“Le porte incustodite” di Gian Carlo Zanon

Continuiamo con la serie di racconti brevi, scritti da vari autori.Questo è l’ultimo racconto prima delle vacanze estive, ci rivediamo a Settembre. Vi presentiamo “ Le porte incustodite ”, di Gian Carlo Zanon:  che racconta di una ‘strana’ immagine femminile affiorante …

Le porte incustodite

Era tornata. Tornava sempre quando era arrivata l’ora in cui il vento cambia direzione. Il suo apparire spesso era preceduto dal suono di vela che sbatte, per un maestrale, improvviso. Era tornata, e questa volta portava i capelli di un castano chiaro, e si erano baciati agli angoli della bocca, ed era perfetta nel suo vestito e nel suo profumo. Lui, vent’anni prima, quel suo modo di essere lo avrebbe definito ‘borghese’. Ora, semplicemente, ‘un incanto’.
Quanto si era incazzato quella volta che in mezzo ai compagni Lei aveva inarcato la spina dorsale affermando: “Io non sono femminista , io sono femminile”. Quanto si era incazzato. Il giorno dopo, forse, l’aveva anche odiata come si può odiare un amore che abita ogni piccolo angolo del corpo e del pensiero, anche quello notturno.

Anche lei mutava nel tempo. Per un periodo molto lungo, almeno dieci anni, aveva indossato un volto dallo sguardo triste, e gli ricordava quella ragazza che un amico chiamava col nome di ninfa marina. Un nome intessuto nei miti del Nord, trovato in un libro. Lui non ricordava quel nome. Quando pensava a Lei,  quel nome era onde di mare. Ma non ricordava quel nome.
Con quel nome, e quello sguardo marino, era venuta a trovarlo molte volte. No, non molte volte, quattro o cinque, forse sei, al massimo. Ricordava che una volta era apparsa nella piazzetta, sotto casa sua, e che era estate e che lei portava un cappottino marrone. Che assurdità! No? Con quel caldo! Ricordava. Ricordava che la ragazza col nome dell’onda di mare lo aveva guardato con occhi che arrivano in fondo, e muta aveva detto “che ci fai ancora, qui.” Aveva capito qualche tempo dopo quella lingua straniera. Aveva voluto capire solo molto tempo dopo quel linguaggio, che un tempo era stato anche suo, e lo aveva dimenticato.

Era tornata e Lui, ora, ricordava quando, per la prima volta, l’aveva veduta: la prima volta era su un aeroplano, seduta su una poltroncina rossa. Quella volta portava i capelli neri e un vestito con una scollatura dorsale vertiginosa, ed era affascinate come una star degli anni cinquanta, quando Lui era nato. All’hostess, che la importunava chiedendole angosciata ragione del suo divorzio, Lei, scocciata, alla fine aveva risposto, alzando la voce: “Ma ti pare che una donna come me – e aveva fatto un gesto eloquente con il braccio che diceva “Ma mi hai visto” – poteva stare per tutta la vita con Marianna”. Lui, per un momento, pensò di non aver capito bene, ma l’hostess, che assomigliava come una goccia d’acqua a quella cristianuccia di sua cognata, capì subito, e si allontanò a capo chino, piegata da pensieri  depressivi. Lui non pensò ad una coincidenza quando Lei pronunciò quel nome: Marianna era il nome della sua ex moglie.

Ci furono mesi di confusione e Lei venne di notte e con forza bussò alla porta della terrazza, e, aperta la porta, il suo sguardo deluso disse: “no, così no”. Quella volta  era una ragazza con lunghi occhi e capelli bruni e una luna enorme avvolgeva di rosso il suo corpo. Quella volta Lui capì, e da allora non tradisce le donne.

Ora, – quanti anni erano passati? Quanti? Cinque o sei? – era tornata. L’aveva incontrata tre volte in pochi giorni, e, Lui, era veramente preoccupato. Per venire ai tre incontri aveva indossato ogni volta uno sguardo diverso, e, così, non uguali apparivano i volti. A pensarci bene persino i loro corpi erano privi di significativa eguaglianza.

Al primo incontro Lei sedeva ad una tavolata, era pieno di gente e assomigliava a Serena, quella che andava sempre in giro in bicicletta e che una volta, senza rendersi conto, gli aveva detto del suo desiderio nascosto: il movimento degli umori, lì in basso, Lui lo conosceva bene, non poteva sbagliare …  ma aveva continuato a parlargli della nascente democrazia ateniese, di Clistene e Solone;  perché? Perché non aveva saputo far altro. E poi, probabilmente la ragazza della bicicletta avrebbe negato il suo invisibile sentire.
Ora se ne stava li seduta, con i suoi capelli ramati, insieme agli altri, e a Lui, che gli stava alle spalle, diceva che un po’ era ingrassata. Non era vero. Lui, nel modo assurdo dei quadri di Chagall, si era chinato su di lei, e le aveva sfiorato le labbra. Lei aveva risposto e il bacio era continuato in superfice, a lungo, come promessa di un amore che poteva essere ma che ancora non era; quel bacio era di quando inizia un amore e le labbra sono ancora avanguardie dei corpi. Quando, un po’ inebetito, si era alzato dal bacio, l’azzurro intenso degli occhi di Lei lo aveva sommerso ed egli si era sentito in apnea, sprofondato … nel Mar dei Sargassi. “Sono perduto” pensò.

Le immagini del secondo incontro non erano chiare, praticamente svanite. Ciò che rimaneva nella mente di Lui erano quegli occhi che, improvvisamente, avevano mutato colore, come attraversati da un maestoso pensiero. Non c’erano immagini certe, sapeva solo che Lei, quella volta, appariva poco più che adolescente, e che era venuta da messaggera, a ricordargli … le altre Lei.

Nell’ultimo incontro Lei portava i capelli castano chiaro ed era … perfetta. Venticinque anni, vestita da ‘borghese’ – avrebbe detto vent’anni prima -e nella festa si erano, sfiorati, e baciati agli angoli della bocca come un uomo e una donna che fanno l’impossibile per rimanere amici, e non vogliono esserlo. Lui aveva creduto a un bel gioco, che doveva fermarsi alla soglia dei trent’anni anni che li separavano. Lei, nel salone della festa, lo aveva affrontato, e labbra mute avevano detto: “tu sei in crisi”. Le parole erano esplose dentro di Lui e lo avevano tagliato in due, e inutili erano stati gli affannosi richiami alla ragione.

Ora, solo, in mezzo ai colleghi, pensava all’ultimo incontro. E pensava che quella sera si sarebbe visto con Elvira, e non avrebbe saputo guardarla, e si chiedeva se la sua compagna avrebbe sentito e quindi saputo di quell’incontro clandestino nel tempo ipnotico.
Da tempo pensava che la sua vita, finalmente, si fosse placata. Da tempo pensava che non sarebbe stato più necessario togliere le foto di donna che sorridevano nelle cornici sparse per l’appartamento. Da tempo pensava che sarebbero state le ultime ad entrare nelle cornici. Quelle poi catalogate nelle scatole da scarpe e nelle buste che teneva nel baule con lucchetto, se ne andavano, lentamente, ogni rara volta che le andava a visitare. Se ne andavano man mano che perdevano senso, nei suoi nuovi pensieri. Lui  doveva solo accompagnarle al cancello di casa.

Questo pensava, a un amore pacato, e invece Lei era tornata. Lui, prima degli ultimi ritorni, se ne stava li, ormai abbastanza tranquillo, tutto sembrava filare liscio come l’olio e poi … bum: “tu sei in crisi”. E lo sapeva che con Lei doveva farci i conti, ancora una volta. Non la poteva certamente cacciare. Anche se avesse voluto, non poteva certamente dirle di andarsene dicendole che Lui stava bene così, che non c’era nessun problema con Elvira, e che Lei non poteva permettersi, tutto ad un tratto, di mettersi a fare la strizzacervelli diagnosticando improbabili crisi.
Ma no, non poteva ribellarsi perché la ribellione era Lei. E quindi non poteva cacciarla, sarebbe tornata, come tornava sempre Harey, la protagonista del romanzo di Stanislaw Lem,  ‘Solaris’. Solo che quella era la morte, questa era la vita che diveniva, e Lui lo sapeva, da tempo.
Ora stava in macchina, tornava verso casa, e si rendeva conto, che le immagini di Lei, che permanevano nel suo ricordo, come cosa viva, man mano che passavano le ore, diveniva meno definite e reali. Solo le quattro dannate parole, “tu sei in crisi”, rimanevano inalterate come si fossero incise nel  suo essere. E lo sapeva che le quattro parole avevano piantato un seme nel suo pensiero e che non poteva far altro che aspettare la pianta che sarebbe nata in una primavera e cresciuta nell’estate. Non sapeva che pianta fosse, ma il piccolo dolore che gli procuravano le radici, nel loro cercare spazi nella sua mente, era già presente, come un presentimento.
Dimenticarsi di lei voleva dire rinunciare forse per sempre a ciò che aveva sentito in quel breve tempo degli incontri. Ma era stato poi così breve? “Il tempo delle sensazione non appartiene alle rivoluzioni astrali” pensò ad alta voce. Per Lui, le sensazioni, se si possono chiamare così, di quei ‘contatti’, erano così forti e già irrinunciabili. Quanto tempo erano durati gli incontri? Dieci secondi? Quattro ore? Impossibile saperlo. Sembrava una pazzia, mettere in discussione la propria vita per dieci secondi di quel ‘contatto’… e se invece fosse  solo follia? Quella follia che nel dormiveglia permette di pensare ai sogni come a veri accadimenti.
Lei era tornata. Tornava sempre nel tempo delle separazioni, prima del tempo delle separazioni, e gli metteva una domanda e il tormento addosso. Era tornata, e Lui non poteva mandala via, né farla sparire dalla sua mente. Lei sarebbe tornata; sarebbe sempre tornata, sfiorando le porte incustodite del sogno.
In mezzo al traffico della sera, infilò un cd nella radio, e con Manu Chao cantò, ad alta voce, il ritornello di ‘Me gustas tu’: “Que voy a hacer , je ne sais pas./ Que voy a hacer,  je ne sais plus./ Que voy a hacer, je suis perdu./Que horas son, mi corazón”.

 

Manu Chao – Me gustas tu

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