“Las golondrinas de Tartessos” di Gian Carlo Zanon

Continuiamo il lungo racconto  “Las golondrinas de Tartessos”, di Gian Carlo Zanon:  che narra dell’impossibile e inevitabile incontro scontro tra due identità tanto distinte quanto uguali nella ricerca della verità del rapporto uomo donna

Capitolo III

La sparizione di Lei lo colpì come un treno in corsa che si fracassa sulla pensilina gremita di passeggeri. Non c’era stato nulla che facesse presagire questo suo allontanamento, che sembrava volontario … se non quella strana sensazione avvertita quando la nave si era staccata dalla banchina a Civitavecchia , e altre immagini indefinite che ora Lui cercava di incastonare in una  imprecisa logica, sperando che potessero chiarire, spiegare la scomparsa della Sua donna.
L’unica cosa certa era il fatto che entrato nella stanza non l’aveva trovata, e la valigia di Lei non c’era più, come non c’erano più i suoi oggetti e oggettini che fino a un’ora prima avevano colonizzato il bagno. Lui era tornato trafelato e confuso e disorientato per il suo incontro con Rocio, era salito al piano, entrato nella stanza, la porta era aperta, e Lei non c’era più.
Lei era lì quando era uscito quasi di soppiatto, approfittando della rêverie, dopo la siesta, nella quale Lei era ancora immersa. Aveva borbottato una scusa per uscire da solo: “Vado a prendere un’altra bottiglia di manzanilla, nel negozio qua sotto, torno tra dieci minuti”, le aveva detto, pensando che il dormiveglia le avrebbe alterato la percezione del tempo. Lei aveva risposto con un sospiro.

Ora era tornato e Lei non c’era più. Si disse che doveva calmarsi e mettere in ordine i pensieri e gli accadimenti di quell’ultima ora … quanto era passato da quando era uscito? Guardò l’orologio: più o meno un’ora e venti minuti. Ma si doveva calmare, era nel panico: in pochi minuti era passato dalle fantasticherie sessuali su Rocio, che avevano cancellato completamente dalla mente la sensazione dell’esistenza di Lei, alla sua vera assenza, fisicamente tragica.
Doveva calmarsi, era in pieno panico, le labbra erano divenute aride in pochi istanti e Rocio era scomparsa dai suoi pensieri, per riapparire un attimo dopo solo come causa della catastrofe. “Ci ha visti – pensò, e il cuore ebbe un sussulto – ci ha visti e se n’è andata. Dev’essere andata così.”
Si sedette sul letto che aveva ancora il suo odore e il segno del suo viso abbozzato sul cuscino. “Non può essere andata che così. Si è alzata, è scesa al negozio, non mi ha visto, ha immaginato cosa stavo facendo, mica è scema, è venuta al museo, e ci ha visto. Certamente non gli è sfuggito il mio interesse per Rocio. Non mi ha detto nulla ma è da ieri che è strana e lontana. Si non può essere che così. Ci ha visti, ha fatto le valigie e se n’è andata”.
Scese nel patio, passò in mezzo ai tavolini, ora vuoti, dove avevano fatto colazione al mattino, si avvicinò alla reception dove Javier guardava incantato una partita di calcio: “Scusa Javier, ha visto, la mia… mia moglie … sono salito su, ma lei non c’è … e manca anche la sua valigia. È passata di qui? Ti ha detto qualcosa? L’hai vista passare? Uscire? Rientrare?” … man mano che le parole gli uscivano dalla bocca, che era diventa un impasto salato, capiva che il suo castigliano quasi perfetto vacillava sotto la morsa dell’ansia e poi c’era quello strano sguardo del ragazzo nel quale leggeva un certo sarcasmo, che gli paralizzava il pensiero. Non capiva perché non rispondeva; stava lì a guardarlo con una espressione, per Lui, inquietante.
Pensò che Javier sapeva già tutto, d’altronde da subito aveva fatto amicizia con Lei, e ogni volta che passavano nel patio il ragazzo le faceva qualche complimento o scherzavano insieme … “Ma guarda sto stronzo, manco mi risponde” pensò; e senza un cenno di saluto uscì quasi di corsa per strada, e questa volta stava così male che non avvertì quella strana presenza che l’avvolgeva.
Se ne rese conto poco dopo al bancone del bar dove si era fermato per togliersi dalla bocca quel sapore di fiele: pensò per un attimo di nuovo al fato, ma l’angoscia lo allontanò dai pensieri creati da quella invisibile sensazione. Si mosse per un tempo indefinito senza un pensiero compiuto portandosi nella mani la busta con la manzanilla, che aveva acquistato come scusa per la sua uscita clandestina. Poi si sedette su una panchina, in una piccola piazza alberata; da lì si vedeva anche il mare, e la mente andò a quei giorni dolci e salati che aveva trascorso con lei a Cádiz, prima di entrare in quel … cazzo di museo dove aveva incontrato Rocio, la fonte di tutti i suoi guai.

Capitolo IV

“Buonas dias señor, necesitan un guia?” Le parole lo raggiunsero nell’androne del Museo del Megalitico. Si girò e davanti a Lui c’era una donna bionda: “que guapa” pensò. “Credo di sì – rispose subito – una guida ci farebbe comodo. Aspetti un attimo … mia … la mia compagna è andata a prendere i biglietti per l’entrata … un attimo”. Lei li raggiunse dopo dieci secondi con uno sguardo incuriosito “La signorina è un giuda. Che dici? Per te va bene?” Poi rivolto alla donna bionda : “Lei parla italiano?”
“Si” disse e si presentò, mostrando loro la tessera di guida autorizzata che portava appesa alla cintura. Si chiamava Rocio Alarcon Uribe, insegnava storia dell’arte nelle medie superiori, e d’estate accompagnava i turisti nei musei della città “Più per piacere di conoscere e dare conoscenza alle persone che per il denaro”, che era venti euro per la visita guidata al museo.
Lei la guardò, lo guardò, poi fece un cenno di consenso, ed entrarono insieme nelle sale del museo.

Ora la mente si era placata e seguiva le immagini della  memoria che gli mostravano Rocio camminare innanzi a loro, e il suo fermarsi, e quel suo modo di raccontare la storia che si fondeva con i racconti mitici di popoli tartessici: Rocio narrava, in quel suo italiano indurito dal suono iberico, di come, ogni giorno di fronte all’oceano, i nuovi e gli antichi abitanti della costa atlantica, vivessero la sensazione contradditoria della frontiera e dell’infinito. L’orizzonte del mare teso come una barriera insormontabile e irraggiungibile plasmava il loro essere e dava loro una vita lunga e felice ai margini del mare visibile e dell’oceano sconosciuto. Almeno così credeva Rocio.
Forse era quello il motivo per cui Tartessos era ricordato come il regno ‘asombroso’ epiteto che racchiudeva il senso di oscuro e misterioso. Almeno così sosteneva Rocio.
Poi la loro guida bionda disse quella frase che lavorò dentro di Lui come una sfida “Ma i confini sono solo varchi da oltrepassare immaginando altri ‘infiniti mondi’”. Lei forse si accorse che qualcosa stava succedendo e lo guardò a lungo, ma lui ‘se n’era già andato’ appresso a Rocio, e non si accorse di nulla … o quasi.
Rocio li portò davanti ad un contenitore di vetro e indicò un utensile di pietra che aveva nel mezzo un profondo solco e ai lati dei simboli incisi che assomigliavano molto a segni fonetici. “Questo è il famoso ‘pulitore di frecce’ sul quale sono incisi dei graffiti astratti, nel senso che apparentemente non raffigurano nulla presente in natura, a meno che questo – e indicò un segno che si allargava come fossero due ali – questo non rappresenti una rondine in volo: ma avrebbe poco senso in questo contesto. Questo oggetto è rimasto qui per quasi cinquant’anni senza che nessuno pensasse a questi simboli come ad una scrittura indigena. Solo ultimamente una ricercatrice dell’Università di Madrid, ha intuito la loro importanza e sta eseguendo vari ricerche per dar valore alla sua tesi sul valore semantico delle incisioni. Finora però non si sa a che suoni corrispondano questi segni, in poche parole non si sa cosa ci sia scritto su questo utensile…” , “Saranno istruzioni per l’uso” disse Lui interrompendola sgarbatamente, gongolandosi soddisfatto della sua freddura. Bastò un’occhiataccia di Lei per far tornare la ricerca su binari di serietà. Questo modo di fare non gli apparteneva, chissà cosa gli era preso, pensò Lei, ma lui non ancora soddisfatto della figura di merda, si volle prendere anche una stupida rivincita: “D’accordo , d’accordo, ma non possiamo sempre pensare che questi stavano tutti il giorno a scrivere poesie. Mica c’avevano tutto ‘sto tempo libero … nooo?”

L’imbarazzo fu un po’ stemperato da una risatina pochissimo convinta di Lei, e la donna bionda riprese a parlare in quel modo che a volte diventava poeticamente visionario e sibillino: “Qui siamo in un luogo dove la storia e il mito si abbracciano come amanti che generando immaginazioni e intuizioni, tentano di spiegare cosa accadde in queste zone tremila e anche cinquemila anni fa. La scienza ci può aiutare solo a stabilire, a volte, le date dei manufatti, niente di più. L’immaginazione, la passione, e soprattutto sapienza sulla realtà umana, dei ricercatori può, avvicinandosi alla verità, far diventare storia il mito. Con tutte le imprecisioni del caso, s’intende. Ma a volte è meglio un mito semi-storicizzato che la storia che siamo soliti studiare”.
E si fece silenziosa per qualche decina di secondi, per poi ritornare a parlare guardando senza guardare ciò che i suoi occhi fissavano: “La storia che raccontano gli uomini è una storia di battaglie: le Termopili, Platea, la battaglia di Canne, Aleksander Nevskij  sul lago Peipus, Waterloo, lo sbarco in Normandia … la storia delle donne è diversa. La storia che raccontano le donne è un grido inascoltato che emerge dalle pieghe del tempo e si infrange, inascoltata, sulle scogliere della dimenticanza. Poco rimane di essa  …”  Poi si scosse. Guardò l’orologio “La visita è finita” sentenziò, con un sorriso di cortesia. “Prende un caffè con noi” disse Lei senza consultarlo, tanto sapeva che la cosa gli andava più che bene.

A questo pensava sulla panchina. Poi vide il traghetto che partiva per Puerto Santa Maria e la memoria rimodellò le cose vissute qualche giorno prima.

Capitolo V

Era domenica, e, quasi per scommessa, a veder chi si tirava indietro, erano andati alla corrida,. Quella era bastata; una mattanza. Entrambi stranamente erano d’accordo che la corrida, così come l’avevano vista e sentita loro, era una mattanza.
Molto prima de la cinco de la tarde , avevano comprato i biglietti di sombra, la zona dell’Arena non arroventata dal sole africano. Poi, seduti abbastanza in alto per non sentire l’odore del sangue che usciva a flotti dal corpo dei tori, avevano osservato volteggiare toreros e banderilleros e picadores , non come in quel dipinto cretese dove giovani seminudi saltano in modo acrobatico sopra  un toro in corsa. Qui non c’erano ballerini e saltimbanchi, le modalità erano ben più cruente, i tori erano vera carne da macello, e i toreri non erano proprio quegli splendidi coraggiosi eroi  che avevano immaginato.
Proprio in quei giorni i giornali, in prima pagina, dicevano che il parlamento catalano, sotto la spinta degli animalisti, avrebbe abolito la corrida. Sui giornali di destra si levavano grida: “Libertà, libertà” confermando l’impoverimento di questa ricca parola sventolata dai macellai e inscritta persino sui simboli di partiti guidati da guitti mediatici.

I giornali, non in prima pagina, proprio in quei giorni, scrivevano che in questo paese di tori e flamenco, nascevano tanti machos che picchiavano, ferivano e uccidevano le donne. La percentuale era alta, la più alta d’Europa, dicevano i giornali, nelle pagine interne.
I giornali dicevano, senza scrivere un rigo, che nemmeno nella moderna Cataluña, che era riuscita a rompere una tradizione così potente come la corrida, si faceva realmente qualcosa per fermare la mattanza delle donne; almeno ai tori da corrida viene donato l’epiteto di hermosos: «El domingo seis hermosos toros saldran a la Plaza de Toros de la Arena de Puerto Santa Maria». così recitavano, più o meno, i manifesti affissi sui muri di Cadiz. Invece le donne per i machos spagnoli non erano altro che ‘anomalia della specie’, come le aveva definite Aristotele, e quindi si potevano maltrattare e anche uccidere, come i tori, astenendosi da qualsiasi aggettivo.
“È nei corridoi di una Plaza de Toros come questa che Don Josè uccide ogni giorno Carmen” Lui pensò cercando di creare nella mente le note di Bizet: quelle note famose, quando Escamillo giunge acclamato dalla folla, e il vecchio amante vede il volto del torero imprimersi negli occhi di Carmen.  Lei si era invaghita di un torero, Escamillo. “Forse le loro ombre inquiete vagano ancora qui intorno” pensò Lei.
E non aveva torto visto che, come scrivevano i giornali spagnoli, nelle ultime pagine, tutti i Don José d’España continuavano ad uccidere Carmen.

Seduto sulla panchina pensava: “Basta con la corrida, è una mattanza”.  Poi si rivedeva in mezzo alla folla dalla quale cercava di carpire il senso profondo della tauromachia. No, basta, se fosse tornata da Lui alla corrida non l’avrebbe portata più, erano troppo crudele e, poi, Lei, come aveva fatto quell’unica volta, avrebbe guardato solo i toreri come fosse tornata Carmen; una Carmen da baciare non da uccidere. Era sempre da baciare anche se nella Plaza de toros de la Arena de Puerto Santa Maria aveva consumato il binocolo per guardare i tre toreri e, tornata dalle vacanze,  avrebbe ripetuto, davanti a Lui, un po’ troppe volte alle sue amiche: “Sapete in quella corrida c’erano tre toreri, e non ce n’era uno che fosse brutto”,  Lei era sempre da baciare quando giocava alla gelosia.
Lei a cena qualche giorno prima, gli aveva spiegato come Prosper Mérimée avesse creato Carmen, come una novella Lilith, – “libera ed inquieta”, disse Lei, “un po’ infedele però” pensò Lui – per poi, come tutti gli autori occidentali, farla morire di morte violenta. Gli disse incazzandosi anche di come questi stronzi, avessero alienato la loro impotenza psichica, che li escludeva dal rapporto profondo con la femmina della specie umana, in personaggi femminili che comunque vada, perdono la mente come Ofelia, muoiono di stenti come Manon Lescault o Madame Bovary, si suicidano come Anna Karenina, vengono uccise come Carmen; la colpa di Carmen, disse Lei, era quella di aver fatto, come disse a Valencia una ragazza, seduta vicino al loro tavolo,: “lo que me sale dal coño”, un modo un po’ colorito per dire “quello che mi detta la natura femminile”, più o meno.
I protagonisti maschili che le portano alla morte, disse Lei, sembra che lo facciano per “amore”. Anche il movente della violenza maschile, che a volte uccide, secondo i media è “il troppo amore”, disse Lei, “E poi c’è anche un proverbio spagnolo che dice “hay amor que matan”, ci sono amori che uccidono”.
Lui pensò, ma non lo disse, che l’affetto di Don José, come quello di tutti gli uomini che uccidono le donne, non era e non è certamente amore, è solo voler possedere un essere umano dove nascondere la propria pazzia. Esatto disse Lei a Lui che la guardava strano: come aveva fatto ad udire i suoi pensieri? Era che, a volte, quando stavano insieme, insieme insieme, erano come endiadi, come un concetto che può essere espresso solo legando insieme due parole … én dià, essere Uno per mezzo di Una.

Fu uno strano pomeriggio. Quando uscirono dall’Arena, un po’ intontiti dal ripetitivo ammazzamento dei tori, l’aria, si era fatta di un nero notturno da non vedere più.
Immagini sfocate di toreri, di vere e letterarie Carmen con i loro vestiti a lunares, di Anna Karenina, di Manon, di Emma Bovary e degli uomini che le avevano “tanto amate”, chiedevano ‘un’altra vita’ mentre fluttuavano come fantasmi nel baluginio del mare che si rinfrangeva sui finestrini del taxi che li riportava all’albergo.
Loro due un po’ depressi, guardavano i loro pensieri tra le luci del golfo e le poche parole che salivano alle labbra erano annodate come se la mente non avesse avuto tempo sufficiente per guardare tutto ciò che gli occhi avevano visto per poi trasformarlo in linguaggio ; Lei e Lui si dicevano che, “si, è stato interessante”, che la corrida apparteneva alla cultura spagnola, che l’avrebbero studiata per capire; questo dicevano e altre cose così, ma il loro ragionamenti sembravano i soliti dialoghi insulsi che si sentono nei foyers dei teatri. In realtà ciò a cui avevano assistito era una mera e odiosa mattanza da macellai vestiti a festa.
Lo avrebbero capito lentamente, e sicuramente quando, qualche settimana dopo, tutte le televisioni del mondo trasmisero le immagini del toro che saltava la staccionata, invadendo le scalinate e ferendo alcuni spettatori, loro si sarebbero rammaricati per i feriti ma, senza farne parola, avrebbero tifato per il toro. E lui avrebbe pensato “Peccato che le corna del toro non erano servite anche per i tre toreri tanto ammirati da Lei”.
Al mattino l’aria era tornata trasparente, ognuno dei Due pensava ai sogni della notte che perduravano nella mente e a quelli che si dissolvevano lasciando soltanto una vaga sensazione di assenza. Era troppo mattino e la mente conteneva ancora lentezze d’estate, quando i discorsi, per seguire i sentieri dei sogni, allentano i ritmi. Quando riuscirono a dirsi qualche parola, non parlarono della precedente serata; la lasciarono lì a riposare un po’come facevano i cuochi andalusi con la paella prima di servirla agli avventori affamati.

Capitolo VI

Si era alzato dalla panchina, quasi di scatto, era uscito dall’ombra e si era appoggiato alla balaustra alta sul mare. L’immagine di Rocio si era presentata prepotentemente ai suoi occhi … ma non era una percezione, era ciò che rimaneva del pensiero notturno … … continua

La prossima settimana il racconto riprenderà da dove è stato interrotto. Qualsiasi vostro commento è gradito … a presto.

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