Giuseppe Penone vincitore del Praemium Imperiale 2014. L’Intervista

 

ROMA – Lo scultore italiano che si aggiudica il Praemium Imperiale 2014 è Giuseppe Penone, il maestro dell’arte povera classe 1947. Il premio, che da 26 anni la Japan Art Association assegna a cinque artisti per scultura, pittura, architettura, musica e teatro/cinema, e che oltre alla consegna di una medaglia, attribuisce a ciascuno di loro anche 15 milioni di yen, circa 108 mila euro.

I vincitori sono stati annunciati oggi da Lamberto Dini, consigliere internazionale del Praemium Imperiale, all’hotel The Westin Excelsior di Roma, alla presenza dell’artista. Lui, pacato e delizioso, ad “ArteMagazine” racconta del premio, ma soprattutto della (sua) arte, della forma, della permanenza della materia, della scultura e del suo ruolo nell’arte contemporanea. Ma, prima di tutto questo, in un periodo di forte crisi economica come quello che stiamo vivendo, una domanda era fatale:

Maestro, cosa farà con i soldi?

«Li utilizzerò di certo per realizzare una nuova opera, e non per scopi personali. Il riconoscimento premia l’arte e la creatività, se non li investissi per produrre un’opera d’arte il senso del Praemium Imperiale svanirebbe».

Nel suo rapporto con la forma, la forma incastrata nel legno o nel marmo, quanto è presente Michelangelo?

«Michelangelo è una figura che in scultura non si può di certo ignorare. Il suo ritrovare la forma nel materiale, però, certamente identifica la sua opera ma è una costante nella storia dell’arte e non riguarda solo lui. Indicare o trovare la forma antropomorfa all’interno della materia è qualcosa che appartiene a qualsiasi gesto dell’arte, e accadeva persino con le pietre preistoriche. Addirittura con esse l’intervento dell’uomo si limitava a sottolinearne la forma. E pensiamo anche a tutte le riflessoni che ci sono state in pittura sulle nuvole. Tutto questo è la nostra fantasia proiettata all’interno della materia e della forma. Inoltre un dipinto o una scultura per noi hanno un valore perché vi proiettiamo la nostra mente, mentre abbiamo difficoltà a riconoscere delle forme in quanto tali. Mi spiego: la forma di una pietra è molto difficile da memorizzare; io ho realizzato un lavoro prendendo una pietra da un fiume e, risalendo su fin dove c’era la cava, ho recuperato lo stesso materiale della pietra per replicarne la forma. Ecco: io ho posto la pietra in una stanza e la replica della pietra dal lato opposto di quella stanza, lontano dall’originale. Nessuno ha capito che si trattava della stessa forma, ho dovuto esporle vicine e, addirittura, nella stessa posizione, altrimenti, ho capito, nessuno sarebbe riuscito a vedere che erano uguali. Quindi la nostra capacità di vedere è in realtà limitata: memorizziamo e ci interessano poche cose. Questo è un probloema dell’arte, perché così i soggetti si riducono soltanto ad alcune forme, forme antropomorfe, zoomorfe, geometriche. Quindi, sotto questo punto di vista, si è limitati, non c’è niente da fare».

Lavorare sul materiale vuol dire imprimergli la forma, o è la materia in sé che trova la forma “da sola”?

«Quando l’uomo vuole dare la forma al materiale fa un brutto lavoro. Il lavoro funziona solo se si riesce a rivelare o ad esaltare le qualità del materiale, quello che il materiale è. Per sempio, io ho realizzato un lavoro dove all’interno di travi di legno ho tirato fuori la forma dell’albero. Poi ne ho fatto un altro dove ho scavato all’interno del marmo e rivelato le sue vene. La differenza tra questi due lavori è che il legno forma esattamente l’albero, quello che trovavo; nel caso del marmo, invece,  è un’interpretazione, è la nostra idea: vediamo questo tessuto, che ci ricorda il tessuto venoso, e quindi identifichiamo il materiale in questo senso. Ed è una cosa che tra l’altro appartiene a tutte le lingue del mondo: vene di pietra è universalmente traducibile, e si ottiene sempre lo stesso risultato. Nel mio caso però io non ritrovavo la vena esatta del marmo, che è una stratificazione, ma rivelavo quello che il nostro occhio o la nostra sensibilità ci spinge a vedere».

Parliamo della sua attenzione verso la natura.

«Io ho sempre affermato che il miuo problema non è mai stato di ordine ecologico. Io faccio un lavoro che parte dall’uso dei materiali e non è un “salvare la natura”; in realtà è per salvare l’uomo. 

Presentare il mio lavoro come “arte e natura” è molto superficiale, anche perché di solito si parla di natura come qualcosa che non appartiene all’uomo, cioè come se l’uomo fosse a parte, in realtà questo èa ssurdo, l’uomo è natura. Qualsiasi sua azione è natura. E lo si vede bene quando c’è una città che comincia a sgretolarsi, la città stessa diventa molto simile ad un elemento naturale, pensiamo alle rovine. È nostro desiderio o volotàù di affermazione e durata nel tempo della nostra persona, ma è completamente effimero e irreale. La pietra ha una presenza nel tempo che è millenaria, una persona dura pochi anni. Poi mafìgari un pochino di quella perosna va a finire nella pietra. Questo modo di vedere tutte le cose legate all’uomo è assurdo, che poi è un modo che si avvicina a un probloema di gestione del potere, che non è però una problematica fdell’arte, o almeno non dovvrebbe esserlo».

Quindi è lontano dalle tematiche ecologiste.

«Se si considera solo la questione ipocrita, strumentale e superficiale del “salvare la natura”, per di più soltanto negli aspetti che se trascurati possono danneggiarci, è un modo di vedere le cose che ritengo non interessante. E il rischio che sia sempre più così c’è. Anche per questo dico che il mio è un problema di scultura, non di ecologia, di natura. La questione è di considerare gli elementi della realtà in modo paritario: se si pone al centro di ogni cosa l’uomo e non si considerano la materia e ciò che ci circonda in modo paritario, alla fine non c’è più rispetto, e si esercita violenza».

Che ruolo ha la scultura nell’arte contemporanea?

«Ritengo che negli anni Sessanta e Settanta l’espressione nell’arte sia stata più forte nella scultura che non nella pittura. Questo probabilmente è legato al momento storico che si viveva, un momento in cui venivano riconsiderate le condizioni sociali, culturali, e anche all’interno dell’arte c’è stato un azzerare un certo tipo di convenzioni e ripartire dalla realtà, tornare alle cose. In quegli anni la scultura ha giocato un ruolo fondamentale. Ora, nella pittura si parte già da una convenzione, la pittura stessa lo è. Mentre la scultura può non essere convenzione. Se si realizza un tavolo come una scultura, è un tavolo. Se si realizza come disegno, invece, è un disegno. Quindi la pittura è pittura, è un’espressione culturale; la scultura può invece avere un difetto, che è quello di creare un oggetto reale. Questo, per esempio, è anche un problema di molti artisti che usano il “ready made”  e non riescono ad impremergli quella forza di opera d’arte, non riescono a snaturare l’oggetto stesso».

La maggior parte delle premiazioni lascia presagire un ritorno dell’attenzione alle tematiche sociali nell’arte, crede che sia così?

«Bisgona stare attenti perché se è un’operazione fatta a tavolino rischia di essere poco interessante e retorica, una convezione non legata al problema dell’arte che è invece più legato all’idea della poesia».

 

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