Teatro. Donna senza pudore, attrice senza finzione. Intervista a Patrizia Schiavo

Il difficile percorso dell’autonomia per una donna e per un’attrice. La crescita, i successi e il momento di svolta con Carmelo Bene. Il confronto tra un paese “civile” come la Svizzera e le difficoltà in Italia, tra burocrazia e clientelismo. Lo sconforto, la rabbia, e l’urgenza racchiusa nella parola chiave dello spettacolo: “ancora”. Patrizia Schiavo si racconta, senza infingimenti.

ROMA – Di nuovo in scena, e di nuovo con Donne senza censura. Dopo il grande successo di pubblico e critica, dove Franco Cordelli dalle pagine del «Corriere della sera», Vittorio Lussana sul «Periodico italiano», Simone Nebbia da «Teatro e Critica», Chiara di Pietro in «Saltinaria», tutti hanno concordemente salutato il testo come parola di verità e la sua autrice come magistrale interprete, Patrizia Schiavo torna al Fringe Festival per tre serate, con il coraggio di mettere a nudo contraddizioni e inquietudini che attraversano in modo trasversale teatro e vita personale.

Perché “Donne senza censura”?

Perché nasce da un impulso ritrovato di protesta, di ribellione interiore,  al quale sono arrivata dopo una fase di scoraggiamento, una difficoltà a trovare il senso dello stare in scena in prima persona per comunicare qualcosa, e soprattutto cosa. Per me rappresenta la risposta al conflitto, credo connaturato nell’artista, tra l’essere e il dover essere, voler fare e dire quello che vogliamo, quello che rappresenta un’urgenza di comunicazione e quello che il mercato vuole. Rendersi conto che le tematiche di impegno civile, che mi sono sempre state particolarmente care, sono tematiche che allontanano il pubblico, e che l’unico teatro che continua a funzionare è commerciale, quello dei nomi e delle proposte drammaturgiche convenzionali. Donne senza censura è la risposta a questo. Ritrovare la rabbia come motore d’azione.

Quale è stato il percorso che ti ha portato a questa elaborazione?

Questo testo rappresenta la voglia di fare i conti con me stessa, passando in rassegna quello che è stato il mio percorso artistico per arrivare a raccontare qualche cosa di mio, qualcosa di personale. Non per fare dell’intimismo ma per ritrovare uno spazio di verità in un momento dove i grandi temi fanno fatica a trovare spazio, a trovare ascolto. Donne senza censura è la messa a nudo della difficoltà di essere donna, donna artista e donna madre in un paese come l’Italia, attraverso i vari tasselli del mio percorso comunque estremamente ricco, con tutto ciò che ha attraversato comprese le occasioni giocate male, perse per intemperanza, o per bisogno di autonomia, in ogni caso per una natura poco incline ad accettare il compromesso. 

E hai trovato un ambito dove fare teatro come volevi?

Dopo una prima fase di crescita, la scelta autonoma si è concretizzata in Svizzera, un paradiso terrestre per questo. Ho iniziato con un laboratorio di teatro a Locarno, maturando la passione anche per trasferire il mestiere, e in quell’ambito ho trovato un alfabeto comune con persone con cui stavo lavorando. Nessuno mi chiedeva di chi ero figlia, di chi ero amante, che partito votavo e chi mi mandava, ho scoperto un territorio libero e un luogo dove mi è stato detto semplicemente “produci due anni di attività e la commissione poi deciderà se darti finanziamenti”. 

Così è stato, dopo due anni ho avuto i finanziamenti e da lì è cominciato questo percorso.

Quali spettacoli hai portato in scena?

Sex machina, ispirato al Girotondo di Schnizler, che ho portato al teatro Kursaal di Locarno, a Lugano e poi in Italia, ad un Festival in Sicilia. Poi è stata la volta di Profughi, attori, inquieti viandanti, sull’idea del viaggio come fuga da un paese in guerra, ma anche come ricerca di conoscenza e di evoluzione, un testo mio che ho portato in scena a Locarno; un Metamleto nato da uno studio con Alessandro Serpieri sul primo Amleto, di dubbia attribuzione; questo spettacolo è nato da un primo studio a Viterbo, e poi da lì la messa in scena a Locarno e a Lugano. 

Poi ancora Delirio a due o a quanti se ne vuole, da Jonesco e ispirato a Scontri generali di Eugenio Scabia; una rivisitazione di Le Serve, Serve e spettri, ispirato alla teoria dell’eterno ritorno, dove Claire e Solange, le due protagoniste del dramma di Jenet sono condizionate a ripetere all’infinito la loro esperienza dietro il suggerimento degli spettri delle serve precedenti. Qui era particolarmente interessante la messa in scena, perché queste agivano sul piano rialzato del doppio palco, alla maniera elisabettiana, come se fosse la soffitta dell’appartamento.

Quali sono state le difficoltà quando sei tornata in Italia?

Un dato oggettivo è la mancanza di un’organizzazione, che è un punto fondamentale, perché in questo paese la burocrazia è un ostacolo enorme per la realizzazione di un lavoro che agisce in autonomia;  poi c’è un elemento strettamente legato all’allestimento scenico, meraviglioso ma molto impegnativo sia nelle operazioni tecniche sia per lo spazio, che richiedeva grandi teatri, e in terzo luogo anche per la mia natura, molto portata al fare, al creare, al produrre fine a se stesso e molto poco incline a trovare agganci, situazioni e opportunità di circuitazione. 

Torna a galla lo spirito libero che ha trovato un percorso professionale possibile in Svizzera… ma prima di sbarcare all’estero quali esperienze in Italia sono state formative, e quali hanno segnato la decisione di partire?

Durante la carriera di attrice ho avuto modo di lavorare con bravi attori e registi da cui ho imparato molto. Fra i tanti direi Giulio Brogi, Regina Bianchi, Enzo Giovanpietro, Aldo Reggiani, Flavio Bucci, Lello Arena, Giorgio Albertazzi. Ma l’esperienza che ha segnato in maniera più incisiva la mia vita è stato l’incontro con Carmelo Bene.

Perché più incisiva?

Perché a un certo punto mi sono detta che se non riusciva nemmeno lui a mettermi le catene vuol dire che dovevo fare un percorso autonomo. Non sono fatta per fare la scritturata, non ce la faccio a stare ad una serie di regole comportamentali, a litigare per avere il primo o il secondo camerino, però al tempo stesso capivo che se non agivo come gli altri, se non mi infuriavo anch’io per avere i miei diritti quella carriera non la potevo fare. Io non sono fatta per stare a cena tutte le sere col capocomico che lo esige, non ce la faccio a portare i cappuccini, a sostenere le mani sul culo del produttore o del primattore, insomma una specie di salto ad ostacoli fatto di umiliazioni che proprio non potevo sostenere.

Non avevo all’epoca capacità diplomatiche, anche perché mi sono ritrovata a sostenere ruoli importanti; avevo la maturità scenica ma non la maturità relazionale e psicologica per gestire quel mondo. Non sono mai stata l’attrice giovane, in sostanza. Io da sola mi sono presa lo sfizio di fare Ofelia, una cosa che nessuno mi avrebbe mai fatto fare per la mia fisicità o per la mia vocalità.

Questo è stato lo scenario con Carmelo Bene?

Con lui la dinamica è stata di tutt’altra natura. Intanto io l’ho conosciuto in una fase della sua vita particolare, piuttosto critica, ma comunque non aveva perso il vizio di annichilire e distruggere chi aveva davanti, in un modo o nell’altro. Ma l’inizio è stato folgorante. Ricordo con estrema dovizia di particolari come andò il provino, cominciando dal fatto che si svolse a mezzanotte perché a quell’ora il “maestro” arrivò in teatro, ubriaco, mentre Cosimo Cinieri faceva la preselezioni delle attrici, fungendo da alter ego di Carmelo. 

Nei giorni successivi lavorammo su Adelchi e Pinocchio, che lui intendeva riprendere nonostante il diniego del Teatro di Roma. Passammo serate meravigliose a parlare di Delacroix, a recitare Campana, si ascoltava il Pinocchio, poi Adelchi e poi leggevamo Ermengarda, tutto molto affascinante. Dopodiché mi disse “ti lascio due giorni per pagare le bollette, chiudere le faccende terrene e liquidare i fidanzati, per essere orfana di mondo”. Questo era il dazio, che io non intendevo pagare.

La capacità di tenere testa produce rapporto, generalmente…

Non quando lo scopo finale è quello di ridurti alla dipendenza. Era abituato a fare questo con tutti, uomini e donne, soprattutto le donne in quanto dichiaratamente misogino; io dovevo entrare in una sorta di venerazione, quella era la sua soddisfazione onanistica, come racconto nello spettacolo. Per dirla con un eufemismo, proprio non è nelle mie corde.

Naturalmente dopo che me ne fui andata lui mi richiamò, ma io ebbi la forza di non farmi coinvolgere.

Ho voluto resistere più che ho potuto per prendere dal suo genio, fino a che è arrivato il punto limite dove l’immagine di donna che lui mi proiettata addosso non mi corrispondeva in assoluto.

Tra l’altro ha messo il dito sul conflitto con l’autorità che allora era il mio buco nero, e che solo poi la maturità mi ha consentito di agire. Ma è stato necessario costruire la mia strada in piena autonomia.

Le splendide critiche che citavo all’inizio di questa intervista premiano questo tuo percorso.

Da dove nascono i dubbi?

Lo sconforto è nato anche a seguito di un eccesso di consapevolezza dei miei limiti nei confronti di un sistema che ti chiede di saperti vendere, un sistema nel quale l’umiltà non paga, la voglia di ricerca, l’atteggiamento di chi non si accontenta, di chi considera il proprio lavoro sempre perfezionabile non paga.  Per questo mi ha appagato di più trasferire ad altri il mestiere piuttosto che espormi in prima persona, dal momento che  ho una scarsa voglia di tornare nei meccanismi da scritturata, e al tempo stesso vivo la difficoltà di perseguire in Italia una strada autonoma. Ho avuto la sensazione di dover cominciare una quarta vita, quella di una donna nel frattempo diventata anche madre di due figli, con tutti i condizionamenti che questo comporta, che ritrova un ambiente che non è più quello che ha lasciato e non sa più come ricollocarsi. Poi è nato Donne senza censura, perché non mi sento “ancora” finita: citando una parte del mio spettacolo, sono incantata sulla parola “ancora”.

Il teatro può tornare ad essere uno strumento di denuncia, contraddizione, rottura? 

Difficile rispondere perché in questo momento, proprio quanto più sarebbe necessario nel senso che dici, tanto più quando proponi un testo impegnato ti senti rispondere “non so dove collocarlo”, perché in un momento di crisi non si può rischiare su una nuova drammaturgia, su nomi poco conosciuti al grande pubblico. Quindi non è possibile trovare una risposta, ma non voglio perdere questa luce ritrovata e questa debole rabbia che mi sta funzionando come motore d’azione.

Perché debole?

Mi servirebbe non sentirmi sola. Ho desiderio di interdipendenza, di persone con cui condividere lo stesso percorso. 

Donne senza censura – di e con Patriza Schiavo, Silvia Grassi e Flavia Pinti

In scena il 30 h 23,30, 1 luglio h 22 e 2 luglio h 20,30 – Fringe Festival – Villa Mercede, Via Tiburtina 113 (zona S. Lorenzo)

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