. Hanno con sé dei violini, otto violini. Poi arrivano delle ragazze. Gli uomini suonano e le donne ballano. Una musica coinvolgente, una tarantolata più elegante, più suadente. Le donne hanno dei nastri colorati molto lunghi, sono legati ai loro polsi. Queste ruotano su sé stesse come indemoniate, il suono dei violini addomestica il vento e i nastri vanno controtempo, come farfalle in mezzo al traffico.
Terminata l’esibizione domando:
– Che popolo siamo?
– Un popolo strano – risponde Nenè, – che po’ esse croce e po’ esse delizia. Sapemo fa grandi cose, ma più spesso famo ‘n sacco de cazzate. Semo bestie dentro delle gabbie. Rossi, gialli, neri, bianchi e verdi, semo tutti ghettizzati ma, se se liberamo e s’ncontramo, semo un popolo, uno solo, e bello, bello, bello!
Ora ci aspetta una grossa salita, via Sebastiano Vinci. Questa è la volta del Parroco. Carica la pala due volte e ripara due buche, su una pone il suo piede e con un ramoscello scrive “Fra”, sull’altra mette un rosario.
– E’ benedetto – spiega a due donne che lo stanno guardando incuriosite – Cristo deve stare per la strada, tra la gente!
Alle 17.30 arriviamo in Piazza Santa Maria della Pietà. Ci fermiamo un attimo e ci voltiamo per vedere il nostro lavoro. Forse il sole del tramonto, forse la differenza tra l’asfalto consumato e il bitume fresco, ma si vede ogni orma, il nostro percorso sembra la tavolozza di un pittore. Siamo convinti di poter riconoscere ogni nostra opera, di intravedere i bottoni, i tappi, i soldatini, le carte da gioco, tutto ciò che abbiamo disseminato come traccia della nostra passeggiata. Luccica tutto ciò che è a terra e per un attimo assecondiamo le nostre fantasie.
Poche decine di metri e siamo al confine.
– Cosa facciamo, sospendiamo il walk of fame o continuiamo a riparare la strada anche a Monte Mario? – chiedo.
Non ricevo risposta, ma la spensieratezza, la serenità, l’aria di festa, mi fanno capire che possiamo proseguire. C’è tanta leggerezza, non c’è voglia di provocare.
Superiamo via Trionfale e ci addentriamo per Via Troya. Siamo nel cuore di Guadalupe, la parte popolare di Monte Mario. Quella che a Primavalle definiscono “tanto povera quanto fascia”. Alla gente che ci vede passare sembriamo degli alieni: chi ci ammira, pensando che siamo poveri cittadini che vogliono svolgere del volontariato; chi ci osserva come se stesse assistendo a uno spettacolo circense. I più piccoli ci sorridono, sempre. Arrivati a Piazza Guadalupe incontriamo delle comitive di ragazzi. Sono rasati e indossano bomber nero, jeans attillati e anfibi ai piedi. Ci prendono per il culo. Noi ce ne freghiamo.
Gino non si fa sfuggire l’occasione per farsi sentire:
– Ve stamo ad aggiusta’ la strada, a cretini!
– A deficiente, ma chi te l’ha chiesto? – gli rispondono ridendo.
Appena li superiamo il Conte grida:
– Lo sfregio dell’Insugherata!
Allora i ragazzi si scaraventano per strada digrignando i denti per spaventarci ma i nostri rapper per nulla intimoriti si calano i pantaloni e gli mostrano il culo. La tensione si è alzata e inizio a temere il peggio. Allora vado incontro ai ragazzi.
– E te chi sei?- mi chiedono con aria strafottente.
– Sono Maurice Delemberte!
– Ah, er frocio venuto da lontano!
– Sì, sono il frocio.
– E che cazzo voi?
– Vi volevo spiegare cosa stiamo facendo.
– A noi nun ce ne frega ‘n cazzo. Le zecche da ‘ste parti nun ce le volemo.
– Sentite bene, noi stiamo tentando di recuperare un luogo pubblico. Non vogliamo risse, né brutte discussioni.
– Ce state a ‘nvade! E mo so’ cazzi vostra.
– Perché vi stiamo invadendo? Non ci sono primavallini che lavorano a Monte Mario?
– Sì, ma che c’entra.
– Ecco, fate finta che noi stiamo andando al lavoro.
– Nun è così. Voi ce state a veni’ a rubba’ un pezzetto de casa.
– Non lo stiamo rubando a voi.
– Ma che cazzo stai a dì?
– Una volta ci si ammazzava perché si era convinti che con le proprie idee si potesse cambiare il mondo. Ora voglio sapere che mondo pensate di cambiare impedendoci di riaprire il Parco dell’Insugherata. Vi sfido a chiedere a chiunque conosca quel parco se gli dispiaccia per la sua inaccessibilità. Sono convinto che anche i vostri amici riconoscerebbero un merito alla nostra azione. Ma voi, invece, che posizione difendete? Spiegatemelo.
– A ber frocione, a noi nun ce piacciono le zecche.
– Perché? Sono il vostro nemico? Sono le zecche come noi che hanno il potere oggi?
– No, ma sete voi che c’avete rovinato. ‘Sti drogati de merda!
– Io non mi drogo più, mentre voi state fumando hashish.
– Puzzate, rubate e volete campa’ coi sacrifici dell’artri.
– Quanti anni avete? Venti, ventidue? Chi di noi puzza è perché ha appena finito di lavorare. Non rubiamo, se no avremmo tanti soldi, tutti insieme, da comprarcela, l’Insugherata. Ma torniamo a noi… Quando fascisti e comunisti si menavano avevano delle idee da difendere. Non voglio entrare nel merito delle idee di allora, ma adesso mi sembra che dietro la vostra posizione non ci siano delle idee riguardo all’Insugherata, ma solo tanta rabbia repressa. Vi volete sfogare su qualcuno, allora non fatelo su di loro, fatelo su di me.
Uno di loro con fare provocatorio mi minaccia:
– Mo vado a prende il ferro in macchina e poi famo i conti.
– Se hai bisogno della pistola per farmi paura, allora ti aspetto.
– Sei un frocio!
– E tu mi vuoi sparare per questo?
– No, perché sei a casa mia, come te lo devo ripete?
– Se per te questa è casa tua, tanto di rispetto. Se a te basta questo per sentirti a casa, tanto di rispetto. Se casa tua è un posto chiuso e tu riesci a stare bene solo con te stesso, tanto di rispetto. Ma qui la questione è un’altra. L’Insugherata ora non è né casa tua, né casa nostra.
Arriva un quarantenne, vestito come loro:
– Lasciate stare, quel posto glielo abbiamo lasciato tempo fa e loro se lo sono fatti togliere. Non è mai stata roba nostra.
I ragazzi pendono dalle sue labbra e sembrano ritirarsi, al punto che anche io potrei andarmene ed accontentarmi. Ma non ce la faccio:
– Avete deciso di far finta di non vedere e vi stavate scagliando con chi vuole vedere. Perché?
Il quarantenne mi crede impazzito:
– Ma che cazzo stai a dì?
– Io non so cosa stia succedendo altrove, ma cerco di capire ciò che succede davanti ai miei occhi. E mi piace vedere cose che ritengo belle. Per questo parlo, per questo lotto, per rendere bello ciò che ho davanti. Potrei accontentarmi di quello che ho di fronte casa, lottare per quello, ma c’è qualcuno che ha la forza di andare oltre, di vedere oltre. Sono i miei amici primavallini. Per loro, come per chiunque, sorpassare il confine significa trovare la forza per far esistere qualcosa di più. Il loro è un atto coraggioso, perché davanti non è detto che troveranno sempre cose magnifiche. Strade spianate. E’ un impegno, perché vedere significa vivere, far esistere. I tuoi ragazzi invece pensano che gli si stia togliendo qualcosa. Non capisco. O l’Insugherata l’accettano così come è, e questo è inquietante, oppure la devono liberare anche loro. Mi preoccupano! Loro vedono, ma fanno finta di non vedere. Si lamentano, si arrabbiano perché ci si adopera per rendere migliore ciò che tutti, anche loro, hanno davanti agli occhi.
– A noi dell’Insugherata non ce ne frega un cazzo!
– Non esiste?
– Sì, non esiste. Non conta un cazzo.
– Non è così. C’è ed è uno scempio. E’ un posto che qualcuno ci sta negando.
– Stai fuori! Vattene prima che sia troppo tardi…
– Peccato, mi piacerebbe spiegare a questi ragazzi la differenza che c’è tra vedere e non vedere. Vorrei parlargli del concetto di vedere, insegnargli ad interpretarlo come un entrare in relazione con ciò che si ha vicino. Vorrei spiegargli i nessi con il concetto di esistenza e stimolarli all’idea di coesistenza, allo stare insieme.
Mi guardano come se stessi delirando. Alcuni sono nervosi, hanno gli occhi carichi di rabbia. Io mi adeguo:
– Vorrei perfino essere gonfiato di botte per discussioni come queste. Sono qui, su! Parlatemi! Menatemi! Ma vedetemi! Non continuate a far finta di non vedere!
Non capiscono (spero). Il quarantenne scompare e le comitive si riavvicinano ai loro motorini. Si rimettono sul sellino, a motore spento. Prima di riprendere a parlare delle loro cose alzano la mano destra tesa e mi urlano:
– Frocio, Frocio! Frocio, Frocio!
Con lo stesso tono e lo stesso ritmo del grido: “Duce, Duce! Duce, Duce!”.
Mi muovo verso il gruppo quando una ragazza mi si avvicina e, dopo aver richiamato l’attenzione dei fascistelli, mi stampa un bacio sulle labbra e grida:
– Evviva i froci!
Mi disinteresso dell’ennesima reazione del gruppo di provocatori e mi volto verso Magdaleine, ma in lei nessun segno di gelosia. Così la truppa primavallina esplode in un canto:
– Maurice, fajelo vede, fajelo tocca’! Oh Maurice, fajelo vede, fajelo tocca’!
Sono un po’ imbarazzato ma vado a riprendere la testa del corteo.
Tra pacche sulla spalla, abbracci e buffetti sulla guancia, ho scaricato tutta l’adrenalina che mi era salita.
– Sei stato un grande! – mi dice Noè. – Ma sai chi è quel signore?
– No, ma avevate ragione voi, alcuni di loro sono proprio da prendere a schiaffi!
– Quell’uomo è il presidente dell’associazione neofascista “Bastoni e bretelle”. Gli associati si riuniscono in un vicolo qui vicino. Usano la loro sede, un garage, per nasconderci le armi e organizzare squallidi raid di stampo razzista. Lei ha avuto le palle, Delemberte!
Mando giù un ettolitro di saliva e ringrazio la sorte.
Alle 18.30 scendiamo per Via delle Benedettine, gli ultimi getti di bitume. Ad accogliere la nostra stanchezza, poche case: il silenzio della valle lo si inizia ad assaporare.
Superiamo l’ultima costruzione, di fronte a noi abbiamo la valle. Se ne intravede il verde ma è recintata da una staccionata alta due metri. C’è un cancello chiuso con una catena ed un lucchetto.
Noè guarda un amico:
– Mario, fai il tuo lavoro.
– Avete una forcina per i capelli?
Magdaleine gli passa la sua e lui fa il resto.
Se le mani di un ladro fanno altro, sono mani d’oro e davanti alla banda si apre un nuovo mondo.

FOTO DI ALESSANDRO SCHIARITI
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