Teatro Quirino. “La leggenda del pescatore che non sapeva nuotare”, analisi di un talento che si eleva

ROMA – Di altri, nel panorama teatrale italiano, non se ne sente o non se ne sente più la necessità. Di Agnese Fallongo, invece, avevamo bisogno e per fortuna è comparsa. Con il suo “La leggenda del pescatore che non sapeva nuotare”, regia di Alessandra Fallucchi, l’1 e 2 ottobre Agnese è tornata al Teatro Quirino, riempiendone la platea e confermandosi una delle autrici più interessanti nell’orizzonte della nuova drammaturgia nazionale.

Il pubblico è stato accolto in sala dalle voci delle interviste realizzate dall’autrice e interprete in giro per il Sud d’Italia. Questo tipo di ricerca sul campo, da cui sono scaturite quattro storie – ambientate nel Lazio, in Sicilia, in Campania e in Calabria – ci ricorda almeno tre importanti precedenti: le indagini etnomusicologiche dell’antropologo Ernesto de Martino, quelle linguistiche del dialettologo Gerhard Rohlfs, e, anche se di ricerca sul campo non si trattava, ma piuttosto di lavoro filologico, l’impegno di Italo Calvino, che raccolse fiabe e leggende popolari italiane. Musiche, dialetti e leggende del Mezzogiorno sono, in effetti, i tratti ricorrenti, il principale filo rosso che unisce le quattro vicende drammatizzate da Agnese.

La struttura scelta dalla Fallongo ha aspetti, per così dire, proto-tragici. Ognuna delle quattro storie è costruita attorno a un personaggio e all’attore per cui è stata scritta. Come in un ditirambo antico, un corifeo assume il ruolo guida, anzi, quello di protagonista, mentre gli altri costruiscono attorno a lui la cornice. Potremmo asserire che l’autrice – concetto forse troppo moderno per uno spettacolo che ha un assetto volutamente ‘antico’ – scelga di posizionarsi a metà tra un rapsodo e un tragediografo, dando vita a un testo pre-drammatico che ben si adatta al materiale folclorico da cui nasce. Non drammaturgia vera e propria, dunque, ma piuttosto rapsodia. Per questa ragione moltissimo è affidato all’esecuzione, il che significa, trasposto in termini moderni, anche all’intervento ordinatore e a quell’apporto di scrittura scenica della regia, disegnata con tratto sicuro da Alessandra Fallucchi. 

La prima voce è quella del “pizzarolo” romano Arturo, interpretato da Teo Guarini. Un orfano adottato dall’anziana signora Rina. Il giovane vive una semplice storia di amore e di guerra, condita da una passione artistica, per il suo talento di “stornellaro”. La Fallucchi traccia molto bene il percorso degli attori, anche dei tre “di contorno”, che agiscono per lo più in controtendenza, evitando, generalmente, patetismi e soluzioni facili. Teo Guarini, indubbiamente ricco di talento musicale e capace di gestire con grande efficacia la mimica facciale, dà il meglio di sé quando abbandona il registro ridanciano. Nei momenti in cui il testo potrebbe offrire lo spunto per uno sconsigliabile gigionismo, l’interprete, attentamente guidato dalla mano registica, riesce a non cadere nella trappola, anche se, in certi brevi istanti, agli spettatori sembra di avvertire in lui il desiderio di lasciarsi andare. 

Sul piano espressivo, la Fallongo, che depura i dialetti dai tratti troppo marcati e poco comprensibili, si serve di allitterazioni, inserisce modi dire, gioca con i registri, fa uso, al punto giusto e con misura, della parolaccia. Può capitare, molto raramente per fortuna, che la rielaborazione poetica del materiale vivo raccolto dall’autrice non raggiunga quel potere necessario alla parola scenica, e così il “bell’Arturo” può trovarsi in bocca una frase troppo stereotipata come: “Non so mica li sordi che te sarveno, ma li affetti e li sogni”. Di solito, però, Agnese, nella sua selezione e rielaborazione, sa dare vita alla parola drammatica. Ne è un esempio l’asserzione finale del primo protagonista: “Famo finta che non è successo niente, che non c’è stata la guerra, che l’amori non finiscono e che nessuno se ne va”. Un enunciato che gode di felice sintesi e procura emozione nello spettatore, perché gli fa provare tutta la distanza tra i desideri di Arturo, in cui può facilmente rispecchiarsi, e il ben differente dato di realtà. 

La seconda storia è affidata alle cure della giovanissima Eleonora De Luca, cui la natura ha generosamente elargito intelligenza scenica, orecchio musicale, grazia nella figura come nei movimenti. La sua Maria, ragazza siciliana che vive una breve avventura con un soldato americano e tutte le sue tragiche conseguenze, ha il non facile compito di incarnare in brevissimo tempo una crescita dall’infanzia all’adolescenza, al fatale impatto con l’età adulta; deve, in poche parole, offrire un’evoluzione convincente del personaggio. L’attrice si dimostra all’altezza della prova, aiutata anche dalla regista e dal testo che creano i giusti controtempi, l’improvvisa recita di un ‘paternostro’ o altri interventi dei tre attori secondari. 

Fa da sfondo a questa storia la leggenda di Solabella, la sirenetta di Modica. Eleonora attinge anche al suo patrimonio attorale siciliano, accennando la tecnica del cuntu. Il tratto della vitalità rende sempre questa interprete molto vicina allo spettatore, che la percepisce come priva di filtri, naturalmente portata a vivere una storia di spensierato errore, alla non percezione del pericolo. Solo la risata che l’attrice attribuisce a Maria bambina non sempre persuade e produce l’effetto desiderato, specialmente nella caratterizzazione dell’infanzia. Domenico Macrì, nel ruolo del padre, e Agnese Fallongo, nel ruolo della madre, creano un contraltare fatto ora di accenti comici, in particolare Agnese, ora di accenti tragici, in grado di rendere il pubblico ancora più partecipe. 

Le scelte musicali hanno a volte una forza connotativa, come nel caso della canzone “Sing Sing Sing”, che chiarisce immediatamente la presenza americana in Italia e carica di allegria la scena, per preparare ancor meglio, nel contrasto, la strada al toccante epilogo della storia. La grazia con cui vengono simbolizzati il rapporto sessuale tra Maria e il soldato, come anche il parto, rivelano la delicatezza intelligente e allo stesso tempo efficace dell’interprete e della Fallucchi. 

Sul piano drammaturgico, una didascalia, quella sul mercato di Ballarò, si distacca troppo evidentemente dal tessuto del testo – come era già successo per la prima storia nella digressione sul quartiere della Garbatella – e produce una nota disarmonica che si poteva evitare. 

Anche in questo caso vi sono espressioni che, pur semplici, riescono a sollevarsi dalla banalità di una riproduzione piatta del parlato, questo ne è un esempio: “Potevo sentire nitidamente il cuore di mia madre che si spezzava”, dove l’immagine troppo vista del “cuore che si spezza” è resa interessante dalla concretezza, quasi fisica, sensoriale di chi “sente”, e per di più “nitidamente”, gli effetti del dolore su una persona amata.

L’eccezionale tensione polifonica della Fallongo raggiunge i vertici negli ultimi due episodi. Nella storia campana, interpretata da Agnese stessa in napoletano, il pubblico è completamente rapito dal gioco oppositivo creato, grazie a una particolare abilità registica, attorale e drammaturgica, dalla retorica delle canzoni di Filippo il seggiularo, sospiroso verso la sua Regina, e l’antiretorica di lei, ritrosa di fronte al corteggiatore, secondo un meccanismo scenico che ha precedenti antichi e moderni. 

I nomi hanno sempre molta importanza nel testo della Fallongo, spesso sono nomi parlanti, e non di rado producono un effetto comico, come nel caso dei genitori di Regina, Santo e Crocifissa. Fra tutte questa è la storia in cui il confine tra realtà e leggenda si fa così labile da produrre una positiva aura di mistero, che coinvolge lo spettatore. La storia di Regina, Albina e Romita è così simile a quella leggendaria delle figlie del marchese Toraldo ed è così ben costruita da creare interrogativi nello spettatore, che non sa più bene in quale dimensione posizionare la vicenda. Come sempre, e questo schema ripetuto alla lunga può rischiare di nuocere, le canzoni intervallano il fluire della vicenda, ma in generale va detto che esse sono perfettamente integrate, specialmente in questa storia. 

Agnese dà prova di essere un’attrice davvero rara, passando con disinvoltura da un registro all’altro, senza lasciare mai spazi vuoti, bolle di noia tra sé e gli spettatori. Sa catalizzare su di sé l’attenzione, creando un assorbimento completo del pubblico, che le si abbandona, segue i suoi rapidi cambi di tono, di espressione, l’escursione tra il racconto soave dell’amore e la ruvidezza popolare. 

Piccole strizzatine d’occhio metateatrali, giustamente incorniciate dalla regista, senza fatica strappano un sorriso allo spettatore divertito, che vede, ad esempio, Teo Guarini accennare la parte di Albina, mentre Regina/Agnese lo invita a sottolineare l’interpretazione stilizzata della sorella, dandogli indicazioni gestuali, dirigendolo. 

A livello espressivo sono perdonabili un paio di dittologie ‘fatte’ come “felici e contenti” o “buie e desolate”, frasi che pronuncerebbe una persona semplice, ma non un personaggio che interpreta una persona semplice, a meno di voler sottolineare con un certo scherno gli stereotipi linguistici. Molto apprezzabili invece alcune trovate, come questo bisticcio: “E se non ci conosciamo, come facciamo a conoscerci, se non conoscendoci?”. Ma belle sono anche espressioni come “Aggio tenuto e lacrime arretro all’uocchie” o anche vezzeggiativi dall’effetto comico come “bellillo”. 

Nelle diverse interpretazioni canore, inoltre, la Fallongo rivela una voce portentosa. Chiude lo spettacolo la storia che dà il titolo al dramma. Protagonista ne è il pescatore Mamozio, incarnato da Domenico Macrì. Una serie di costruzioni linguistiche, quali il gioco della storpiatura della parola ‘archeologo’ in ‘archeologico’, o la piccola macchina scenica che vede opporsi gli abitanti di Gioiosa Ionica, i cipuddari, coltivatori di cipolle, e quelli di Marina di Gioiosa, i pisciari, creano forti effetti di ilarità. Tuttavia, il tono si eleva presto, e molto intensa diventa la dialettica tra il piccolo ‘coro’ dei tre e il protagonista. Macrì riesce a dare grande spessore psicologico al suo personaggio, specialmente nella relazione con il padre, capo dei pescatori che fa sentire la sua pressione sul giovane, incapace di nuotare. Ma avvertiamo anche il rapporto tra individuo e contesto sociale. Forte è l’impronta registica, che sfrutta simbolismi, come quello dello spostamento del cappello del padre morto sul capo del giovane, a mo’ di investitura o passaggio di consegna. Un attento intervento registico si rende necessario anche nella rappresentazione del mare e del suo moto, costruito, grazie a un lenzuolo bianco, con precisissime indicazioni di movimento impartite alle due attrici e al protagonista. La trasformazione di Mamozio in pesce, una volta sommerso dalle onde, dà a Macrì l’opportunità di mostrarci l’attore che è. 

Travolge la naturalezza, la verità con cui Domenico sa esprimere il sentimento, pur surreale, di un uomo che si ritrova vivo nella profondità dell’acqua e si scopre a far l’amore con il mare, e non contiene l’entusiasmo di questo amplesso, del sentire un nuovo tipo di respiro, un nuovo corpo, una diversa pelle. Il suo tratteggio dell’uomo-zoomorfo è inimmaginabilmente convincente, perché il suono stridulo che assume la voce di Macrì, il movimento guizzante del suo corpo esprimono, come nessuno avrebbe potuto figurarsi e come tutti però percepiscono, il pensiero agito di quel passaggio esistenziale.

Poco da dire sui costumi, sobri e giusti. Nel disegno luci appare interessante la mescolanza di led e incandescenza, anche se gli esiti sono alterni. “La leggenda del pescatore che non sapeva nuotare”, con le due rappresentazioni al Quirino, ufficializza il posto che la meritevole Agnese Fallongo, pluripremiata, sta guadagnando nel teatro italiano, e quello che sembra destinata a occupare. In un’altra sua opera, “Letizia va alla guerra”, l’autrice, anche in quel caso guidata da un ottimo regista, quale è Adriano Evangelisti, compie un passo ulteriore nel suo percorso drammaturgico, avvicinando ancor più i due episodi che compongono il dramma, dando maggiore coesione. È, credo, il suo un tragitto per tappe verso l’unità e la compiutezza, verso la vera e propria costruzione drammaturgica compatta e coerente, non più rapsodica, appunto, ma realmente drammatica. Forse, in effetti, ne è venuto il momento. È un grande salto che le chiediamo, un salto che ci aspettiamo, che non tarderà ad arrivare, che arriverà.

     

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe