Teatro Argentina. La “Turandot” di Pechino

ROMA – Marco Plini porta in scena la Turandot insieme all’Opera di Pechino al Teatro Argentina fino al 10 febbraio. L’Opera di Pechino ha una storia secolare ed è una delle forme teatrali orientali più conosciute al mondo. Secondo la tradizione, la messinscena diviene un impasto eterogeneo di arte drammatica, pantomima, musica, canto e danza. Dall’ispirazione della Turandot di Giacomo Puccini ha preso forma questo progetto che unisce la regia italiana alla tradizione teatrale cinese.

Turandot è la favola dell’esotismo per eccellenza: in origine la leggenda proveniente dall’Asia centrale si è trasformata – nel corso del Settecento per opera del drammaturgo Carlo Gozzi  in un’opera teatrale ambientata nella Cina imperiale. Durante il ventennio del secolo scorso il genio di Puccini l’ha resa una delle opere liriche più famose e amate al mondo.

La favola della regina dal cuore di ghiaccio, vendicativa e orgogliosa, ci trascina in una Cina magica e fiabesca, animata da principi e imperatori, serve fedeli e un popolo irrimediabilmente sottomesso ai capricci della propria sovrana. Turandot, per volontà di vendetta nei confronti di una storia che ha visto sua zia vittima di violenze e costretta al matrimonio, decide di proteggere la propria dignità di regina costringendo ogni suo pretendente a risolvere tre difficili enigmi, pena la decapitazione. La scena si apre sulle teste dei numerosi uomini che hanno fallito nel tentativo di ottenere la sua mano. Sarà l’intelligenza e la determinazione del principe straniero esiliato Calef a far capitolare la glaciale regina, in nome di un amore prima a lei sconosciuto e riconosciuto nel sacrificio della serva fedele Liù, disposta a morire piuttosto che rivelare il nome del principe suo padrone.

Marco Plini ci trasporta in una dimensione di sogno: cala la luce in sala e un suono assordante ci fa trasalire, per scoprirci svegli laddove in scena sta per prendere vita uno spettacolo a dir poco straniante. La scena appare spoglia – come da tradizione dell’Opera di Pechino –: solo alcune colonne a dare la sensazione di un interno regale. L’intero spettacolo è in lingua cinese con i sopratitoli in italiano. Ciò che si muove sul palco è uno spettacolo al quale non siamo abituati, fortemente radicato nella tradizione cinese. La recitazione – musicale anche nel parlato  si accompagna a una gestualità rituale che ha un sapore antico e, per questo, genera rispetto. Anche se di difficile comprensione di fronte a una platea per metà occidentale, si comprende – ormai immersi in una dimensione onirica  la valenza artistica di una tale mimica che crea singoli quadri artistici fermi sulla scena, separabili e validi anche singolarmente.

La musica è il luogo in cui avviene la vera e propria contaminatio tra Italia e Cina. Se ci si aspetta di ritrovare Puccini tra le note curate da Luigi Ceccarelli e Alessandro Cipriani, ci si sbaglia di grosso. Ciò che accade sul palcoscenico è l’unione tra le melodie della tradizione dell’Opera di Pechino e la musica composta dai due autori italiani, in cui ritroviamo strumenti a percussione, chitarra elettrica e musica elettronica. Ai due lati del palco, sulla sinistra i musicisti italiani e sulla destra quelli cinesi – armati di strumenti a corda e ad arco  danno vita a un mèlange a volte di difficile comprensione, altre di grande bellezza e armonia. La volontà di creare una dimensione atavica e tribale tramite l’utilizzo ricorrente di percussioni e di volumi spesso poco tollerabili è evidente: ciò rende inequivocabile il passaggio dalla dimensione del sogno a quella dell’incubo, quando sulla scena la regina di ghiaccio si scatena nella sua spietata ferocia. La lunga notte insonne alla ricerca del nome dello straniero che ha risolto gli enigmi diviene il luogo di un’inquietudine ancestrale.

La luce dà forma ai personaggi e alle loro maschere indossate o reali, quando il trucco diviene volto e forma, evocazione. Il buio non conosce il silenzio e urla con i suoi bassi e le sue percussioni, fino a sconvolgere le viscere. E nel finale mai scritto da Puccini e curato, postumo, da Franco Alfano, la scena si annulla, le colonne si sollevano, le pareti si aprono e scoprono il cuore del teatro con i suoi tubi e riflettori: scopriamo così che il sogno è solo costruzione, assemblaggio artistico più o meno riuscito, mentre la scena spoglia è divenuta schermo di immagini rallentate in bianco e nero che mostrano i personaggi e le loro azioni in una sorta di inconscio poco decifrabile.

Ciò che appare sulla scena ha, senza dubbio, un effetto destabilizzante non necessariamente positivo. E la dichiarata lontananza dall’esempio pucciniano costringe a chiedersi dove realmente si sia svolta la contaminazione tra una cultura antica e preziosa come quella cinese e la patria del belcanto per eccellenza. Ma resta un’esperienza interessante e di profonda conoscenza da cui accogliere la bellezza come un regalo. Tutto, sulla scena, danza: le vesti, i copricapi, le mani. La lotta, la guerra, la violenza, persino la morte, si trasforma in un lento avvolgente movimento che rapisce. Turandot danza e le sue vesti diventano braccia, ali: i ventagli disegnano forme e linee che ci trascinano in un altrove che incanta. I costumi e i colori si scoprono i veri protagonisti della scena: sono essi stessi personaggi, armatura e appendice eloquente dei luoghi antichi e lontani da cui provengono. Niente di questo spettacolo ricorda la visione fantastica e poco reale che l’Occidente ha portato sui palchi di tutto il mondo: sulla scena è la Cina, con le sue lontananze e le sue presenze

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