La ‘Lettera al padre’ di Kafka

Cercando svogliatamente nelle migliaia di righe, che un giornalista ha il dovere di leggere ogni settimana, a volte si ha la sorte di scoprire, delle perle che illuminano il pensiero. Se poi si parla di letteratura quelle perle divengono possibilità per interpretazioni che possano cogliere più profondamente ciò che un autore, a volte inconsciamente, voleva suggerire nei suoi scritti.

Queste interpretazioni, poi, daranno un altro senso alla vicenda e ai personaggi  di un racconto, di una poesia, di un romanzo, perché sapranno attingere a quell’invisibile che giace sotto ogni parola, dell’autore,  sotto ogni sua frase. Invisibile di cui non ci si era mai accorti  finché qualcuno ‘involontariamente’ non ci ha regalato queste perle di conoscenza.

Se non avessimo letto, il saggio di Auerbach, ‘La cicatrice di Ulisse’ non sapremmo quanto è violento il linguaggio della Bibbia: “Le storie della sacra scrittura non si prodigano, come fa Omero, per attirarsi la simpatia, non ci lusingano per allietarci e incantarci; ci vogliono assoggettare, e, se ci rifiutiamo siamo dei ribelli”. E nemmeno capiremmo intimamente i film di Antonioni, etichettati con la definizione astratta di ‘incomunicabilità’, se non fossimo stati illuminati da Michail Bachtin, che fa scoprire, attraverso il suo discorso sul romanzo polifonico di Dostoevskij, come i personaggi dello scrittore russo, e del regista italiano, rimangano sempre chiusi in un guscio impermeabile all’altro da sé. E ne sapremmo meno sul senso dell’arte figurativa se, in un noioso programma di studi di Estetica, non avessimo incontrato qualche pagina di un testo sull’iconoclastia dell’ottavo secolo dopo Cristo, dove veniva spiegato che le figure dell’arte non sono solo ciò che appaiono, perché, in realtà, esse sono “le porte d’oro per accedere all’invisibile”, create da un poeta dell’immagine.
E tutto questo sveglia la mente assopita e fa percepire le inesauribili sfaccettature della realtà umana, e tutta la sua complessità. Ogni volta che si incontrano queste perle la nostra griglia interpretativa diviene più raffinata fino a divenire una preziosissima seta come quella con la quale l’artista serigrafo, facendo penetrare l’inchiostro tra i suoi sottilissimi fori, riesce a creare immagini sempre più rare.

Ed è proprio in questo navigare fra le parole che si può trovare una perla che apre, a chi ha saputo, senza scoraggiarsi, schiudere l’ennesima  conchiglia, le immense porte di uno scrittore criptico come Franz Kafka: leggendo un articolo dello psichiatra Massimo Fagioli sul settimanale Left, dell’otto aprile, dal titolo ‘Non era un sogno’ si può trovare una di queste perle: “E lo scritto silenzioso diceva, senza parlare, che l’essere umano diventa pazzo nel ritorno della coscienza e non perdendo la ragione quando si addormentava.” Fagioli, con queste prole, si riferiva all’incipit del romanzo ‘La metamorfosi” dell’autore praghese: “Gregorio Samsa, svegliandosi un mattino da sonni agitati, si trovò trasformato in un enorme insetto immondo. Non era un sogno”.
Nell’interpretazione del romanzo di Kafka, Fagioli affermava che Gregorio Samsa, il protagonista del romanzo, diventa pazzo, cioè, nella fantasia kafkiana, si trasforma in un “enorme insetto immondo”, perché, svegliandosi, faceva “ritorno alla coscienza”. In effetti ne ‘Lettera al padre’ sempre di Kafka, che è una denuncia  accorata ma lucidissima del padre, si trova la decifrazione non solo de ‘La metamorfosi’  ma di tutta l’opera di Franz Kafka, e la conferma dell’interpretazione di Fagioli, su questo “enorme insetto immondo” come rappresentazione della “coscienza” e della “ragione”.
Già nel romanzo è chiaro il fastidio del protagonista per lo stato di veglia che ha generato quello strano animale: “Che avverrebbe se io dormissi ancora un poco e dimenticassi ogni pazzia”. Come dice Gregorio Samsa, il sonno, vale a dire il “perdere la ragione”, farebbe invece svanire la pazzia che sta nella veglia.

Anche George Bataille, nella sua postfazione  alla  ‘Lettera al padre’ conferma l’interpretazione dello psichiatra Massimo Fagioli riguardo al pensiero kafkiano che rappresenta la ragione e la coscienza come un mostro da evitare ad ogni costo: “ In una parola, volle (Kafka) che l’esistenza di un mondo irrazionale, i cui significati non si compongono in un ordine, rimanesse l’esistenza sovrana”. E anche “ Si comportava (Kafka) semplicemente in modo da rendersi insopportabile all’ambiente dell’attività utilitaria, industriale e commerciale; voleva restare nell’infantilità del sogno”. In poche parole il suo elemento era l’irrazionale dove egli poteva attingere le parole per sua arte.

Ed è proprio ne ‘La lettera al padre’ scritta nel 1919, quattro anni dopo ‘La metamorfosi’, che troviamo le chiavi dell’opera kafkiana. In questo scritto è chiara l’oppressione sadica che lo scrittore dovette subire sin da bambino da parte di un padre chiaramente schizoide, il quale voleva con tutte le sue forze che il figlio si identificasse con lui, dinamica che Kafka descrive benissimo: “… la tua mano e il mio essere, la materia da plasmare, erano così estranei l’una dall’altro”. Le umiliazioni che il padre infliggeva a quel figlio, troppo diverso da se stesso, lucidamente miravano a devastarne la salute fisica e l’identità umana ed artistica: “Bastava essere felici per una cosa qualunque, esserne presi, tornare a casa e raccontarla, e la risposta era un sospiro ironico, uno scrollare la testa: “Ho visto di meglio” , oppure“ Se i tuoi pensieri sono tutto qui …” oppure “E che te ne fai” o infine “Sai che avvenimento”.

Kafka, nella lettera, non è indulgente neppure con la madre della quale aveva individuato la complicità che lo inchiodava in questo rapporto devastante: “ La mamma rivestiva inconsciamente il ruolo del battitore in una battuta di caccia. (…) grazie alle sue ‘intercessioni’ io venivo risucchiato nella tua orbita, alla quale, altrimenti, sarei riuscito a sottrarmi.”
Come ogni schizoide che si rispetti, il padre di Kafka, cercava in ogni modo di fargli il vuoto intorno denigrando sempre, con ferocia sadica,  i suoi affetti più cari: “ Persone innocenti e ingenue come l’attore l’ebreo Löwy furono vittime di questo tuo atteggiamento. Senza conoscerlo, tu lo paragonasti ad un ‘insetto immondo’, e quante volte, riguardo a persone che mi erano care, citasti automaticamente il proverbio del cane e delle pulci: ‘chi si corica con i cani si sveglia con le pulci’.”

Ma Kafka salvò la propria fantasia inconscia da questo padre che voleva annientarlo. La salvò riuscendo a difendere la propria identità artistica e  il proprio pensiero irrazionale. Pensiero che gli permise di scrivere, inconsapevolmente,  che l’insetto immondo non era, come aveva detto il padre, un essere umano come l’attore Löwy, o come se stesso perché essi erano legati al mondo dell’arte e quindi all’irrazionale, ma un animale schifoso nel quale Franz Kafka  si sarebbe trasformato se si fosse identificato con il pensiero della veglia e della ragione di cui il padre era custode.

Franz Kafka. ‘Lettera al padre’ e ‘Le metamorfosi’  – Feltrinelli Editore

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