Storie vere di cani veri. “Spilù, lo spinoncino che si portò a casa Ornella Muti”

Era una splendida primavera di qualche anno fa. Ornella Muti, la nostra bella e brava attrice al culmine del successo, abitava in una villa in campagna, all’Olgiata.

Quand’era libera da impegni di lavoro faceva lunghe passeggiate in compagnia della figlia Nike, allora poco più che adolescente. Avevo un cane, si chiamava Spilù perché era una via di mezzo fra un lupo e uno spinone. Di taglia media, dal muso sprizzante simpatia, dalle due razze aveva preso il meglio, ma soprattutto l’intraprendenza. Era arrivato a casa nostra poco più che cucciolo, e ben presto il pur vasto giardino che era il suo regno non bastò più a soddisfare la sua curiosità. Con un rapido balzo oltre la siepe, quasi ogni giorno era in strada e via per chilometri a godersi la libertà. All’epoca quelle strade non erano percorse come oggi da ogni sorta di veicoli, comunque Spilù sapeva evitarli e ogni volta tornava dalla passeggiata sano e salvo e soddisfatto della sua impresa. Sapeva benissimo di aver fatto una marachella e che una volta a casa si sarebbe preso una ramanzina: ”Ma dove sei andato? Lo sai che non devi uscire da solo? Quante volte te l’ho detto!”. 

Fiato sprecato, ti stava ad ascoltare compunto con l’aria di chiedere scusa, ma con un lampo negli occhi che diceva come alla passeggiatina solitaria non avrebbe mai rinunciato. Un giorno sento suonare il citofono, al cancello trovo Spilù con due accompagnatrici: Ornella Muti e la giovanissima Nike, che sembrava più grande della sua età perché inerpicata su enormi pattini a rotelle. Erano alte uguali, più che madre e figlia sembravano due sorelle. “È suo questo cane?” mi apostrofa severa la maggiore. “L’ho trovato per strada, si era perso, è evidente. Non si tengono i cani così!”. Era successo che quella mattina le loro strade si erano incrociate, e l’attrice aveva pensato che il cane Spilù avesse perso la via di casa. In realtà, il furbacchione sapeva benissimo dove andare e soprattutto dove tornare, ma gli piacque di interpretare il ruolo del trovatello, soprattutto per le carezze di cui la bella salvatrice lo stava colmando. E quando gli chiese “Dove abiti? Vuoi che ti porto a casa?”, Spilù stette al gioco e trotterellò verso casa. E Ornella Muti dietro con Nike che arrancava sui pattini. Dinanzi al cancello Spilù si fermò di botto, il gioco era finito, ora gli toccava la ramanzina. Ma il furbastro non poteva sapere che l’attrice non l’avrebbe finita lì e che avrebbe suonato al citofono per consegnare solennemente il cane al padrone previo garbato ma severo rimprovero per il presunto abbandono. Ce ne volle per convincere Ornella Muti che Spilù non era scappato di casa, tantomeno si era perso e che quella era la sua solita passeggiatina alla ricerca di avventure. Mentre si parlava, il cane ascoltava interessato, naturalmente fu perdonato all’istante e la “salvatrice” se ne andò soddisfatta, non senza aver raccomandato ancora una volta maggiore impegno nella gestione del “fuggitivo”. Una stretta di mano, un’ultima carezza e tutto è bene quel che finisce bene. E negli occhi di Spilù brillava un lampo, voleva dirmi: “Sarai contento che ti ho presentato Ornella Muti!”. Come dargli torto? 

 Che un cane sappia ritrovare la strada di casa è cosa risaputa, e lo fanno anche i gatti: si racconta di cani che per ritrovare i padroni sono passati da una città all’altra, e gatti che nel giro di alcuni mesi hanno percorso centinaia di chilometri per tornare là dove si erano persi. Ma Spilù quella volta ha fatto di meglio e di più: quando tutti credevano che si fosse perduto in cima a una montagna è tornato a valle come niente fosse avendo come obiettivo un campeggio nel quale era appena arrivato. Altro che la casa dei padroni, ma un luogo che avrebbe dovuto essergli del tutto sconosciuto. Quell’estate, il cane Spilù, della cui intelligenza nessuno ha mai dubitato, aveva ottenuto di far parte dell’equipaggio del camper che avrebbe portato in vacanza l’intera famiglia. Meta: una nota località alpina ad alcune centinaia di chilometri di distanza da casa. Una volta arrivati, rapida sistemazione in un accogliente campeggio di fondovalle e subito in gita verso una cima che si staglia maestosa. Il bosco si va facendo sempre più fitto e la camminata faticosa. Ma il cane Spilù sembra avere le ali alle quattro zampe: corre in avanti, torna indietro, si allontana di centinaia di metri e subito ritorna nel gruppo. Con una lingua che per poco tocca per terra è instancabile. Gli odori della terra bagnata dalla pioggia notturna, i profumi del bosco lo inebriano. Mai visto un cane più felice. Il suo entusiasmo è contagioso: tutti vorrebbero stargli dietro ma la rapidità con la quale continua a tagliare di traverso il sentiero che sale è tale da sconsigliare ogni tentativo. D’un tratto parte a razzo verso la cima, lo vedi scomparire nel bosco, dopo un secondo riappare molto più in alto, poi di nuovo sparisce alla vista. Ed è allora che lo vediamo inseguire a distanza un capriolo di cui evidentemente aveva sentito l’odore e che disturbato nel suo solitario pascolo se l’era data a gambe. Uno fugge l’altro insegue, ma non c’è gara: cosa può un povero cane appena arrivato dalla città e quindi fuori allenamento contro un giovane camoscio che gioca in casa fra i boschi natii? Dopo un po’ non si vedono più, nessuno dei due. Di Spilù soprattutto nessun avvistamento. Inutili i richiami: il nome del cane urlato a gran voce e i fischi di accompagnamento echeggiano nel bosco, ma invano. E dove lo vai a trovare adesso quello stupido cane che si è messo a inseguire un camoscio, certamente per la sua prima volta nella vita, senza nessuna esperienza di caccia e tantomeno conoscenza dei posti? Il tempo comincia a scorrere, prima i minuti, poi le ore. 

Il sole sta calando dietro le vette, fra poco sarà indispensabile scendere a valle, presto sarà buio. Di Spilù nessuna notizia. Sulla via del ritorno i pensieri più foschi hanno ammutolito la compagnia. “Non lo troveremo più” – sospira uno – Come possiamo tornare a casa senza di lui” sospira un altro. Quel che resta dell’allegra brigata che aveva salito baldanzosa verso la vetta nel suo primo giorno di vacanza, discende ora in disordine la valle, decisa a riprendere l’indomani le ricerche di un cane che aveva osato oltre le proprie capacità. Ma con quali speranze di ritrovarlo? Nessuno sa darsi una risposta. Prima di arrivare al campeggio non c’è passante che non venga interpellato con voce trepidante: “Ha visto passare un cane fatto così e così, Lo abbiamo perso nel bosco”. Ma nessuno l’ha visto, chissà dove è andato a finire. Lo sconforto si legge sul viso di tutti i componenti della famiglia, che ora deve pensare alla cena poi ad andare a dormire e domani si vedrà. “Chissà dov’è?” si chiedono tutti. E rientrano al camping. Il colpo di scena è degno di un film di Hitchock: Spilù è li davanti a loro accucciato accanto al camper, chissà da quanto tempo li sta aspettando. Sapendo di averla fatta grossa non osa fare le rituali feste, teme severi rimproveri. Invece, scoppia una festa di felicità che contagia gli altri turisti, ognuno vuol sapere cosa è successo, la storia del camoscio fa il giro della piccola comunità del camping, tutti stranieri compresi vogliono conoscere l’eroe della giornata, fargli una carezza, dargli un biscotto. E lui, il protagonista, si gode l’inaspettato quarto d’ora di popolarità e non può spiegare, perché non ha il dono della parola, che al camping lui è ritornato da un bel pezzo, da quando quello stupido camoscio è riuscito a seminarlo con quattro balzi, e che lui non si era mai perduto, ha sempre saputo come tornare a casa (leggi: al camper) e che non c’era nessun bisogno di mettersi in allarme, bastava avere un po’ più di fiducia nel proprio cane, che non è uno sprovveduto. Tutto questo glielo ha “detto” con gli occhi. E se i suoi padroni non hanno capito, beh, peggio per loro. 

 Quando a mia figlia teen-ager un fidanzatino per il compleanno regalò una coppia di paperelle fu opportuno fare le presentazioni. Padrone incontrastato del giardino, lo stesso nel quale quei due pulcini di germano reale avrebbero convissuto, era Spilù, il finto spinone simil-lupo (da cui il nome) che apprese la novità con grande piacere, manifestando per i due paperini un interesse esclusivamente gastronomico. Quando gliene fu mostrato uno, tenuto ben stretto in mano, il cane pensò subito a un gradito omaggio da sgranocchiare o fece finta di equivocare e spalancò le fauci per farne un boccone. Al rimprovero: ”Ma che fai? Sei matto?” seguì la spiegazione: “Questo non si tocca. Hai capito?”. Colpito dall’intimidazione, Spilù girò altrove uno sguardo interrogativo (“Ma che succede? – sembrava pensare – che ho fatto di male?”) e con dignità voltò le terga per levarsi da quella imbarazzante situazione. Fu richiamato e con calma ragguagliato: ”Questi due paperini d’ora in poi abiteranno qui, in giardino, con te. Mi raccomando non pensare di mangiarteli. Anzi, devi fare la guardia e proteggerli”. 30 Il lettore si chiederà dubbioso: “Ma figurati se il cane è stato a sentire il bel predicozzo! Chissà che fine avranno fatto quelle due paperelle?”. E invece, contro ogni previsione Spilù aveva imparato benissimo la lezione e tutto filò liscio. I due pulcini non solo sopravvissero ma crebbero e diventarono una bellissima coppia di germano reale. Si scoprì che erano maschio e femmina, si moltiplicarono. Nell’angolo più riposto del giardino, sotto una siepe che la rendeva invisibile, la femmina covò le sue uova mentre il maschio se ne andava in giro a pavoneggiarsi sotto il naso del povero cane che, per non essere indotto in tentazione, faceva di tutto per evitarlo. Come del resto fece con tutta la progenie che in breve riempì il giardino: di germani reali arrivò a ospitarne una ventina, i maschi eleganti nella livrea multicolore dal verde smeraldo della testa al blu intenso delle ali, un espediente della natura per attirare le femmine, queste ultime più modeste nella loro tenuta grigio ferro più facile da mimetizzare nel sottobosco durante i lunghi, delicati periodi di cova delle uova. Un giorno il cane Spilù, che era solito schiacciare un pisolino a distanza di sicurezza dalla combriccola di anatre al pascolo, fu visto trotterellare con fare guardingo verso l’uscita da giardino che dava sul bosco. Aveva una strana espressione: sembrava non volersi far fermare, lui che invece era abituato a familiarizzare con tutti. E poi aveva uno strano gonfiore sulle guance, come avesse un terribile mal di denti. È bastato seguirlo nella sua guardinga fuga per scoprire il mistero: altro che mal di denti! Il furbacchione aveva in bocca un uovo di papera che aveva trovato abbandonato, e se lo andava a mangiare in santa pace in un angolo del bosco. E non era il primo a giudicare dal mucchietto di gusci che aveva accumulato. Chissà da quanto durava il saccheggio. Colto in flagrante, il cagnolino assunse l’espressione del pentito che si aspetta di essere perdonato. Del resto, il divieto che gli era stato ingiunto era di non far fuori le papere non le loro uova. Dopo tutto, quel furbacchione deve aver pensato: meglio un uovo oggi che una papera domani. Quindi a rigore non c’era colpa e tanto meno ci fu la pena. Comunque, le anatre del giardino continuarono a moltiplicarsi, raggiungendo in beve una cifra tale da consigliare un loro incruento sfoltimento: ingabbiate a dovere furono deportate in un lago artificiale in Lombardia dove in breve fraternizzarono loro che venivano da Roma, con le papere milanesi. E il povero Spilù fu costretto a cambiare dieta.

Tratto da “20 storie vere di cani veri” di Sandro Marucci, edizioni La Quercia 2021 – 5

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