Paolo Poli ci mancherà. Ricordi di uno spettatore fedele

ROMA – Dello spettacolo Rita da Cascia ho un VHS nella libreria. Ragioni anagrafiche mi hanno impedito di vederlo dal vivo, quando negli anni Sessanta scatenò reazioni vivaci e Scalfaro arrivò a promuovere un’interrogazione parlamentare.

“Mi fece un sacco di pubblicità”, ricorda scanzonato l’attore in alcune delle sue interviste. E in effetti quell’incidente incrementò la sua popolarità. Paolo Poli è morto. Quel VHS nella libreria, che ho guardato con divertimento negli anni del liceo, ora produce in me una certa tristezza. Non sapendo se riuscirò a far funzionare ancora il mio vecchio registratore, mi sono affrettato a vedere se ci fosse in circolazione un DVD: dalla ricerca su ebay sono usciti fuori più che altro santini di Rita da Cascia. Poli ne avrebbe riso. 


L’attore fiorentino se ne è andato e già si rincorrono aneddoti esilaranti per tutte le orbite delle reti social, a ognuno ha lasciato un ricordo ed è evidente che tra citazioni di citazioni e fulminanti battute, frasi autentiche e spurie, il suo personaggio offrirà più aforismi di Ennio Flaiano e Oscar Wilde. Avrei voluto intervistarlo, più volte me lo sono ripromesso, rintracciarlo non sarebbe stato difficile, avevamo, tra l’altro, parecchi amici in comune, tra cui Piera Degli Esposti, Pino Strabioli, Renata Zamengo, ma, non so perché, anche se ho giocato a fare il critico fin dall’adolescenza, di lui ho preferito restare sempre e solo un fedele, ammirato spettatore. Una volta ci siamo salutati nel foyer del Teatro Manzoni, a Roma, e questo è stato tutto.


Dialogare con lui restava un sogno, come quando una giornalista un po’ squinzia mi chiese chi mi sarebbe piaciuto intervistare dello “star system” e io risposi senza esitazioni: Paolo Poli. Lui classe 1929, io 1985, eppure per me era un mito del tutto contemporaneo, “coetaneo”. Perché Poli, tra le sue tante qualità, aveva questa capacità di unire storie, età, visioni differenti. Ai suoi spettacoli incontravi gente ideologicamente e sessualmente schierata, ma anche ricche dame raffinate, signori dell’iperborghesia urbana, inurbana o inurbata, benzinai in pensione, intellettuali di grido, sfaccendati, impegnati. Tutti ci ritrovavamo nelle platee, qualche volta nelle gallerie, per assistere al rito del teatro ufficiato da questa adorabile, saltellante e indiscussa signora delle scene. Perché Poli lo amavamo tutti, anche chi, e ne ho sentiti pochi, lo criticava.

I fondali di Emanuele Luzzati, la compagnia tutta al maschile, i quadri che si susseguivano, i continui cambi, i falsetti che improvvisamente lasciavano il posto a una voce da basso profondo, il gusto dell’Oriente, anche a volte nel gioco dei movimenti corporei, le danze, le canzoni e canzonette, le poesie elevatissime, le filastrocche popolari, l’alto, il basso e il medio, come in Dante, in una parola: la vita nelle sue sfaccettature è ciò cui ci aspettavamo di assistere ogni volta che varcavamo la soglia del teatro per andare a vedere il signor Poli.
Tutti oggi lo ricordano come un gentleman, un uomo signorile, colto, e certamente lo era. Ma era anche qualcosa di più: era un attore filosofo. Dai suoi spettacoli si imparavano il piacere della lettura, la curiosità per l’umano, lui ci insegnava a non avere paura dell’altro, del diverso, ma non lo faceva con spirito missionario: il suo era un corso di pragmatica disincantata e poetica. 

Lui vinceva ogni forma di intolleranza giocando per primo al politically incorrect con autoironia e intelligenza, con leggerezza. Sua era l’arte di unire, di ricucire con l’arguzia le ferite di una società storicamente frammentata tra cattolici, comunisti, nostalgici, conservatori illuminati, reazionari bigotti, socialisti convinti, gente onesta di ogni sorta e corrotti trasversali. La sua allegria, il suo enorme talento riuscivano poi in quello che è la vera sfida dell’epoca contemporanea: unire le generazioni, dai figli del Ventennio ai viziati baby boomer, dai sessantottini irredenti ai nati negli anni di piombo. E al suo carisma non sono insensibili neppure i più giovani. Mi ha sempre divertito arrivare a Parigi, a casa del mio zio emigrato di lusso e ritrovarmi, come per tradizione, a ridere insieme con goliardia di fronte al computer con il video di Poli che canta Ai romani piaceva la biga. Nelle sue interpretazioni, anche il doppio senso più spinto diventava lezione di Storia, di Costume, di Arte. Alla fine dei suoi spettacoli attendevamo ridenti il gesto con cui ci cacciava dal teatro, en travesti, e scopriva il seno fingendo di offrirci il suo nettare, oppure concedeva un bis irresistibile come L’ode al pitale di Olindo Guerrini/Lorenzo Stecchetti/Argia Sbolenfi/etc. Dopo ogni suo spettacolo, con gli amici più curiosi, ci lanciavamo in gare di ricerca internetica. Tiravamo fuori quel pezzo del 1974, in cui canta con la Carrà e Mina e giganteggia sulla scena televisiva, pur confrontandosi con due donne che certamente non erano delle dilettanti. Andavamo poi a sentirci tutte le interviste rilasciate a questo o a quello, perché in ognuna c’era da imparare un nuovo autore della letteratura, una battuta utile per gli scontri dialettici della vita, una nuova visione delle cose. 


Da quando ho visto il suo Jacques il fatalista di Diderot, non ho mai perso nessuno dei suoi spettacoli, fossero i Sillabari da Parise, I sei brillanti, Il mare dai racconti dell’Orteseo gli Aquiloni da Pascoli. Ho comprato i suoi audiolibri, fossero favole o I promessi sposi o il ricettario dell’Artusi, sono andato a cercare il video di Caterina de’ Medici, ho insomma sviluppato quella “Polimania”, di cui ogni mente sensibile al gusto della cultura e del teatro non può che ammalarsi, ammaliarsi. Della sua intelligenza, prontezza mi sono beato come molti, ho riso quando, alle conferenze stampa dei suoi spettacoli, invitava con stupenda ironia i professori a non portare gli studenti, perché toglievano posti ai vecchi signori omosessuali e alle signore in pelliccia innamorate di lui “che pagavano il biglietto intero”. Come tutti ho fatto largo uso delle battute e delle citazioni dai suoi spettacoli: “Non fare finta di offrire a Dio ciò che il diavolo ha rifiutato”, “In amore prima paroloni, poi paroline e infine parolacce”, “Mentre i Promessi sposi iniziano con il fidanzamento e finiscono con il matrimonio, Madame Bovary comincia con il matrimonio e si conclude con l’arsenico. Molto meglio”. 

Era anticonformista su tutto Paolo Poli, era capace di non essere la bandiera di nessuno, di rifiutare i tentacoli delle lobby, perché amava la libertà, quella vera, illuminista, dei diritti di ogni individuo. Vinceva sempre nello scontro diretto, giacché, quando qualche interlocutore che si credeva intelligente lo metteva alle strette, lui sorrideva diabolico e meraviglioso e, in quella pausa piena di teatro, sembrava dire con grazia: “touché”, attirandosi tutta la simpatia di chi assisteva alla prova. Lui sì, lui era davvero un genio. Nelle sue vene è scorsa la sintesi dell’umanità e lui ha saputo restituircela quell’umanità, spiegarcela, insegnarcela e lo farà ancora, grazie al tanto materiale che ha lasciato con la sua opera instancabile. Morire di Venerdì Santo come Cristo m’è sembrato l’ultimo insuperabile sberleffo della sua gioia provocatoria. Sono sicuro che anche lassù abbia fatto sorridere qualcuno. La sua grandezza non si può raccontare, certo non sono in grado di farlo io e forse nessuno. L’esternazione più semplice resta la più vera: ci mancherà.     

     

       

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