In libreria Roma Brucia di Pietro Orsatti. Prefazione di Marco Damilano

ROMA – «Questa è stata ed è Roma. Una città moralmente e fisicamente rappezzata. Malamente. Una toppa qua, una rinfrescatina là,e poi fatevene una ragione. Così vanno le cose, così devono andare».

Un”immagine potente, quella della toppa, la pezza da mettere per tappare tutto che sembra diventare nelle pagine del libro di Pietro Orsatti la metafora della Capitale e poi della Nazione intera. Mettere una toppa alle strade, ai buchi, alle fosse. Mettere ‘na pezza sopra le discariche, gli scandali, le inchieste. Per impedire che i liquami invadano le strade e i palazzi con i loro miasmi. Dimenticare, rattoppare e ricominciare da capo, come se niente fosse.

È passato ormai un anno da quel 2 dicembre 2014 in cui il telefono di Pietro squillò all’alba. Una mattina livida, pesta di pioggia, la notizia: «Se so’ bevuti Carminati». Nelle stesse ore i carabinieri bussavano alle porte di un ex sindaco, amministratori di società controllate, consiglieri comunali, ex assessori, i piccoli padroni della città rattoppata trasformati in clienti, camerieri, servitori del Re Nero Massimo Carminati e dell’Impostore Rosso, l’uomo delle coop Salvatore Buzzi, l’ex detenuto assassino, condannato e poi redento, portato in palmo di mano dalla città che conta, i circoli intellettuali e quelli politici, la fabbrica della solidarietà e della bontà, e poi tornato a delinquere, in compagnia del Colletto Bianco Luca Odevaine, lui si era cambiato il cognome e la vita, sempre a un passo dalla stanza ovale del potere romano e nazionale. Il Mondo di Mezzo, che Orsatti con Floriana Bulfon aveva già indagato nel precedente libro “Grande Raccordo Criminale”, uscito nel 2014, appena qualche mese prima dello scattare delle manette. Il Mondo di Mezzo, straordinaria invenzione quasi letteraria del boss cinico e atteggiato a vecchio saggio, in grado di vantarsi di poter andare a tavola con il presidente del Consiglio, di sbagliato, nella previsione, c’era soltanto il nome, l’ex premier Silvio Berlusconi. Un mondo popolato da falsari, mediatori, cacciatori di appalti, impostori. Uomini dalla doppia vita, cooperanti e commis di Stato di giorno, occultamente alleati di notte.

Per la pasoliniana città-ricotta – che tutto inghiotte e tutto assorbe – è la scoperta della crescita nelle sue viscere di una «metastasi». Mafia autoctona, cioè indigena, nativa, formata da dentro, la definiscono gli investigatori venuti da fuori, gli stranieri, i procuratori Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino nella prima affollatissima conferenza stampa nella stazione dei carabinieri di piazza Lorenzo in Lucina. L’eccitazione dei cronisti, la bolgia delle telecamere, il panico nei palazzi della politica che durerà mesi, tra continui boatos di nuovi arresti, nuovi filoni di indagine, elenchi di nomi che circolano nei conversari privati, nei salotti e nei bar, rimbalzano sui telefonini e su whatsapp come se fossero gli amici di una chat e invece sono i candidati ai futuri ordini di custodia cautelare. L’inchiesta tocca trasversalmente la giunta passata di centro-destra e quella attuale di centro-sinistra, il rinnovato Pd di Matteo Renzi. E per molti mesi sembra venire giù tutto. Antichi equilibri, alleanze, complicità politiche e economiche, silenzi intellettuali.

Roma trema come di fronte a una Tangentopoli su scala maggiore. Per mesi si scopre che Roma è come la Milano dei craxiani e del pool Mani Pulite e la Palermo dei primi anni Novanta. Quando fu massacrato il giudice Paolo Borsellino con la sua scorta a Palermo in via D’Amelio, il 19 luglio 1992, Giampaolo Pansa scrisse su “L’Espresso” il suo articolo più dolente e angosciato: «In quell’inizio settimana, l’Italia sembrò tale e quale il palazzo sventrato di via D’Amelio. Un condominio partitico sventrato. Un edificio civile pronto ad afflosciarsi su se stesso. Una casa aggredita da troppi mali. Per niente difesa. Alla mercè di tutti i mafiosi di tutte le mafie e poi degli sciacalli. Sì, era un’Italia che faceva pena e paura. E che suggeriva un’immagine insieme banale e terrificante: quello della frana. Di una frana gigantesca. Di uno smottamento colossale. In moto da anni: dapprima lentamente, con movimenti quasi impercettibili, poi, via via, in discesa con velocità crescente verso l’inferno. Tanto per farti urlare: adesso non ci fermiamo più!».

Oggi condominio sventrato, afflosciato, aggredito si trova a Roma. Fiumi di soldi sporchi, tangenti per oliare fondazioni partitiche e correntizie, le fragili carriere dei leader, unite all’intimidazione, ai politici a servizio e a busta paga. A Roma, scrive Orsatti, «le mafie hanno giocato la loro strategia di penetrazione e condizionamento anche sul piano economico, hanno stretto i rapporti con la politica e fatto politica, si sono intrecciate e rese protagoniste di trame e di progetti eversivi, hanno sperimentato una sorta di associazione temporanea d’impresa per raggiungere soldi e impunità… è fuorviante parlare di una Roma criminale, perché esiste un’Italia criminale di cui Roma è semplicemente la Capitale. Anche delle mafie».

Roma ha tremato per mesi. E ora è tentata dal colpo di spugna. Il processo avrà il suo corso, ma nella profondità del grande budello racchiuso nel raccordo anulare tutto sembra già dimenticato. Roma, e tutto ciò che rappresenta, prova a metterci ‘na pezza, ancora una volta. Far passare la nottata, le inchieste, le retate, il Giubileo. Roma brucia. Di auto-combustione, dei suoi rifiuti, della sua aria ferma e mefitica, di una diossina letale che è la dimenticanza, la rimozione. Per questo questo libro è prezioso come una lunga invettiva. «Raccontiamolo questo incendio, per capire quello che ci attende e quello che possiamo fare perché non dilaghi», conclude Pietro Orsatti. Il compito dell’intellettuale è questo: riannodare i fili della logica e del racconto laddove sembra regnare «l’arbitrio, la follia, il mistero», scriveva Pier Paolo Pasolini nel “Romanzo delle stragi” pubblicato il 14 novembre 1974, esattamente quarant’anni prima dell’inchiesta Mafia Capitale, un anno prima della sua tragica fine all’Idroscalo di Ostia, scenario ieri e oggi di una città in ombra che ci ostiniamo a non voler vedere. Vedere, raccontare, cercare connessioni tra ciò che sembra incomprensibile, è infine questo il mestiere del giornalista.

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Scheda

ROMA BRUCIA

di Pietro Orsatti – prefazione di Marco Damilano

isbn: 978 88 6830 266 5

pp. 288 ­ € 16,50

Dopo le inchieste sul sistema di Mafia Capitale, lo scioglimento per mafia del X Municipio e il parziale commissariamento del Campidoglio – negato, ma nei fatti è stata questa la scelta del governo – la città è in ginocchio. Tutti i servizi primari sono al collasso: dal trasporto pubblico fino alla gestione dei rifiuti, dalla manutenzione della città ai cantieri aperti e mai chiusi. Ed è al collasso la politica, alla sbarra nei processi e incapace di rinnovarsi. La crisi politica e di credibilità dell’ultimo anno anticipata e descritta partendo dalla consapevolezza che Roma non è solo corruzione e degrado, non solo malaffare e cattiva amministrazione. Ma che la città è invasa da metastasi fin troppe volte rimosse negli anni: la mafia.

Intanto le consorterie criminali si stanno riorganizzando, stringendo la città in una morsa, anche con la violenza. Ci sono tutte, dalla ’ndrangheta alla camorra, da Cosa nostra siciliana alle organizzazioni straniere. I Casamonica e quello che resta della Banda della Magliana, che non è mai morta. E poi la minaccia delle organizzazioni eversive di destra, di quei Nar a cui appartenevano Massimo Carminati e altri protagonisti di questi anni. Tornano le ombre di un passato, quello della strategia della tensione, dove mafia, eversione, massoneria coperta, pezzi della politica e apparati deviati dello Stato giocarono sulla pelle della Repubblica e della democrazia.

Ci vorrebbe una Primavera di Roma, un movimento che metta insieme le energie migliori della società e della politica, della cultura e dell’arte, per affrontare la drammatica situazione della Capitale. Ma tracce di questa Primavera non se ne vedono.

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