Palazzo delle Esposizioni. Dal Liberty al design, viaggio nell’Italia dello stile (1900-1940)

Nell’ambito del fecondo rapporto di collaborazione fra il museo romano e il Musée d’Orsay parigino, oltre 100 opere si concentrano sui quarant’anni più critici della storia nostrana

ROMA – Italia, inizio Novecento. L’alba di una nuova era anima le sorti di un Paese ancora alle prese con gli annessi e connessi di un incompiuto processo d’unificazione nazionale. È un periodo di spensieratezza generale, di progresso incombente, di continue trasformazioni in seno al tessuto preesistente. Sballottati e esterrefatti, i cittadini di un’Italia tutta da farsi si preparano – inconsapevolmente – all’“inutile strage” del ’15-’18, allo smantellamento dello Stato liberale a favore di un regime autoritario, alla dittatura di un uomo carismatico.

Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano. 1900-1940, mostra dedicata alle suggestioni del primo Novecento e all’Art Nouveau, ha l’ambizione di riproporne le atmosfere, le correnti pittoriche e quelle plastiche, il mobilio, l’oggettistica, il lusso, l’eccentricità. Un’età dell’oro che rimembra ora gli anni in cui l’Italia dettava legge incontrastata sullo stile, ora un periodo di grande fermento che preparò il terreno per la discesa in campo di avvenimenti tanto imprevedibili quanto imprevisti.

L’intento riesce? Ebbene, in parte sì, ma in larga parte no. Svariati i motivi, uno su tutti la disposizione interna, la scarsa ottimizzazione degli spazi che, per quanto ampi, appaiono a tratti claustrofobici, persino caotici, spesso disordinatamente arrangiati. Tanto da rendere la “dolce vita” del titolo un’amara delusione, perlomeno all’inizio.

Così, accade che opere di pregio – talune piuttosto singolari – si mescolino a pezzi a esse spesso scollegati. Come Le mille e una notte di Vittorio Zecchin, parte di uno straordinario ciclo pittorico-decorativo su tela che appare quasi sacrificato nell’accozzaglia di vasi, coppe, sedie, scrittoi e tavolini presenti nella prima sala, tutti manufatti di curioso interesse che però mal si presentano al visitatore medio.

Senza nulla togliere alla rilevanza delle creazioni pergamenate di Carlo Bugatti, a quelle cromaticamente vivaci di Marcello Piacentini e a quelle lineari di Eugenio Quarti, la creatività giocosa tipica del periodo si perde, diluita in una marea confusionaria più inneggiante alla sapienza artigianale di ebanisti, maestri vetrai e ceramisti, che volta a valorizzarne il contributo per lo sviluppo delle arti decorative moderne.

Si prosegue, poi, coi motivi floreali delle formelle di Galileo Chini e con un elaboratissimo lavoro d’intarsio su mogano firmato da Ernesto Basile, senza però riuscirsi a catapultare in quel clima d’effervescente trasformazione che tanto segnò i primi decenni del secolo scorso.

Occorre giungere alla sezione dedicata al futurismo di Filippo Tommaso Marinetti per percepire quel dinamismo, quell’esaltazione e quella velocità di movimento cui ci si era idealisticamente preparati a inizio esposizione. Giacomo Balla e Fortunato Depero, con le loro linee-forza e l’utilizzo di colori sgargianti, rinfocolano l’attenzione, “rallegrando l’universo”, così come si era delineato nel loro manifesto. E lo fanno con oggetti d’uso comune – vestiti e panciotti, lampade e seggiole – ma anche con sculture leggibili a 360 gradi, come Dux di Renato Bertelli, ritratto ufficiale di un capo che tutto vede e tutto controlla, valida esemplificazione dell’apparato poliziesco mussoliniano.

Una recensione a parte merita la Metafisica di Giorgio de Chirico e Alberto Savinio che, richiamando una classicità ormai perduta, inscenano “sogni travestiti d’antico”: associazioni inaspettate tra oggetti senza alcun logico legame, titoli d’elevato impatto emotivo, testimonianze di un’epoca che – finalmente – pare parlare attraverso i propri dipinti.

Anche per il Realismo magico di Felice Casorati e Antonio Donghi è necessario spendere parole positive. Con lo stupore negli occhi e l’inquietudine nello sguardo, le scene d’interni immerse in una statica immobilità trasmettono sensazioni di profondo turbamento, eppure elettrizzano, suscitano emozione. Come se gli artisti provassero una certa apprensione verso un mondo sul baratro della catastrofe bellica.

Dopodiché, la linearità del “ritorno all’ordine” irrompe sulla parentesi avanguardistica e spezza una lancia a favore della classicità fascista e della razionalità, culto della leggerezza di forma che dà l’imprinting al gusto del design nella sua moderna accezione.

D’estremo interesse, infine, la nicchia attrezzata per proiettare il Giornale Luce, efficace strumento di propaganda di cui si servì il regime del Duce a fini didattico-informativi e con cui è possibile fare esperienza di un linguaggio cinegiornalistico del tutto sconosciuto alle giovani generazioni, affascinante ed esotico come quel passato di cui non si ha né memoria né nome.

Un ponte comunicativo che pone la parola FINE a un percorso espositivo delineato fra luci e ombre, che indubbiamente si sarebbe potuto sviluppare meglio per testimoniare l’importanza capitale di alcuni pezzi di storia italiana. Di una classe dirigente che ne cambiò le sorti, di un sentire collettivo che ne alterò i risvolti, di un ceto artistico-intellettuale che comunicò a suo modo il disagio in un’età d’“ottimismo paradossale”. 

Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano. 1900-1940

16 ottobre 2015 – 17 gennaio 2016

A cura di Guy Cogeval e Beatrice Avanzi

con Irene de Guttry e Maria Paola Maino

Organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione col Musée d’Orsay di Parigi

Dove

Palazzo delle Esposizioni

Via Nazionale 194

Roma

Orario

Domenica, martedì, mercoledì e giovedì: 10.00-20.00

Venerdì e sabato: 10.00-22.30. Lunedì chiuso.

L’ingresso è consentito fino a un’ora prima della chiusura.

Costo del biglietto

12,50 €

Informazioni e contatti

Telefono: 06 39967500  

E-mail: [email protected] 

Sito web: http://www.palazzoesposizioni.it

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