Bob Krieger. KRGR o l’eterogenesi delle vocali

«Una delle esposizioni più brutte che abbia mai visto!! Le foto sono banali e le opere in molti casi risultano pacchiane. SBL / FDRC. Anche noi firmiamo senza vocali perché siamo alla moda!». Ecco come sentenzia, assertivo e senza appello, un visitatore della mostra che il Comune di Milano ha dedicato a Bob Krieger. E potrebbe anche essere una sintesi bastantemente affidabile, benché ispida e certamente limitata nel suo recinto emotivo.

 

 

Tuttavia a me pare come il punto sul titolo della mostra, e che le conferisce almeno nelle intenzioni la sua significazione, sia dirimente per porre un problema che emerge da ormai tante manifestazioni come queste in Italia. La lingua ebraica non prevede l’uso di vocali: com’è noto, nell’antica tradizione della Bibbia ebraica il tetragramma è il modo con cui riferirsi a Dio. Ora è chiaro come non sarebbe di per sé accorto pensare a un simile legame di senso quando Krieger, o chi per lui, ha approntato questa innovativa soluzione per una firma, ma di certo vedere demolita tanta velleità usando gli stessi strumenti dall’ignoto visitatore prima citato, risulta al tempo stesso divertente e umiliante. Questo per dire che talvolta le vocali, nella loro eterogenesi, possono determinare esiti non previsti. E né visti, a quanto pare.

Cercare l’ingresso appare laborioso. Sfido la pazienza cortese di un gruppo di custodi, impegnati a sorvegliare un decisivo centrotavola di marmo commesso, e finalmente dopo un altro paio di grandi sale vuote mi ritrovo all’entrata. L’esposizione si presenta senza particolari criteri ordinatori, insomma è bene dire senza alcun criterio dal momento che nessun intento critico è manifestato, gli apparati sono del resto sostanzialmente assenti e l’unico indizio di frequentazione intellegibile è offerto da un pannello nella prima sala. Che tentando ovviamente di introdurre il visitatore alla figura e all’opera di Krieger non esita un solo istante a dichiarare che la «sua figura si innalza sul mondo della fotografia come quella di un gigante. Basterebbe dire che il nome di Bob Krieger è legato a molte delle immagini simbolo che hanno segnato gli ultimi quarant’anni di storia». E qui una prima domanda che mi pongo, timido e caracollante: ma se Krieger è un gigante, Tournachon, Cartier-Bresson, Ray e Salgado sono forse i quattro Cavalieri dell’Apocalisse? Agli esperti di escatologia cristiana una possibile risposta. E dire che, più cautamente, si sarebbe potuto circoscrivere il preteso gigantismo del Nostro all’ambito della fotografia di moda e, segnatamente, di area piuttosto italica. Inoltre pure si potrebbe sussurrare come non sia affatto scontato che le cosiddette immagini simbolo segnino la storia. Non è sempre così, non è sempre detto. Ancora, ma senza attardarsi ulteriormente in altre e pure necessarie spigolature, si segnalano considerazioni come quella secondo cui le ultime opere di Krieger siano riconducibili alla «pittura di Klimt, e la “Jugenstiil”» (sic!). A questo punto non si biasimi troppo il visitatore se colpito da improvvisa atarassia, tant’è.

Mi chiedo chi sia l’autore di queste e altre squisitezze, ma non lo trovo, non c’è. Nessuna firma a corredo del pannello, nemmeno una senza vocali. Non la trovo perché non c’è. Alla mia curiosità il merito di averla rintracciata nel sito del fotografo. Nella sezione dedicata alla mostra è possibile infatti consultare lo stesso scritto questa volta firmato da Piero Addis. Che ammetto, tapino, di non conoscere, ma questo non è importante.

La mostra si articola seguendo il consueto canovaccio dell’antologica, nelle intenzioni, solidamente argomentate come visto, vorrebbe rivedere l’intera attività di Bob Krieger, presente compreso. Solo che però l’attività del Nostro la si intende iniziata fin dalla tenera infanzia alessandrina, forse con un velo di anticipo se non esagero. Mi si dirà, ovviamente, che questa scelta intende mostrare le origini e i prodromi della formazione di una sensibilità successivamente sviluppatasi nella concretezza del mezzo fotografico. Purtroppo, ovvietà per ovvietà, così non è, e allora dal tipo della mostra antologica potrei forse dire che a Milano ne sia stata tratta una variazione in chiave narrativa. Un’antologica di formazione, per così dire. Lasciata la prima sala con qualche inquietudine, tutta attribuibile alla mia speciosità, mi addentro nelle altre dove hanno modo e tempo di dipanarsi tutte le fotografie che riguardano più specificamente l’attività che davvero attiene al fotografo milanese. Anche qui troverebbero spazio altre precisazioni che però non è nemmeno il caso di affrontare per non rischiare l’indulto da esasperazione. Solo occorre dire dell’allestimento, davvero poco rispettoso per l’opera e la persona stessa di Krieger. Una successione di supporti incerti, malagevoli per l’opera e per il visitatore, supporti di stampa a dir meno discutibili, alcuni visibilmente montati male e quindi resi precari.

La sala dedicata alla ritrattistica è poi un turbinio di volti imprigionati in francobolli dalla grafica approssimativa e approssimativamente giustapposti l’uno sull’altro, ma l’esito dell’allestimento sortisce semmai l’immagine di un deposito postale in perenne ritardo nella lavorazione. Sembrerebbe una mia aberrazione, questa impressione, invece non è così. Si tratta effettivamente di una ‘scelta’ tesa, sempre secondo l’ineffabile estensore delle note introduttive della mostra, a determinare «un’autentica corrispondenza tra il fotografo e i suoi modelli, un rapporto prioritario, appunto». Appunto, semanticamente evoluto come colui che escogita una chiave di violino per progettare la copertina di un disco. Un’autentica disdetta perché questa sala avrebbe dovuto fungere da polo catalizzatore di tutta la mostra, Krieger è noto per la sua abilità nella ritrattistica, e molti tra i suoi ritratti avrebbero meritato più delicatezza e discernimento nel proporli. Non mi sembra un caso, infatti, se nel Libro degli Ospiti si legge, tra opinioni poco entusiaste, anche chi non esita ad affermare che l’opera del fotografo «me incanta, specialmente los claro-oscuros».

Il mio passo si fa più veloce, non stranamente, ed entro nell’ultima sala, quella che dovrebbe celebrare la seconda parola chiave di tutta l’esposizione: arte. È qui infatti che trovano alloggio le opere che secondo le aspirazioni di Krieger e dei suoi cantores, tracciano la sua evoluzione attuale. Una serie di tecniche miste, fotografie, pigmenti ed elementi metallici che, al di là delle specifiche intenzionalità dell’autore, non porgono alcuna risoluzione visiva, né convincono perlomeno come puro gesto. Dispiace dirlo, ma a meno che i miei occhi non abbiano cominciato a girare secondo linee orbitali misteriose, questo esperimento di Krieger non solo ha pervicacemente perseguito una linea affatto innovativa, quanto invece si è involto in una irresolutezza determinante. Come evitare di rispondersi prima ancora di aver formulato una qualche domanda. E a questo punto, una seconda domanda: perché mai rinunciare quasi completamente all’esperienza di una vita dedicata alla fotografia di moda, per abbandonarsi ad atteggiamenti votati a un’accondiscendente velleitarietà? Non sarebbe stato più attendibile disporre del proprio talento espresso nella fotografia invece che altrove da essa? Inoltre, come mai insistere così pedissequamente su un’improbabile separazione tra arte e fotografia? Io penso che finanche la fotografia di moda sia parte delle arti, ma proprio per questo Krieger dovrebbe usare la cortesia di rammentare che oltre la fotografia di moda esiste, per l’appunto, la fotografia. Non c’è alcuna occorrenza, dunque, nell’indulgere in questa spericolata classificazione. Che oltretutto è ben assisa in dibattiti ormai quasi antichi e che non mi sembra il caso di richiamare qui.

Ma a parte questo, un’ulteriore domanda. Che ancora mi pongo, sempre timido e caracollante: è dunque così indispensabile tenere esposizioni così pensate e così realizzate? Vero è che il mercato delle mostre in Italia è divenuto diafano e prossimo alla cianosi, tuttavia è il caso di insistere proprio perché, quando possibile, sarebbe forse opportuno non sprecare preziose occasioni in cui una riflessione consapevole possa contenere sia le aspirazioni di chi una mostra celebra, come anche di chi una mostra intende leggerla, viverla uscendone vivi. Krieger avrebbe meritato un’attenzione ben diversa da quella espressa dagli allestitori e forse da sé medesimo. Proprio per la sua storia e l’indiscutibile sua vicenda che lo ha reso protagonista.

Quale che sia l’esito, ormai inviso a me stesso per le troppe domande, non riesco a non leggere un’ultima testimonianza nel Libro degli Ospiti. Questa, se possibile ancora più insidiosa di quella con cui ho iniziato queste note. Qualcuno ha voluto notare il «sublime vuoto edonistico che […] ricorda, in quanto donna, che la bellezza del mio corpo è tutto, e che, in quanto essere umano, il potere è ancora di più. Grazie x oblio e consapevolezza».

 

Krgr. Bob Krieger. Ricordi tra fotografia e arte c/o Palazzo Reale, Milano fino all’11 settembre 2011 Ingresso gratuito.

 

 

 

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