Di attaccapanni, grucce, crucchi e crucci di Susanne Portmann

Continuiamo con la serie di racconti brevi, scritti da vari autori. Fino all’inizio delle vacanze, verranno pubblicati con una cadenza di circa dieci giorni. Vi presentiamo un racconto molto frizzante “ Di attaccapanni, grucce, crucchi e crucci”, di Susanne Portmann, ‘extracomunitaria Svizzera’

Quelli che scrivono, ho sentito dire tempo fa un leghista, sono dei presuntuosi, ma tanto più insopportabili se stranieri che persuasi di avere cose speciali da raccontare, schivano permessi e abilitazioni e esternano le loro vanaglorie storpiando la lingua italiana. Non sono riuscita a comprendere cosa volesse dire, dacché pensavo che alla Lega, della lingua italiana, non comunque importasse granché. Ma storia insegna che per quanto i leghisti possano fare affermazioni incomprensibili, è meglio starci attenti, perché prima o poi arrivano dove vogliono. Anch’io ogni tanto scrivo e da allora ho cominciato a fare scorta di quaderni e penne, in modo che l’introduzione di una legge che ne vieti la vendita ai non-madrelingue, non mi colga sprovvista. Perché non poter scrivere sarebbe per me una vera tragedia; senza, non saprei come venire a capo delle matasse che mi combina la vita. E questa delle matasse, tengo a precisare, non è un furtarello così, di una figura retorica italiana che mi sono fatta scivolare in tasca senza pensarci, come si fa con l’accendino chiesto al amico dopo essersi acceso la sigaretta. No, le espressioni “venire a capo della matassa” e “sbrogliare la matassa” sono le immagini più esatte di ciò che per me è lo scrivere e che la lingua italiana mi ha regalato.

Come veramente dovrebbe funzionare lo scrivere, non me l’ha ancora spiegato nessuno, ma a far caso al lessico esperto – filo del racconto, testo, trama, intreccio, motivo, ecc. – qualcosa a che fare con quella roba da donne del filare, tessere e fare la maglia deve avere. Per cui il problema di essere all’altezza non me lo pongo nemmeno: mia nonna mi ha insegnato a sferruzzare e a lei l’aveva insegnato la nonna e la nonna a questa e via addietro ai tempi in cui fare la maglia, filare e tessere non erano passatempi per casalinghe annoiate, ma serviva a non morire di freddo d’inverno; quando, essendo poveri tutti, non si doveva sprecare filo alcuno. Non so se sia una figura retorica anche questa del non sprecare filo, ma mi porta al punto dove per me, prendere carta e penna, diventa una questione quasi di sopravivenza. Faccio un esempio: c’e questa grossa matassa che mi sta dando del filo da torcere da molto tempo. Inizio dal bandolo dell’infanzia:

Quando avevo tre anni, i miei genitori, originari di un cantone elvetico dove si parla svizzero-tedesco, si trasferirono in un paesino sul lago di Ginevra, dove si parla lo “suisse romand”, ovvero il francese degli svizzeri-francesi che gli svizzeri-tedeschi a loro volta chiamano “wäutsch” (tedesco “welsch”); parola questa che, in origine e per i germanici, significava “straniero”, ovvero “celtico” prima e “gallo-romano” poi.

Mio padre fu mandato lì ad assolvere un corso nell’esercito. Erano i primi anni Sessanta, duecento chilometri rappresentavano una gran distanza e papà non aveva la macchina; trasferire anche famiglia, era l’unico modo per non vederci crescere a singhiozzo. Quando tornava a casa (sempre di rado), portava l’uniforme.

Andammo a vivere nel villaggio sui pendii del lago, in affitto in un palazzone nuovo, costruito a ridosso del cimitero sopra il paese. L’edificio possedeva le universali caratteristiche della speculazione edilizia incipiente: tutto cemento, muri esterni privi di isolamento, impianti e infissi scarsi, infiltrazioni e pareti ammuffiti per via del riscaldamento che funzionava male. D’inverno, se al pian terreno si sudava in canottiera, al quinto non bastavano tre piumini per scampare la polmonite, ma in compenso su, l’affitto era più alto per via della vista sul lago, che effettivamente devo aver intravisto qualche volte, nelle giornate senza pioggia e nebbia, e se mi sollevavano oltre il parapetto (in cemento) del balcone. Il contadino che si era visto includere l’appezzamento sul quale sorgeva il palazzo nella zona edificabile, non deve aver creduto alla sua fortuna. Le sue vacche non ci cedettero mai: a intervalli regolari facevano irruzione nel loro vecchio pascolo, a devastare il prato inglese che il portiere si dava pena di far crescere sopra i garage, tanto per dare un po’ di decoro al tutto.

I condomini del palazzo erano operai e piccoli impiegati, svizzeri e immigrati. Ma io allora non sapevo che esistessero né stranieri né immigrati; lì dentro, i bambini parlavano tutti francese e gli unici stranieri casomai, eravamo noi, che parlavamo “allemand”. Mia madre, con mio fratello appena nato, per aver un po’ di pace, di pomeriggio mandava “giù” a giocare me e mia sorella, raccomandando a lei di badare a me, la più piccola. Non ci piaceva scendere. Imparammo il francese nel giro di poco, certo, ma sin dai primi giorni e per tutto il nostro soggiorno, storpiando il nostro cognome, fummo soprannominate e sfottute portemanteaux − attaccapanni. Cosa che, appena capimmo il significato, ci faceva imbestialire. I maschietti, oltre ad essere in maggioranza, erano anche più grandi e comandavano. C’era anzi questa piccola gang che teneva in scacco i bambini del palazzo, capo un certo Manuel e il suo vice, un bambino chiamato Pierrot, tutti e due già alle prime elementari. Stabilivano loro i criteri per poter far parte del gruppo, e chi non li soddisfaceva aveva da sostenere una prova ogni volta che voleva partecipare ai giochi. Per essere ammessi, ci voleva anzitutto la macchina del padre, e mio padre, a lungo, non l’aveva. Poi, un giorno, tornò a casa con una maggiolino color grigio-beige-topo orrendo. Fu un bel giorno: papà ci fece fare un giro a noi sorelle sole, felicissime, anche perché per noi, questa macchina significava che finalmente saremmo potute entrare nelle grazie di Manuel e Pierrot e liberarci delle prove per giocare con gli altri. Ma ci spagliammo: Manuel (ricordo benissimo l’Alfa Romeo Giulietta verde scura di suo padre) decretò che le Volkswagen non erano macchine, ma delle “caccole di portemanteaux!” Non ci rimase che continuare con le prove:

Prova numero uno: Lanciarsi con il monopattino giù dal pendio ripido e sterrato che s’innalzava di fronte all’ingresso, infilare il portone aperto e fare il giro mortale attorno al parallelepipedo delle cassette delle lettere piazzato in mezzo all’atrio. Andare a sbattere era inevitabile. La volta che ci scorticammo mani, ginocchia e facce tutt’e due lo stesso giorno d’estate, il medico disse a mia madre che dovevamo proteggerci dal sole con dei cappelli per evitare cicatrici permanenti. E mamma mise mio fratellino nella carrozzina e scese con noi in paese al negozietto della signora Vernier. E’ così che ebbi il mio primo cappellino, di raffia bianca e a falda larga, che mi piaceva tantissimo perché mi faceva sentire mademoiselle, nonostante la faccia sfigurata. Ammetto che da allora ho sempre avuto un debole per i cappelli.

Prova numero due: Fare il giro del muro (di cemento) ad U del parcheggio, con i lati corti ascendenti e quello lungo alto due metri e passa. A sostenere questa prova fu sempre mia sorella; dovendo stare attenta a me, mi proibiva di farlo io, minacciando di fare la spia alla mamma. E lei ce la fece tante volte a conquistarci un bonus per i giochi. Ma poi cadde, si scheggiò un dente e per qualche mese balbettò. Cosa che mi riempii di rabbia e di sensi di colpa nei suoi confronti: rabbia perché a volerci provare sempre lei, ci aveva svergognate ancora di più (promosse ad attaccapanni balbuzienti!) e sensi di colpa perché si era fatta male per me. Faccenda che penso, abbia compromesso il nostro rapporto, forse sino ad oggi.

Prova numero tre: Rubare caramelle dalla zuppiera sull’ultima mensola nella credenza a casa di Pierrot. Questa prova aveva luogo il martedì, non so per quanti martedì, di sicuro cessò il martedì che toccò a me. Martedì, perché era il giorno assegnato alla madre di Pierrot per la lavatrice, che da noi, nei palazzi degli appartamenti in affitto, sono “in comune”. La madre di Pierrot lavorava e iniziava a mettere su bucati nel tardo pomeriggio. Quel martedì, appena scese a riempire un’altra lavatrice e stendere la prima, Pierrot la intercettò, si fece dare la chiave con la solita scusa che gli scappava la pipì e l’incursione partì: filammo al primo piano, Pierrot e io, la banda sotto a fare il palo. Entrammo, lui mi indicò lo sportello della cucina da aprire, mi accostò lo sgabello ed eccola lì, la zuppiera, di porcellana bianca e decorata a fiorellini, traboccante di liquirizie. Salii, ma non ce la feci a metterci le mani, ero troppo piccola e a tirarla giù avevo paura di romperla. E allora Pierrot, che di sicuro doveva essere goloso (me lo ricordo cicciottello), impaziente, mi spinse via e salì lui a riempirsi le tasche. Ma troppo tardi: giunse il fischio ad avvertire che la madre stava tornando. Ci beccò, Pierrot ancora sullo sgabello, che si mise a gridare, dando la colpa a me. E sua madre mi acciuffò per l’orecchio e mi trascinò su al quinto piano a fare una scenata a mia madre, tanto più mortificante che dovetti fare io da interprete all’accusa, perché mia madre non parlava bene il francese.

Prova numero quattro: Mettersi a stare in piedi sul muro del cimitero. Mamma ci aveva proibito severamente di avvicinare il cimitero e inculcato che al passaggio di un corteo funebre dovevamo rientrare subito in casa. Ignare di cosa fosse un morto, cimiteri e funerali (dato che non si dovevano vedere), ci ispiravano grande terrore. Su quel muro quindi non salimmo mai, nessuna delle due, impossibile infrangere il tabù. Tanto più spassoso era per la banda sfidarci da sopra il muretto, a darci delle attaccapanni-balbuzienti-codarde. Finché un pomeriggio di pioggia, Manuel scivolò e cadde dall’altra parte, atterrando in una tomba scavata a metà. Si ruppe un braccio. L’episodio – chi mai avrebbe potuto competere con uno che aveva visto una tomba dall’interno? – lo consacrò a capo indiscusso per sempre e lui continuò ad escogitare prove più o meno insuperabili per estrometterci dai giochi. Il tempo che abitammo nel palazzo, non riuscimmo a disfarci del nostro soprannome e raramente godemmo del privilegio di svagarci a nascondino o acchiapparella.

Molti anni dopo, chiacchierando con mia madre che, oramai anziana ama ricordare quand’eravamo piccoli, lei se ne uscì: “Ti ricordi i vostri due amichetti italiani? Giocavate sempre insieme quando abitavamo laggiù.” Mi sfugge come lei possa essersi convinta che “laggiù” noi avessimo passato il tempo a giocare beate con gli altri bambini, ma afferrai invece quest’altra cosa: che Manuel e Pierrot erano figli di immigrati italiani e che Pierrot dunque, non era un soprannome come sempre avevo creduto: quel bambino si chiamava Piero, pronunciato Pierò in francese, mentre Manuel sicuramente era stato battezzato Manuele.

Giunta qui, il filo del racconto si avviluppa e si perde in un groviglio insolvibile, lasciandomi in mano un gomitolo che basta giusto a fare una pezza senza maniche e piedi, brutta come solo possono essere quelle fatte di morale spicciola: essendo i bambini tutti crudeli per natura, noi pecorelle svizzere siamo state ripagate della stessa moneta che tanti lupetti elvetici hanno usato con i figli degli immigrati italiani, anzi − ci si ricordi di “Pane e cioccolata”! -, che gli svizzeri tutti hanno usato con gli immigrati italiani. Questa pezza susciterebbe persino il sospetto di revisionismo storico. Non può essere! Ricomincio dall’altro capo:

Quando sono venuta a vivere in Italia, presto appresi che qui, per via dell’occupazione nazista, i tedeschi si chiamavano e si chiamano “crucchi”. E sempre i primi tempi, un amica, a sentirmi chiamare quelli affari di ferro appesi negli armadi “attaccapanni”, mi apostrofò: “No, guarda che gli attaccapanni sono o a ganci nel muro o a stelo da terra. Quelle negli armadi si chiamano stampelle o grucce.” Rimasi turbata. Guardai quelle sagome risultanti da un abile avvoltolare di fil di ferro nell’aria e, improvvisamente, queste mi vollero sembrare sinistre, quasi potessero trasformarsi lì per lì in strumenti di tortura: “E perché le chiamate naziste?”, chiesi allarmata. E l’amica mi rispose: “Ma che stai a pensare! Grucce con la “g” e “cc”, singolare gruccia. Quelli sono i crucchi, c-r-u-c-c-H-i, plurale femminile c-r-u-c-c-H-e.” Certo, che ignorante! Quante figuracce, prima di affinare orecchio, vista e lingua e riuscire a pronunciare, leggere e scrivere decentemente senza perdermi costantemente nel fitto bosco italiano delle “g”, “gh”, “gl”, “gn”, “c”, “cc”, “ch”, “cch”, ecc., che in seguito si sarebbe trasformato nell’ incubo dell’esame di fonetica, zeppo di occlusive velari sonore e sorde, affricate postalveolare sorde, laterali approssimante palatali, nasali palatali, e astrusità simili.

L’efficace lezione di lingua della mia amica, non riuscì tuttavia a liberarmi dalla strana sensazione di angoscia, provata all’udire per la prima volta la parola “grucce” fissando le stampelle di fil di ferro. A casa non ne volli tenere più e a scorgerle in giro, continuavo a provare quell’inspiegabile malessere per via dell’associazione verbale tra “grucce” e “nazisti” che immancabilmente mi scattava.

Ed ecco che incappo di nuovo nel nodo arruffato. Ma cos’ho raccolto questa volta, se non lo smilzo batuffolo di un’isterica, lamentosa e tartagliona dell’italiano che nessuno ha pregato di venire ad apprendere?

A questo punto non mi resterebbe che tagliare il nodo gordiano e rassegnarmi ai miei due insignificanti e inconcludenti episodi autobiografici − miseri scampoli di spago, sanabili al più con lo sgraziato nodo dell’esperienza primaria che farebbe ridere pure le galline; e di lasciar perdere, farla finita, buttare l’intera matassa e impiccarmi una buona volta con questo cappio. Ma come faccio, questa è pur sempre la mia vita!

E’ quando vengo a trovarmi in situazioni come queste, che vado a prendere carta e penna, lascio fluire l’inchiostro e mi avvalgo della licenza poetica che sola può la magia di sprigionare il filo d’oro invisibile delle verità che scorre nelle nostre vicende, e che ci conferma che la vita sempre sta tramando un qualche senso. “Licenza poetica”, che magnifica espressione! In Italiano, sbrogliare storie non è mica sconveniente come in tedesco, dove “filare” è sinonimo di essere fuori di testa e raccontare frottole.

E allora… mettiamo che… una sera a cena, nel mio brutto palazzo, nel mio piccolo paesino sulla collina sopra il lago, a casa di Manuele o Piero:

Figlio:    Oh mamma, lo sai che quelle due nuove del quinto parlano proprio strano? Non sanno una parola di francese e neppure l’ italiano. Non capiscono un accidente di niente quelle femmine!

Madre:   Parlano tedesco. Impareranno presto, vedrai.

Figlio:    Oggi il loro papà è tornato a casa vestito da guerra. Ma dove va a combattere?

Madre:   Ma no, che non va a combattere, è solo in servizio.

Figlio:    Ma se è tedesco, ci attaccherà! Dovremo difenderci!

Padre,     facendo l’occhiolino alla madre: Bravo figliolo, meglio stare in campana, con questi crucchi non si sa mai!

Madre,   al padre: Non ti ci mettere pure tu!

Figlio:    Cosa sono i cru…gru…, come hai detto, papà?

Padre:     Una brutta razza, figliolo, proprio brutta!

Figlio:    Brutti quanto? Come gli zombie?

Madre,   lanciando un’occhiata adirata al padre: Basta, lo sai che poi fa gli incubi! E al figlio: Non esistono più quelli là, e neanche gli zombie esistono, papà stava scherzando, su adesso mangia!

Figlio,    dopo avere rimuginato per un po’: No, papà ha ragione, esistono e come! Quelli di sopra sono proprio grucce! Si chiamano così, portemanteaux, l’ho letto sulla loro cassetta delle lettere!

Genitori che si guardano e scoppiano a ridere.

Non potrò mai provare che Manuele e Piero abbiano sentito pronunciare dai genitori la parola “crucchi” riferendosi a noi. E neanche che a sentirne parlare, i bambini avrebbero potuto confondersi con le grucce, come feci io anni dopo. Ma voglio credere che le cose siano andate così. Perché soltanto per questa licenza di penna, i due bandoli della mia matassa mi si vanno a fondere nell’impagabile senso, che il mio venire in Italia a spaccarmi la lingua tra “c” e “g” sia valso a scoprire che da piccola, due bambini italo-francofoni − per merito di un loro formidabile loop interlinguistico disegnato dall’ingenuo e pertanto geniale nesso tra grucce e crucchi italiani, appendiabiti francesi e il nostro cognome tedesco – mi abbiano risparmiato il terribile nomignolo di nazista. Senso che peraltro, mi fa beneficiare dell’effetto collaterale, che le stampelle di ferro non mi ispirano più alcunché di inquietante, ma mi sembrano oramai soltanto e semplicemente brutte.

Perché scrivo in italiano? Forse anche perché non ho altra speranza di far giungere la mia gratitudine a Manuele e Piero un giorno. Anche per i cappelli − grande spesa extra per mia madre quel giorno, ma una delle poche stravaganze femminili che ogni tanto mi concedo.

© Susanne Portmann
Per gentile concessione dell’autrice

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