Avi Buffalo e Wild Nothing: piccoli gruppi crescono

“Gli Shins, li conosci? Devi sentire questa canzone ti cambierà la vita, te lo giuro.” Così una splendida Natalie Portman si rivolgeva a uno spaesato Zach Braff ne “La mia vita a Garden State”, film del 2004 che tra i suoi punti di forza aveva  una colonna sonora molto ben curata.

Sicuramente di canzoni degli Shins ne deve aver ascoltate molte Avigdor Zahner-Isenberg, cantante e leader degli Avi Buffalo, gruppo californiano di Long Beach e autori di uno degli esordi più promettenti di questo 2010. Il loro primo singolo, “What’s in it for?”dall’omonimo album sembra essere la più bella canzoni degli Shins non scritta dagli Shins: un pop-psichedelico con cantato in falsetto e un ritornello che ti entra in testa e non ti abbandona più. Ma anche il resto è all’altezza: si va da “Jessica”, canzone d’amore alla Lennon-McCartney  con testo tra lo spaccalacrime e il melenso, che avrebbe tutto per essere detestata ma dopo pochi ascolti scopri di non poterne fare a meno, a “Remember  last time” che inizia veloce per poi rallentare e dissolversi in una lunga coda strumentale, oltre sette minuti di intensa bellezza. Un ottimo lavoro, che pur non raggiungendo le vette dell’esordio dei loro compagni di scuderia Fleet Foxes –  entrambi i gruppi incidono per la Sub Pop, storica etichetta indipendente di Seattle – si candida ad essere ricordato per freschezza e intensità come uno dei dischi migliori di quest’anno, e soprattutto lascia ben sperare per il futuro, considerando il livello di maturità delle composizioni e l’età molto bassa dei componenti del gruppo, tutti intorno ai vent’anni.
Stessa cosa si può dire per un altro disco d’esordio, “Gemini” dei Wild Nothing, progetto solista di Jack Tatum, originario della Virginia e giunto al suo primo lavoro dopo trascorsi in altre band di minore importanza. Contrariamente agli Avi Buffalo, i cui riferimenti sono rigorosamente a stelle e strisce, la musica dei Wild Nothing sembra guardare più verso il pop chitarristico inglese di metà anni ottanta, Smiths e Cure su tutti. Ne esconi fuori pezzi intrisi di venature shoegaze, drum machine, sinth e voce sognante mai in primo piano, un risultato abbastanza simile a quello raggiunto da altri gruppi in un passato ben più recente, basti pensare a Radio Dept. e The Pains of Being Pure at Heart. La marcetta di “Chinatown”, i ritmi dance di “O Lilac” e “Bored Games”, le chitarre smithsiane di “Live in dreams” e “Summer holiday”, ma non solo: ognuno dei dodici pezzi può essere considerato un potenziale hit-single, in un disco che ha l’ulteriore pregio di riservare le cose migliori nel finale, vedi  “My angel lonely”,  con un intro che ricorda “Just like honey” dei Jesus and Mary Chain, la già citata “Chinatown” e la title-track, splendido pezzo finale che sembra essere uscito da “Disintegration” dei Cure.
Non ci cambieranno di certo la vita, ma sicuramente ce la renderanno più piacevole, i dischi degli Avi Buffalo e dei Wild Nothing: l’unico augurio che possiamo fare ad entrambi è che i successivi lavori non perdano in spontaneità e vivacità, non si verifichi insomma la cosiddetta  “perdita dell’innocenza”, in passato artefice del declino di band ancor più promettenti.   

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