Martha J., il buon jazz lontano dai riflettori. L’intervista

ROMA – Italiana dallo spirito britannico e cultrice della buona musica, è arrivata al grande pubblico negli anni ’90 coi Proxima, partecipando anche al Festival di Sanremo. Una virata radicale verso il suo primo amore, il jazz, l’ha portata a pubblicare quattro dischi col pianista Francesco Chebat. In un’intervista ci racconta di lei e del suo amore per la musica. E, perché no, dell’importanza di imparare a riconoscerla.

Iniziamo con una curiosità: come è avvenuto questo passaggio radicale dai Proxima al jazz?

Il passaggio radicale in realtà è stato dal jazz ai Proxima. Io non ho mai seguito molto la musica italiana, perché studiavo in una scuola inglese, dove per farci tradurre spesso ci proponevano musica straniera. A 12 anni mi è scoppiata la Beatlesmania, e da lì  ho sempre seguito strade lontane dalla musica italiana.

Da qui anche la scelta di cantare in inglese. Una scelta coraggiosa, dal momento che per le case discografiche cantare in inglese allontana dal circuito italiano.

Sì, è quello che ci dissero a suo tempo anche i produttori dei Proxima per portarci a Sanremo. In quell’occasione, anche se l’inglese mi veniva più naturale, ho accettato di fare qualcosa che sentivo meno nelle mie corde per non perdere un’opportunità. Però oggi  ai miei allievi di canto dico sempre scegliere da soli le canzoni da cantare: il segreto di tutti gli artisti che hanno successo in qualunque ambito è che fanno quello che gli piace.

Ricapitolando, il progetto coi Proxima si chiude, tu approdi al jazz e nasce il tuo sodalizio con Francesco Chebat.

Sì, il bello di fare jazz è che conosci tantissimi musicisti, specie all’inizio. Poi, col tempo, magari decidi di avviare un progetto con qualcuno in particolare, e così è stato con Francesco. In realtà That’s it è nato per un’esigenza molto pratica: ero stufa di andare in giro coi provini e volevo avere in mano un disco vero. Siamo andati in sala di registrazione e da quei giorni di lavoro sono nati due dischi (l’altro è No one but you, ndr). Quando hanno iniziato a girare e sono arrivate le prime recensioni abbiamo capito che qualcuno si era accorto di noi e che c’era margine per lavorare.

E qui sorge il problema di arrivare al grande pubblico con il jazz. Sanremo ha contribuito a far uscire alcuni nomi sulla scena musicale, ma arrivare ai più è difficile.

Il problema è che in generale appena si sente rumore di spazzole o si nota un accordo un po’ più complesso del solito, subito si bolla un brano come jazz. In realtà non tutto è jazz: si può avere una cultura jazzistica, ma poi presentare un repertorio un po’ povero, che alla fine non piace neppure al pubblico, perché più complesso della tradizionale “canzonetta” ma non abbastanza da essere ritenuto interessante.

Tu hai lavorato molto all’estero. Che differenze hai riscontrato con l’Italia?

Negli USA ad esempio ci sono molti più spazi per suonare. La differenza sostanziale comunque è che  in Italia se non sei conosciuto non vengono a sentirti dal vivo, mentre all’estero sì, sono curiosi di venire a vedere cosa fai. Il nostro pubblico ha bisogno di essere rassicurato, mentre fuori c’è molta più disponibilità e molta meno fiducia in quello che viene proposto dai media.

Una differente cultura musicale, insomma.

Un mio amico a Philadelphia è stato chiamato a fare da giurato in un concorso di big band per le scuole medie e superiori. Ha visionato 90 big band di ragazzi, tutti in grado di leggere e capire la musica. Forse solo l’1% di quei ragazzi un giorno diventerà un musicista, ma tutti saranno in grado, da grandi, di scegliere da soli quali dischi comprare e quali concerti seguire, perché sapranno comprendere quello che ascoltano. In Italia le scuole non offrono la stessa possibilità: a capire, leggere e ascoltare la musica sono solo quelli che la studiano privatamente e con grande dispendio economico.

Questo si riflette anche nella difficoltà che i ragazzi hanno nel suonare nei locali: i compensi spesso sono ai limiti della decenza.

Anche negli USA ci sono dei locali che ti pagano a seconda della quantità di gente che porti nel locale, ma i compensi in genere sono dignitosi. Un episodio mi ha colpita: a Montréal abbiamo conosciuto un musicista che insegnava contrabbasso all’università, e riusciva a vivere del suo lavoro. Sai quanti allievi seguivano il suo corso? Sei. In Italia sarebbe considerato impensabile tenere in piedi un corso universitario seguito da sei allievi, in Canada no.

Un altro problema è che i musicisti spesso vengono considerati dei semplici intrattenitori, non degli artisti.

Nell’inaugurazione degli ultimi giochi olimpici mi sono arrabbiata moltissimo: durante l’esibizione del coro delle voci bianche i commentatori non sono stati in silenzio un attimo, la musica era considerata un semplice sottofondo alle loro chiacchiere. È quello che diceva anche Piovani in un’intervista che ho sentito tempo fa: la diffusione della musica nei luoghi pubblici spesso ne appiattisce il messaggio e la fruizione. Non si apprezza la musica come opera d’arte, ma come sottofondo per fare altre cose.

Torniamo al tuo lavoro: quando ho sentito i tuoi brani mi è venuta in mente un’intervista di Mauro Pagani, in cui si diceva che le cantanti in Italia oggi hanno uno stile piuttosto urlato, completamente diverso da quello che proponi tu.

Oggi il mercato propone cantanti che strillano invece di cantare, è vero. Però le canzoni che vengono proposte sono comunque difficili: bisogna studiare per fare certi esercizi vocali. Il problema però è che se alla fine hai la sensazione di aver ascoltato una bella voce, il messaggio a livello di armonizzazione, di melodia, di testi, spesso resta povero. I miei allievi spesso non riescono a scegliere le canzoni da cantare: iniziano a studiarne alcune, ma si rendono conto che anche se fanno una gran fatica per cantarle, alla fine non provano soddisfazione. E così iniziano a cercare altro, gruppi a volte anche sconosciuti ma più interessanti musicalmente.

Forse anche perché hanno una voglia di sperimentare che in questi anni in Italia è ridotta al minimo. Tu provi a sperimentare?

Lo facevo già coi Proxima, in realtà. Quando gli altri usavano la chitarra noi già proponevamo suoni elettronici, influenzati in parte dai Depeche Mode, ad esempio. Per me la musica oggi rimane ancora quella suonata, ma abbiamo fatto degli esperimenti di pre-discoteca con alcuni effetti elettronici. Non avevamo sequenze vere e proprie, suonavamo comunque tutto dal vivo, ma abbiamo usato un’app dell’I-phone per fare una batteria elettronica…una cosa buffa ma molto carina. L’idea che voglio sviluppare è prendere dei pezzi di jazz tradizionale che si possano riadattare per ottenere degli effetti lounge da proporre al di fuori dei circuiti classici.

E qui ci colleghiamo a un altro problema: il jazz viene proposto solo in locali specifici oppure all’esterno dei circuiti tradizionali sotto forma di riletture. È una strada possibile, quella delle cover?

In effetti noi stessi abbiamo proposto un tributo a Mina in chiave jazz, ma è stato del tutto casuale. Ho scelto le canzoni che Mina cantava con le orchestre, ed è venuto fuori un bel repertorio che Francesco ha arrangiato in modo molto intelligente. Un brano come “Grande grande”, che è in 4/4, è stato arrangiato in ¾, in modo che un orecchio non esperto possa comunque riconoscere la canzone, ma un musicista possa apprezzare il lavoro che c’è dietro. Le cover sono sicuramente un modo per avvicinare le persone a un discorso musicale più complesso, ma il rovescio della medaglia è che così si rischia di abbassare la qualità del messaggio. Il jazz è un linguaggio complesso, ma  negli anni ’20 passava nelle radio, così come nei tempi delle prime radio private venivano proposti i Genesis, i Jethro Tull, Emerson Lake and Palmer…

Quindi secondo te è un problema di cultura musicale da diffondere attraverso i media.

Esattamente. La semplificazione, l’abbassamento del livello, la ripetizione dei soliti stilemi non è mai una buona cosa. Oggi non c’è la pazienza di ascoltare, di sforzarsi di comprendere. Appena la gente ascolta un assolo che dura più di 30 secondi passa ad altro, se non capisce le parole di una canzone non ascolta più.

Cosa che accade anche e soprattutto quando le parole non ci sono proprio: penso alla musica strumentale, ad esempio…

Esatto, di musica strumentale per radio non ne passa. Sono pochi quelli che sono riusciti a farsi conoscere facendo musica strumentale, ed hanno avuto il pregio di avvicinare il pubblico alla fruizione di quel genere. Altri si sono dedicati alla radio o alla TV per farsi conoscere…penso a Bollani, che è un grandissimo musicista. Sarebbe bello che ora i media che lo hanno usato per fare audience sponsorizzassero anche la sua musica. In fondo, appena una casa discografica trova il coraggio di proporre qualcosa che è del tutto fuori dal circuito, il pubblico apprezza. Una delle frasi che ero più stufa di sentire quando bazzicavo l’ambiente delle case discografiche era “questo la gente non lo capisce”. Non è vero.

Forse la tecnologia può aiutare a cambiare le cose, in parte…

Ai miei allievi dico che oggi siamo fortunatissimi: quando ho fatto il mio ultimo disco con le major c’è stato un investimento economico incredibile. Inoltre potevi accedere ai media solo coi grandi canali ufficiali. Oggi con 2000 euro fai un cd. Puoi realizzare la copertina e le foto anche in casa o tramite amici. Hai a disposizione una tecnologia che prima non avevi o che costava moltissimo, e hai la possibilità di mettere il video su youtube e far circolare la tua musica, le tue idee. Questo è meraviglioso.

Quindi se si ha l’idea giusta tramite la Rete è possibile farsi conoscere…

Questo è quello che mi auguro. Bisogna solo riuscire a farsi vedere nel grande rumore di internet, dove finisce un po’ di tutto. Lo sforzo che va fatto è questo: trovare delle strade nuove, anche perché i dischi non si vendono più: si scaricano, si copiano. I musicisti che si guadagnano da vivere con la musica registrata sono cosa recente, prima la musica veniva propagata con altri sistemi.

Bisogna portare la gente ad ascoltare la musica dal vivo, insomma…

Sì, anche perché i canali che prima erano unici per farsi conoscere, tipo la tv, ora non sono più gli unici. Mi piacerebbe che la gente fosse curiosa, che non si fermasse a quello che ascolta sui media: c’è un mondo a disposizione in cui si può trovare di tutto. Sarebbe bello imparare a conoscerlo, per poter scegliere che musica ascoltare con consapevolezza, liberamente, senza limitarsi alle scelte che ci impongono i media.

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