Teatro. Ci chiamarono tutti Alda

Giulia Santilli fa rivivere in scena l’universo mentale della grande poetessa Merini in un sorprendente monologo a suspence

C’è un confine tra la Parola e l’Emozione e tra il Verso e la Musica, ma quando le barriere si aprono intersecandosi tutto si mescola in Poesia. E chi riesce ad amalgamare con il proprio intuito queste sensazioni si immerge nell’Universo dell’Incanto. C’è il tocco indispensabile del Dolore e della Creatività di Alda Merini per raggiungere questo, ma c’è l’altrettanto insostituibile apporto di una interprete, Giulia Santilli, che l’altra sera al Teatro della Cometa Off ci ha trascinato in questo itinerario mozzafiato, bloccando il respiro, fermando il battito, arrestando la cognizione intellettiva per tuffarci in un passato, quello della grande poetessa  dei Navigli, dalle mille ombrose riflessioni e dagli “illuminanti” bipolarismi.

“Ci chiamarono tutti Alda”, prodotto da Pino Insegno, supervisionato da Marco Guadagno, scritto da Fabio Appetito, in scena 3 giorni a Roma e in tour prossimamente verso le Venezie, è un esercizio di stile in cui l’impressionante espressività della giovane Santilli riesce ad intimizzare il rapporto con la poetessa a tal punto da presentarcela come una sorella da accudire, una madre da ascoltare, un’eroina a cui ispirarsi, tanti e tali sono i brani selezionati accuratamente dall’autore (non a caso, Appetito è il recente vincitore del Premio Internazionale di Letteratura Alda Merini), coadiuvati peraltro da un sapiente gioco di luci ed una colonna sonora generatrice di costanti brividi emotivi che spazia dal minimalismo alla classica, dal pop italiano al rock anni Settanta (e la Notte “urlata” da Patti Smith risulta in perfetta sintonia coi versi Meriniani).

Giulia Santilli si accosta all’esperienza manicomiale della Merini, ma trasla con nonchalance in episodi Danteschi, ci parla con distacco della storia privata di Alda con i suoi stessi ricordi autobiografici ma rivive al contempo l’esperienza dell’orrore del centro di igiene mentale. La maternità vissuta in carcere, così come il distacco dalla famiglia che ce l’ha rinchiusa, l’attaccamento paterno senza risposte all’abbandono del padre nelle quattro mura del manicomio, la speranza della Vita che si fa Arte nel dialogo con se stessi: in 50 minuti di  sospiri e deflagrazioni, affabulazioni psichiche e microsegnali somatici, verbi sussurrati e sguardi perduti nella fuga da se stessa (dall’attrice, dalla poetessa, dalla donna che confessa il suo Io più recondito), la brava attrice si espone e si impone oltrepassando la barriera divisoria del palcoscenico per entrare nella percezione spirituale di chi la ascolta, la vede, la segue anche ad occhi chiusi – conoscendo o non conoscendo la storia di questa grande artista-aforista: ed è subito immedesimazione ed assoggettamento alla storia, compassione e riscatto, compenetrazione e afflato alla meravigliosa avventura di Alda Merini, compresa anche dei suoi silenzi, quelle parole non dette che bisogna saper scegliere con cura e che Giulia Santilli – attraverso la sua presenza scenica e le sue pause – è riuscita perfettamente a trasmettere.

Elisabetta Castiglioni 

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