Teatro Palladium. “Il pellicano”, un mondo in frantumi. Recensione

C’è qualcosa di sorprendentemente contemporaneo nella dimensione drammatica de Il pellicano di August Strindberg: una suggestione che suona familiare e vicina all’oggi anche dopo centodieci anni

ROMA – C’è qualcosa di sorprendentemente contemporaneo nella dimensione drammatica de Il pellicano di August Strindberg: una suggestione che suona familiare e vicina all’oggi anche dopo centodieci anni. Forse perché questa pièce, scritta dal drammaturgo svedese nel 1907 come quarto lavoro per l’Intima Teatern di Stoccolma, e nota anche come Opus 4, prende le mosse proprio dall’emergere di una crisi. O forse per il respiro inevitabilmente universale delle tematiche e delle ossessioni con cui l’autore si misura. E la forza di questo testo emerge in modo netto nella versione in scena al teatro Pallaudium di Roma dal 21 al 26 febbraio, affidata all’ottima regia di Walter Pagliaro.

Punto di partenza è il crollo graduale ma inarrestabile di una famiglia all’indomani della morte del padre. Al centro del dramma c’è la madre, che vede sé stessa come il pellicano a cui rimanda il titolo: disposto, secondo una vecchia credenza, a dare persino il sangue per nutrire i propri piccoli. Nella stessa casa vivono poi il figlio Fredrik e la figlia Gerda con suo marito Axel. Sullo sfondo, una situazione di difficoltà economica che, pur apparentemente presente da tempo, sembra destinata a peggiorare. Ma a poco a poco una serie di rivelazioni e prese di coscienza frantumano definitivamente i già precari equilibri familiari, e mettono in luce una situazione radicalmente diversa, con la madre agli antipodi rispetto al simbolo del pellicano e più simile a un vampiro intenta a “bere” il sangue dei figli, negando loro persino il cibo mentre lei mangia di nascosto. Axel, nel frattempo, si dimostra intenzionato soltanto a divenire il nuovo padrone della casa, disposto per lo scopo a intrattenere un rapporto ambiguo con la suocera. Tutte le maschere e le facciate cadono, e ai due figli non resterà altro da fare se non riallacciare i fili confusi della propria infanzia, finendo per approdare alla disperazione e ad un desiderio feroce di vendetta.

I temi ricorrenti della poetica di Strindberg ci sono tutti. I personaggi si comportano alla stregua dei suoi tipici “sonnambuli”, che nel risvegliarsi si rendono conto di aver sempre avuto la dura verità sotto gli occhi, e di non averla voluta vedere. Il passato angoscioso riaffiora continuamente, mentre il magico e il soprannaturale si affacciano ad esempio negli angosciosi sensi di colpa della madre di fronte ad una sedia a dondolo mossa dal vento. Vita e morte si intersecano, con la figura del padre che con una lettera nascosta torna a parlare dalla tomba per accusare la madre di averlo addirittura fatto morire alimentato la sua disperazione e la sua frustrazione.

All’efficacia di tutto questo contribuisce la splendida scenografia, che parte dal classico salotto borghese, e che pian piano si apre a svelare un ambiente marcescente e sanguinolento, che rimanda a un contesto infernale, o quantomeno a quel “purgatorio” che pure era stato pensato da Strindberg come titolo alternativo del dramma. Potenti e valide le prove degli attori, tra i quali spiccano Micaela Esdra nel ruolo della madre e Giacomo Vigentini nel ruolo del figlio Fredrik. E assai efficaci sono le luci, soprattutto nel catartico rogo finale: quella distruzione purificatrice che sembra essere l’unico approdo possibile per recuperare una qualche forma di armonia nell’immagine di un passato ideale. 

È una visione drammatica, quella di Strindberg, che si riallaccia a Medea, con la madre che “uccide” i figli, e all’Amleto, con la ricerca di Fredrik per comprendere la sorte del padre. E in questo impianto, è la crisi ad imporsi come elemento centrale, intrecciando vari piani: la distruzione della famiglia borghese diventa il crollo di una società intera, che però è legato inevitabilmente a alla natura umana. Il dramma si sposta allora sul piano intimo e interiore, dove persino i malvagi sono “dormienti” e incapaci di rendersi conto della propria condizione. Strindberg si confrontava con tutto questo agli inizi del ‘900: un secolo che avrebbe visto meraviglie e devastazioni, nuovi inizi e crisi ancora più profonde. Eppure non esitava a mettere sul piatto la necessità di una cesura e di una presa di coscienza, anche a costo di arrivavi attraverso le fiamme.

IL PELLICANO

di August Strindberg

Traduzione di Franco Perrelli

Regia di Walter Pagliaro

Scene e costumi: Luigi Perego

Luci: Daniele Passeri

Con Micaela Esdra, Giacomo Vigentini, Dalila Reas, Fabrizio Amicucci, Luisa Novorio

Associazione Culturale Gianni Santuccio, in collaborazione col Teatro Stabile dell’Abruzzo

Dal 21 al 26 febbraio 2017

Da martedì a sabato: ore 21

Domenica: ore 18

TEATRO PALLADIUM 

Università degli Studi Roma Tre

Piazza Bartolomeo Romano 8 – Roma

Info: 3272463456

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