Il Corpo della Voce: Carmelo Bene, Cathy Berberian, Demetrio Stratos”. Recensione

Al Palazzo delle Esposizioni la potenza della voce che va oltre la parola e il significato

ROMA  – La voce è la parola, la voce trascende la parola, la voce va oltre la parola. Un timbro, un’intonazione, una sonorità forte e decisa hanno più valore di mille discorsi, possono coinvolgere, convincere, superare ogni barriera, ogni ostacolo. E su questa riflessione che si articola la mostra “Il corpo della voce. Carmelo Bene, Cathy Berberian, Demetrio Stratos” allestita presso il Palazzo delle Esposizioni a Roma.

Un progetto espositivo che ripercorre con intelligenza ed acuto spirito critico quel momento di intensa sperimentazione e indagine che hanno legato tre indiscussi protagonisti del panorama artistico internazionale: la cantante mezzosoprano americana di origine armena Cathy Berberian (1925-1983), l’attore e regista Carmelo Bene (1937–2002) e il musicista cantante di origine greche Demetrio Stratos (1945-1979).

A  cura di Anna Cestelli Guidi e Francesca Rachele Oppedisano che hanno consultato diversi archivi ed effettuato un lavoro di ricerca accurato e meticoloso con i contributi scientifici di Franco Fussi, Graziano G. Tisato, l’evento si struttura attraverso un interessante lavoro di studio che, partendo dalla sezione iniziale in cui si mette in evidenza le dinamiche della voce e come si produce il suono, si approda alle successive sale in cui emerge la vitalità di tre artisti che della voce, della melodia declinata in ogni possibile tonalità e modalità espressiva, hanno fatto la loro cifra stilistica.

Il primo è Demetrio Stratos, cantante de “I Ribelli” e fondatore assieme al batterista Giulio Capiozzo nel 1972 di uno dei gruppi più importanti della scena rock progressive italiana: gli “Area”. Qui si ha modo di comprendere appieno le infinite potenzialità della voce di Demetrio durante le sue performance con il poeta Nanni Balestrini oppure nel periodo della frequentazione con il compositore John Cage (1912-1992), grazie al quale indaga la sua potenza sonora caratterizzata dalla diplofonia (un’alterazione del timbro della voce che all’ascolto risulta duplicata), suoni bitonali e difonici (canto armonico, meccanismi vocali sovraglottici, fischio laringeo).

Il secondo passaggio è la riscoperta di una grande cantante Cathy Berberian che si è fatta conoscere proprio attraverso le sorprendenti sperimentazioni di musica elettronica negli anni cinquanta e sessanta in cui la sua potente modalità canora è diventata musa ispiratrice di personaggi del calibro di Cage, Luciano Berio, Bruno Maderna e soprattutto Sylvano Bussotti (Stripsody – 1966) con il quale costituirà un lungo sodalizio artistico e umano. In particolare, in Stripsody, opera nata in collaborazione con Umberto Eco e il pittore Eugenio Carmi, abbiamo un esempio unico di un lavoro sull’onomatopea vocale ispirata ai comic strips in cui emerge chiaro l’intento di destrutturare il testo e il linguaggio convenzionale per far emergere l’intensità dell’interpretazione sonora che va oltre ogni contenuto e l’imposizione di un senso definito. Un processo estraniante che lascia ancora stupefatti e segna la cifra stilistica di una persona di un assoluta capacità musicale e interpretativa.

Infine si giunge a Carmelo Bene, forse uno degli ultimi grandi artisti che l’asfittica realtà italiana abbia mai conosciuto. Attore, drammaturgo, regista, scrittore e poeta, Carmelo Bene è stato un uomo che non si è mai fermato ad un limite definito, ma ha condotto una sapiente e lacerante indagine sulle possibilità espressive della voce, restituendo al suono emesso tutta la sua importanza che supera qualsiasi ingessatura del testo e del senso. In lui tutto fluisce armonico e disarmonico in tutte le sue opere che sono del tutto nuove e spiazzanti travalicando le rigide imposizioni della recitazione classica per raggiungere vette assolute di cristallina espressività. Sempre contrario al teatro di testo, per Carmelo Bene, seguendo la linea definita dal regista e drammaturgo francese Antonin Artaud (1896- 1948), fare teatro del già detto è una follia, qualcosa che appartiene agli “invertiti, droghieri, imbecilli, finocchi: in una parola Occidentali”.

L’unico modo per rappresentare qualcosa è nella potenza della voce che va modulata secondo cadenze che partono del profondo di noi stessi e superano ogni barriera. Ecco quindi la produzione significativa di opere come Hommelette for Hamlet, l’Adelchi, gli spettacoli concerto su Majakovskij che hanno fatto da spartiacque nel modo di “fare teatro” arrivando agli anni, testimoniati dai laboratori della Biennale Teatro che furono dirette a porte chiuse e dove Carmelo Bene si concentrò sulla possibilità della parola di sganciarsi completamente da ogni restrizione significante per diventare puro suono.

 

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