Cervara di Roma: la città degli artisti scolpita nella pietra

CERVARA (ROMA) – Cervara di Roma si allunga su un fianco della montagna, tra case e gradini di pietra. Migliaia di gradini di pietra. Cervara è un paese fatto a scale. Dista circa 65 km dalla Capitale.

All’uscita Vicovaro-Mandela dell’autostrada Roma-L’Aquila mi dirigo verso Subiaco. Al bivio per Arsoli la strada comincia a salire, mentre il sole appare da dietro la nuvolaglia come in un miraggio. Un bar alla svolta per Cervara di Roma, un caffè ci sta bene. Quando scendo dall’auto, la voce di un altoparlante. È arrivato l’arrotino, donne, e anche l’ombrellaio, accorrete donne! La stessa voce che si sente dovunque. Non capisco se sia lo stesso arrotino che viaggia per tutta l’Italia, o se chiunque decida di intraprendere questo mestiere riesca a procurarsi la stessa cassetta preregistrata.
Affianco al bar c’è un bancomat, nel caso qualcuno avesse dimenticato il contante. Riprendo per Cervara, che ogni tanto appare e scompare sul picco. Non incontro altre auto, sembra di salire verso un posto remoto. Cervara di Roma è il Comune più alto del Lazio, sta a circa 1100 metri s. l. m.. Ho scritto “Comune” e non “paese”. Il paese più alto del Lazio è Guadagnolo, che sta sopra ai 1200 metri, ma non è un Comune. Al bivio seguo le indicazioni per il parcheggio, che si trova dabbasso al paese.

 

Davanti a me un panorama di case accatastate le une sulle altre come merce da un rigattiere o cassette di frutta al mercato alla fine della giornata. Un intrigo di scale che si partono verso tutte le direzioni. Sembra un disegno di Escher combinato con un quadro cubista di Picasso. Nella prima e unica piazzetta – in realtà una strada poco più larga delle altre – un bar, dove entro più che altro per curiosità. Il barista e un avventore seduto al tavolo a leggere il giornale mi guardano con diffidenza. Chiedo informazioni su dove trovare un posto per mangiare.
“Prendete a destra, sotto la volta” dice il barista facendo un gesto impreciso con il braccio. “Poi salite e salite finché non arrivate alla chiesa madre. Lì, chiedete ancora, ma siete quasi arrivato. C’è una trattoria proprio su in cima.”

Uscendo vedo una donna che stende biancheria alla finestra un’altra che spazza davanti alla porta di casa, con forza, quasi con rabbia, e un vecchio seduto sull’uscio, una mano appoggiata sulle ginocchia e nell’altra la pipa che ogni tanto aspira. Sta lì in attesa, come in purgatorio, la mente persa in un’altra dimensione. Un silenzio immoto. Mi viene da pensare che una volta questi paesi erano abitati da popoli, oggi sono soltanto un campionario di solitudini. I giovani se ne vanno – se non per sempre almeno dal mattino alla sera. Posti come questo, di lavoro ne offrono poco. Qualche impiegato al Comune, qualche muratore, manovale, posti in abbondanza ce ne sono solo al camposanto.
Sotto l’arco della volta di cui aveva parlato il barista vi è dipinto un affresco. Sul muro dirimpetto una poesia di Raphael Alberti.

Cervara di Roma
vive sola, scolpita in cima
a una montagna di pietra.
È una scultura nel cielo,
che al cielo volerebbe
se l’aria la sostenesse.

Ci sono versi di poeti che riguardano Cervara dipinti un po’ dovunque. Ne vedo di Ungaretti, di Pasolini e di altri che non conosco. Anche la toponomastica ha una sua caratteristica. Tutte le indicazioni sono firmate da artisti: Mastroianni, Piscopo e altri ancora.

Quando i muri delle case lasciano il posto su in alto alla pietra viva, ci sono invece dei bassorilievi scolpiti da artisti acrobati. Figure mitologiche, animali e tutto un campionario di cui non faccio l’elenco. L’anima antica di Cervara, forse. Continuando a salire per scale e vicoletti, riesco a perdermi. Di qualcuno a cui chiedere neanche a parlarne. Molte le case chiuse, di quelle che si ravvivano soltanto d’estate. Le classiche bottiglie di plastica davanti alle porte. Gira voce che riescano a distogliere cani e gatti dal fare i bisogni sugli usci. Pare che gli animali si spaventino vedendosi riflessi. Non mi è mai capitato di assistere alla faccenda per verificare se la cosa sia vera o leggenda paesana. Fatto sta che in tutto il sud si vedono queste bottiglie davanti alle porte. Giro e rigiro, salgo e ridiscendo, vicoli e intrighi di scale che svaniscono qua e là come in un sogno.
Seppur casualmente arrivo alla chiesa madre. L’interno non è granché, ma lo slargo sul davanti, un dispiegarsi di scale in discesa, tetti e terrazzi, è molto pittoresco (n.d.A.: confesso che era da parecchio che mi frullava per la testa questo aggettivo per descrivere Cervara; adesso m’è scappato).
Sopra la chiesa, molto più in alto, una colata di cemento, un muraglione imponente, sgradevole, inguardabile. È dovuto a un genio del Genio Civile, che negli anni intorno al 1950 pensò bene di risolvere così il problema del consolidamento del pianoro dove un tempo c’era la rocca. Forse si poteva far meglio, forse no. Adesso rimarrà lì, intangibile. O almeno per i centocinquant’anni che la durata del cemento garantisce. Ma vale la pena di arrivare fin lassù, anche se della rocca non ne rimane neanche una pietra. Una vista su tutte le valli all’intorno, fino alle creste degli Appennini. Un panorama di quelli belli a vedersi, ma che la fotografia non riesce quasi mai a restituire nel loro fascino integrale.
Dopo la visita ai resti immaginari della rocca, altri vicoli, altre scale. Finalmente incontro una persona, alla quale chiedo subito informazioni per arrivare alla trattoria. Mi indica un vicolo angusto con scale ripide, dicendomi poi di girare a destra, a sinistra, ancora a destra, e quindi seguire un piccolo tratto in piano. Quando arrivo alla trattoria, ho i polmoni notevolmente più ingrossati. Nella sala all’ingresso un grande camino acceso, uno di quelli di una volta, fatti più per starci dentro che per sedersi intorno. Su un tavolo di legno che ne deve aver viste diverse bistecche sanguinanti alte due dita. C’è un’aria quasi religiosa, come quella che si respira nella sagrestia di una chiesa. La domenica ci sarà senz’altro un’atmosfera diversa, con le orde dei forzati del week-end, gli sciami dei gitanti che vagano di sagra paesana in sagra paesana alla ricerca del fantomatico santo graal del prodotto tipico locale, tra le file estenuanti in autostrada e alle casse per ottenere in cambio di un po’ di spiccioli un vassoio con pasta spesso scotta e carne a volte troppo cruda. Prodotti tipici locali che sono in genere ormai uguali dappertutto.

 

Un paio di altre sale, nella prima tre uomini seduti a tavola alle prese con fettuccine, e nell’altra una coppia, quarant’anni lei, qualcuno di più lui. E quindi un terrazzino, dove mi dirigo senza indugio. Le nuvole sono sparite e il sole è al centro del cielo come un uovo al tegamino. Sotto di me, il panorama dei tetti del paese, e la valle dell’Aniene che si allunga tra cime contrapposte dei monti. Due falchi volteggiano nell’aria per qualche minuto, prima di buttarsi in picchiata e sparire un attimo dopo sul fianco del paese. Il terrazzino è tanto domestico che vi sono dei panni stesi al sole. Tra lenzuola, federe, tovaglie, asciugamani e altra biancheria, un completino intimo da donna di seta color fuoco. Chiedo all’oste vino rosso, fettuccine, carne alla brace e insalata di contorno. Dopo il pranzo, rimango lì a gustarmi il panorama fino a quando il pomeriggio non precipita in un celeste chiarissimo, quasi trasparente.

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe