I racconti di Versailles. Un diadema scomodo. Episodio XIV

11 giugno 1775. Il sole sorgeva su Reims quando ebbe inizio il rito sacro.

   Il duca di Bouillon, gran ciambellano, sentendo bussare, alzò il mento e, impostando il tono, chiese:

Chi venite a cercare?

Il re – rispose il vescovo di Laon.

Nessuno si mosse, bussarono di nuovo.

Il re dorme – disse il duca.

Vogliamo il re – ripeté il prelato.

Nessuno aprì.

Vogliamo Luigi XVI, che Dio ci ha dato come re! – la terza volta il vescovo gridò altisonante e le porte si spalancarono. 

Seduto sul letto, pronto per l’incoronazione, apparve Luigi nell’abito argenteo, calze e scarpe abbinate, giarrettiere al ginocchio, tocco nero con candide piume fra i diamanti, mantello foderato di ermellino, così pesante per quel giorno estivo! L’aria imbambolata, stanco del viaggio, stressato dai preparativi, sentiva caldo al punto da grondare sudore. Si mosse verso la cattedrale, scortato dal seguito. Sin dall’alba la folla si era raccolta lungo il percorso, avida del magnifico corteo di prelati, guardie, alabardieri, aristocratici, gran dame, ufficiali della corona: ammirata e curiosa ma infastidita tuttavia da quel lusso spudorato. 

Al passaggio delle carrozze molti invocavano a mani giunte:

Maestà dateci il pane…

Volti emaciati, bocche sdentate!

Primi a entrare in chiesa i membri più elevati del clero e dell’aristocrazia, al braccio del Vescovo di Laon Luigi si raccolse accanto all’acquasantiera, poi prese a marciare lungo la navata centrale mentre insieme all’organo squillavano le trombe, rullavano i tamburi. Aprivano la strada il connestabile di Francia, che brandiva la spada, le autorità di corte, i principi del sangue. Il cardinale La Roche-Aymon, grato a Dio per avergli fatto celebrare i momenti più importanti di quel secolo, ricevette il sovrano all’altare sul quale stavano disposti gli abiti regali. Ebbe luogo il rito dell’acqua benedetta, fu intonato il Veni creator. Emozionato e confuso, Luigi giurò solennemente di mantenere la pace nella chiesa e, più flebilmente perché poco convinto, di sterminare gli eretici. La vestizione iniziò con la camicia cremisi, il gran ciambellano gli calzò stivali viola speronati, mantello celeste con i gigli di Francia. L’arcivescovo gli cinse la spada di Carlo Magno e Luigi la tenne con la punta in alto mentre il coro cantava.

Nella luce che fendeva la navata, Papillon de la Ferté, levigato intendente dei minuti piaceri, che tanto si era speso per quel grande giorno, d’un tratto si sentì meno preoccupato perché il più era stato fatto. Guardando l’anfiteatro costruito per Maria Antonietta, i pari, il palcoscenico su cui poggiava il trono, si concedette il lusso di pensare: “Non aveva torto il duca di Croy a definirlo spettacolo d’opera, ma l’effetto è grandioso… se solo sapessi quanto costa, abbiamo superato il preventivo…” si grattò la parrucca.  “ Turgot per risparmiare voleva restare a Parigi…. ”

Poi, finalmente, vide il cardinale La Roche-Aymon prendere la corona.

   “Seimila luigi” calcolò Papillon sapendo che era stata fatta apposta perché quella del nonno era stretta, ma guardando il brillante concluse: “Il regent è splendido”.

La Roche-Aymon tenne alto quel diadema d’ oro, rubini, smeraldi, zaffiri, per un tempo che sembrò interminabile.

Finalmente lo pose sul capo:

Che Dio vi cinga di gloria e giustizia. Vi armi di forza e coraggio, che benedetto dalle nostre mani, pieno di fede e santità, arriviate alla corona del regno eterno”.

I presenti trattennero il fiato. Il silenzio si fece solenne.

     Luigi inaspettatamente sussurrò:

Mi da fastidio…

Il cardinale finse di non sentire. Chi udì rimase interdetto, trasalì Papillon de La Ferté.   Subito si levò il coro, si formò un corteo, il re fu sollevato e posto sul trono dal quale benedisse gli astanti.  Per tre volte La Roche-Aymon gridò:

Vivat Rex in aeternum!

Le porte della cattedrale si spalancarono, la folla irruppe, gli uccellatori liberarono in cielo centinaia di colombe, si alzò il Te deum.    

Papillon de la Fertè, finite le sei stressanti ore del cerimoniale, lasciò la cattedrale di Reims schiacciato nella ressa. 

Provato come dopo un esame, si avviò pensando che finalmente poteva riposare:

Contando toghe, mantelli, paramenti e parures, avremo speso un milione di luigi… ma resterà indimenticabile… 

Sul piazzale sorrise.

 

***

   Maria Antonietta non amava la sua stanza da letto a Versailles, sapeva che quel sontuoso talamo era un trono, simbolo del potere di chi assicura la dinastia, desiderava ardentemente mettervi al mondo dei Delfini: sua madre lo aveva fatto con arte e lei non poteva essere da meno, ma proprio questo paragone sommato alle attese altrui erano un peso, solenne, inospitale, enorme come quel salone. Sapeva che lì avrebbe ricevuto da regnante le visite ufficiali e la corte, lì avrebbe misurato la propria onnipotenza e immortalità, privilegio concesso agli eletti ma, senza capirne il motivo, anche dopo l’incoronazione, aveva continuato a preferire i “piccoli appartamenti”, ai quali accedeva attraverso porte nascoste dietro le tende dell’alcova d’apparato. Sotto Luigi XIV e XV i piccoli appartamenti, in una costruzione a tre piani che si affacciava su un cortile buio, erano stati vani di servizio: le loro stanze minuscole, non più spaziose di quelle dove oggi vive la classe media, si prestavano all’intimità e sfuggivano all’etichetta, cosa che Antonia adorava. Le due biblioteche, il salone dorato, soprattutto l’ottagonale Meridiana, col suo lettuccio a specchio, le consolles, i cagnolini in lacca del Giappone inviati da Maria Teresa, le poltroncine pastello, nascondevano un regno privato.

   Le undici del mattino, a uno scrittoio della Meridiana Antonietta attendeva Rose Bertin, la modista che le aveva confezionato l’abito per la cerimonia di Reims: creazione con ricami in pietre talmente pesanti che alla maestra del guardaroba, la duchessa di Cossé, per portarlo era stato consigliato un sostegno apposito e costoso.

   La regina lesse la lettera da spedire: 

                                                                                       Versailles 22 giugno 1775

Signora, mia cara madre

                          L’incoronazione è stata perfetta. Tutti sembravano essere felici di vedere il re.(…) Le cerimonie della chiesa sono state interrotte al momento dell’incoronazione dalle acclamazioni più toccanti. Non ho saputo trattenermi, le lacrime sono colate mio malgrado e mi è sembrato che ciò fosse apprezzato. Per tutto il tempo del viaggio ho fatto del mio meglio per rispondere ai saluti popolari benché facesse davvero caldo e la folla fosse immensa, ma non recrimino per la fatica che non mi ha turbato. E’ cosa sconvolgente e insieme felice essere ricevuti tanto bene solo due mesi dopo la rivolta e malgrado il caro prezzo del pane, che malauguratamente continua. E’ cosa prodigiosa, propria dei Francesi, lasciarsi influenzare dai cattivi consigli ma ritornare in se rapidamente. E’ certo che scoprendo gente che nella disgrazia ci tratta tanto bene, ci sentiamo ancora più obbligati a lavorare per il loro benessere. Il re mi è sembrato penetrato da questa verità. Da parte mia, so bene che non dimenticherò mai in tutta la mia vita (dovesse durare cent’anni) il giorno dell’incoronazione. 

 

 Sentendo le guardie vociare nel cortile capì che stava arrivando qualcuno, nascose i fogli. Fu annunciata la sarta che entrò, le guance fulgide di belletto, il sorriso largo e invitante. Il personale di servizio la fulminò: una plebea accedeva alle intimità della regina, non era mai successo! Scandaloso! 

    Rose s’inchinò profondamente.

       La regina, in una lunga veste da camera.

     – Fate vedere i tessuti… 

Certo Maestà….   – Rose aprì un bauletto, ne trasse una seta ricamata con penne di pavone.

Maria Antonietta scosse la testa.

    – Ricorda le tende del letto…

   Che cosa dite mai!  – continuò a frugare… – ecco qualcosa di più semplice, un blu meno vivo…

No…

La modista tirò fuori tutto disponendolo sulle poltrone.

Avrei voluto vedervi durante l’incoronazione… mi è spiaciuto che madame de Cossé non abbia portato l’abito sull’apposito sostegno!

Il figlio di madame è malato – disse Maria Antonietta – dopo una vaccinazione è diventato zoppo… dovrà portarlo in certe terme della Savoia, bisognerà fare a meno della duchessa…

Speriamo che la contessa di Artois faccia un bambino sanissimo e bellissimo!  – ma, incontrato lo sguardo dell’altra, la Bertin si bloccò. Che gaffe: il parto della cognata non metteva certo sua maestà di buon umore!

 

***

      Il 6 agosto 1775, alla presenza di tutta la corte, la contessa di Artois diede alla luce il primo nato dell’ultima generazione dei Borboni. Come per ogni evento ufficiale fin dal mattino e per tutta la giornata, incuranti del caldo, gli abitanti di Versailles e di Parigi si erano precipitati a palazzo per seguire da vicino la situazione: assiepati attorno alla camera della partoriente, a stento tenuti a bada dalle guardie, nel chiasso e nella calca, bramavano sapere. Quando corse voce che il bambino era un maschio, grosso e sanissimo, ci fu chi inneggiò e brindò al nuovo delfino. Luigi XVI assegnò al nipote il titolo di duca di Angoulême. Maria Antonietta rimase accanto alla cognata fino a sera, reprimendo disagio e umiliazione. Appena la puerpera fu riportata nel suo letto, decise anche lei di accomiatarsi. Provata, depressa e stanca, sentiva il bisogno di star sola: attraversò la sala delle guardie e raggiunse le scale ma, d’improvviso, con stupore si trovò di fronte una folla immensa. Deglutì. Avanzò cercando di darsi un tono.

Alcune pescivendole si staccarono dal gruppo:

Maestà… quando arriva la bella notizia?

Antonietta finse di non capire. 

Un delfino non lo fate?

 Si diresse verso la sua camera, le donne la seguirono.

Il re non ce la fa? Cercate di incoraggiarlo! Che aspettate?! Gli uomini non vi piacciono? 

            Le risa si fecero irrefrenabili.

   Antonietta affrettò il passo, tra sghignazzi e bestemmie correva, nel timore di scoppiare in singhiozzi, per infilare la porta.

– Madame Campan! – chiamò con sgomento aprendola e subito richiuse.

 

***

 Nell’attesa di un figlio che non veniva, di un marito che non era tale, nonostante gli sforzi e la costruzione di un passaggio tra i loro appartamenti, Maria Antonietta si circondava di bambini, quelli delle dame del seguito o delle cameriere. Ricoprendoli di attenzioni viveva l’illusione di accarezzare il suo erede al trono: le piaceva coccolare i piccoli, sbaciucchiarli, affondare i polpastrelli nelle loro carni tenere, ne desiderava ardentemente uno suo perché si sarebbe riscattata.

Un giorno di fine estate, mentre attraversava in calesse Louvaciennes, cielo terso e vento delicato rendevano più facile il respiro. Ascoltava stormire gli alberi e pensava alla sua infanzia, alle distese verdi dell’impero austriaco, a sua madre. Al casale Saint Michel, sotto un passaggio ad arco, una nuvola le ricordò un cavallo nell’atto di saltare. La indicò al postiglione ma una frenata gettò tutti nello scompiglio.

Che succede?! – Maria Antonietta balzò in piedi.

Un bambino è finito sotto gli zoccoli…

Il cocchiere scese, lo estrasse e lo palpò attentamente.  La regina si sporse e incontrando uno sguardo azzurro di quattro anni, biondissimo, viso tondo, sano e luminoso, s’intenerì.

Si è fatto male?

Neanche un graffio maestà.

Sua nonna, uscita dalla capanna, afferrò il nipote.

Jacques! Perché dai fastidio? Vieni via…

Aspettate! – ordinò Maria Antonietta – questo bambino ha la madre?

No madame, mia figlia è morta lasciandomene cinque…

Il viso della regina si fece raggiante:

E’ il cielo che me lo ha mandato! Questo bambino è mio…

La vecchia la guardò interrogativa.

Con me prendo questo piccolino – s’infervorò la regina – e avrò cura di tutti gli altri…

Davvero?

Non siete d’accordo?

Ne sono felice… – la nonna allargò un sorriso dovuto – ma Jacques è cattivo, vorrà rimanere con voi?

Datemelo.

Maria Antonietta lo strinse tra le braccia e lo fece sedere sulle sue ginocchia.

Starà bene, state tranquilla… quando vorrete venire a trovarlo vi sarà permesso… gli altri li metteremo in collegio, cresceranno come dei gentiluomini…

Ah, beh… – fece la vecchia a metà tra lo stupore e un sollievo misto a dolorosa incertezza – E’ un bambino molto cattivo, siete sicura?

Sono sicura, Jacques si abituerà a me e sarà felice.

Il suo tono era perentorio, l’anziana non osò replicare.

E’ il destino che me lo ha mandato – chiarì sua maestà – senza dubbio per consolarmi finché non avrò un bambino mio…

La nonna guardava il nipotino con apprensione, non realizzando cosa fosse capitato: supponeva un colpo di fortuna ma provava una sofferenza acuta all’idea di lasciarlo andare. La regina baciò il delizioso visetto, lui la guardava serio.

– Continuiamo la passeggiata – ordinò al cocchiere e rivolta alla contadina – vi daremo notizie… 

Tuttavia appena il calesse si mosse Jacques prese a scalciare e a lanciare altissimi urli.

Lasciami puttana, dove mi porti?!  Nonna, nonna… aiutooo!

Fai il buono…

Va a farti fottere … – le diede un calcio in uno stinco.

 Vi siete fatta male? – gridò madame Campan che le sedeva accanto – è davvero pestifero!

Non è nulla – rispose Maria Antonietta – ma è meglio tornare subito a casa. 

Partirono al galoppo.

 A palazzo la meraviglia di vedere la regina con un contadinello per mano fu grande!  Quando compresero che sarebbe stato adottato, scambiarono quel capriccio per un atto di benevolenza senza tener conto di Jacques che tutta la notte urlò, pianse, chiamò sua nonna, suo fratello Luigi, sua sorella Marianna. Maria Antonietta non s’intenerì, lo affidò alla moglie di un lacchè perché gli facesse da bambinaia e gli mise nome Armand.

Il piccolo due giorni dopo fu ricondotto da lei. Indossava un abitino bianco con i merletti, una sciarpa rosa a frange d’argento, un cappello guarnito di piume.

Sei bellissimo! – esclamò Maria Antonietta

Jacques non rispose.

Adesso andiamo a colazione insieme, contento?

Il bambino avrebbe voluto rispondere di no ma lo avevano ammonito a non dispiacere sua maestà: ebbe paura e rimase zitto.

Sedettero a tavola.

Verrai da me tutte le mattine… alle nove… pranzeremo insieme e qualche volta pranzeremo anche con il re…

Una lacrima cadde nel piatto di Jacques.

Mangia – ordinò perentoria Maria Antonietta.

Lui ingollò un cucchiaio di minestra, sgradevole come mai era capitato dall’amata nonna che lo nutriva di verdura appassita.

Jacques con il tempo si abituò, rimase a corte molti anni: non si sa quanti, né si conosce con esattezza il suo destino. Di sicuro Maria Antonietta all’inizio, almeno finché non ebbe figli suoi, si prodigò per lui, s’interessò alla sua educazione, lo chiamava il mio bambino, lo baciava e lo stringeva al seno come faceva da piccola con il suo bambolotto preferito. 

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