Libri. Storie di scuola

Nel vocabolario essenziale, profondamente interiorizzato e ripetuto infinite volte al giorno di Edoardo ci sono, tra le altre, due parole: (s)TORIA e (s)CUOLA. Edoardo è l’alunno che seguo quest’anno, dice TORIA quando desidera leggere una delle sue storie, scritte in comunicazione aumentativa e dice CUOLA quando entra al mattino sulla soglia della porta d’ingresso della scuola, in diversi momenti della giornata per “geolocalizzarsi” fisicamente e, come mi riferiscono i genitori, a casa quando vuole raccontare quello che ha fatto a scuola o per esprimere il desiderio di tornarci, in particolar modo nei giorni festivi.

Il libro a cura di Fernanda Fazio, Giancarlo Onger e Nicola Striano si intitola “Storie di scuola” e, si può ben intuire, quanto quelle due parole possano risuonarmi dentro in modo del tutto particolare e personale, trovandole, altresì, davvero dense di significati.
Cosa è la scuola se non un grande, variegato e composito contenitore di storie? Cosa insegniamo ai ragazzi seduti tra i banchi se non un insieme multiforme di storie? E cosa siamo noi docenti, o se volessimo allargare l’orizzonte noi uomini e donne, se non un involucro stratificato di storie, le più diverse e varie? E cosa sono, infine, gli studenti, soprattutto quelli più difficili, se non una “cipolla” – come scrive Daniel Pennac nel suo “Diario di bordo” – dentro la quale ci sono infinite storie, “svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulati su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso”?
E non è, forse, significativo il fatto che nel vocabolario selezionatissimo di Edoardo trovino posto proprio queste due parole, le storie e la scuola?
Ecco allora che questo titolo contiene in sé già tutto, pur nella sua semplicità e linearità. La scuola è proprio la dimora delle storie, il luogo in cui le storie si raccontano, prendono vita, per la prima o per l’ennesima volta, crescono e cambiano evolvendosi nel tempo.

I tre autori del libro conducono i lettori in quella che è stata la storia dell’inclusione nella scuola italiana, un viaggio iniziato sul finire degli anni 70 del secolo scorso e approdato, tra alte e basse maree, fino ai giorni nostri. Il tutto con le parole delle persone che quella storia, da ruoli e posizioni diverse, hanno contribuito a farla. La forza di questo libro sta proprio nel suo andare, oltre le astratte teorie, nel vivo e nel cuore del vissuto concreto di insegnanti, dirigenti, pedagogisti, associazioni.

Sembra di entrare in classe accompagnati dagli autori del testo, sembra di essere lì quando Fernanda Fazio, in una classe differenziale di Pomezia, nella sua prima esperienza da insegnante, spiegava i numeri primi e, allo stesso tempo, sequestrava coltelli a serramanico, bottiglie di vino e riviste hard o quando dice di aver imparato dai ragazzi di borgata “il tono giusto per dire le parolacce e a mangiare il pollo della mensa con coltello e forchette di plastica”. Si sorride e si pensa molto con la sua storia, tra i suoi ricordi segnati spesso dalla negazione (“non esisteva nessun registro, nessun voto, nessuna possibilità di mettersi seduta in cattedra a far lezione”) e dalla preposizione semplice “TRA” (“se di integrazione doveva trattarsi, allora il mio posto non era più nella stanza di sostegno o al banco vicino al ‘mio’ ragazzino, ma tra i ragazzi della classe, di volta in volta dove se ne evinceva l’opportunità, a fare domande, chiedere spiegazioni aggiuntive, regolare i tempi, incoraggiare, sostenere, creare un clima di appartenenza al gruppo, inventare programmazioni, strategie.”). Fernanda racconta, con lo stupore intatto della prima volta, la soddisfazione nel vedere, dopo il lavoro fatto, i progressi anche del “caso” più disperato, con parole che andrebbero scolpite nelle aule docenti: “tutti i casi sono ragazzi e tutti i ragazzi sono straordinari”. La sua storia continua, come molti racconti del libro, con il ricordo dei tanti ragazzi incontrati, una galleria privata e intima nella quale il lettore entra in punta di piedi, dall’esperienza con la disabilità visiva e la scoperta di un nuovo modo di vedere, all’incontro sorprendente con un ragazzo con autismo, gli infiniti progetti, l’impegno nella formazione e la convinzione che, con le intense parole di Mario Mazzeo – docente e figura di riferimento che torna nelle storie di molti – “la scuola è quei fatti, sostanzialmente pochi, che hanno orientato le tue scelte, e quei fatti potevano succedere esclusivamente a scuola”.

Le storie, poi, dopo questa speciale “overture”, prendono il via, si susseguono una dopo l’altra, tutte diverse, per approccio, per sguardo, per contenuto, per il bilancio che ne esce fuori. C’è la storia di Maria Teodolinda Saturno che presenta il repertorio delle diverse tipologie di colleghe incontrate negli anni, alla ricerca di un arduo equilibrio nella relazione tra docente curricolare e docente di sostegno, racconta della sua passione per il teatro portata a scuola, confida al lettore le sue perplessità e la sua esigenza (un po’ bizzarra) di avere a scuola un “pensatoio” dove potersi rifugiare in solitudine. Ed è proprio questa sincerità, libera da ogni facile entusiasmo o edulcorazione, a rendere il libro un affresco autentico della scuola e dell’inclusione, la stessa che ritroviamo nelle parole franche di Rosaria Brocato, che si definisce “dubbiosa, impegnata e passionale”. La sua è una storia fatta anche di delusioni che la portano, in una fase della sua vita, a definire la scuola “un luogo privo di anima”, in cui ha sperimentato il peso della burocrazia, lo sconforto, i sensi di colpa, l’immeritata archiviazione dei suoi successi. Sono le parole che Rosaria usa nel suo racconto, pur confessando di aver quasi sempre superato le difficoltà grazie allo spessore umano e alla disarmante semplicità dei suoi alunni. Tra le sue righe si avverte, comunque, una grande idealità, spesso a contrasto con quelle che lei definisce “le delusioni e il negativo del quotidiano”. E, nel quotidiano delle scritture autobiografiche del libro, c’è anche la comicità con cui inizia l’avventura nel mondo del sostegno di Stefania Franco, che con tanto di tacchi, si ritrova, all’improvviso a dover rincorrere la sua alunna nel parco della scuola e a dire con convinzione: “smisi i tacchi e passai alle scarpe basse”. Nel suo racconto c’è spazio per parlare dell’impotenza degli inizi, quel non sentirsi “in grado di”, un sentimento così comune quando ci si relazione con la disabilità, ma c’è spazio anche per l’entusiasmo di un successo, come quello del laboratorio di erbe aromatiche e di altri progetti in grado di allargare lo sguardo scolastico al mondo del lavoro e al progetto di vita dei ragazzi e delle ragazze con disabilità. C’è, poi, il racconto di Grazia Cossu per la quale “il vero insegnante è quello che riesce ad entrare in empatia con il proprio alunno, lo capisce, lo incoraggia, lo sostiene, lo fa esprimere cercando di trasformare tutto in positivo” e che che si sente utile quando i suoi bambini le dicono finalmente di aver capito la lezione, quando li vede lavorare da soli, quando sorridono, quando alzano la mano, quando se le sporcano e giocano con i compagni, quando li vede crescere e sbocciare come un fiore. Caterina Striano, invece, ritrova le origini della sua “decisione” di fare l’insegnante di sostegno nell’aver avuto una nonna ostetrica e non è forse, si domanda, compito dei docenti “tirar fuori” da ogni alunno le potenzialità migliori? Dopo trent’anni di insegnamento l’aspetto che ritiene fondamentale è il lavoro di gruppo dei docenti e degli studenti, la quotidiana costruzione del sapere in un clima empatico, di fiducia e di condivisione. Ed è curioso venire a sapere, nella conclusione del suo racconto, come dalla nonna ostetrica siano nate, in realtà, due generazioni di insegnanti di sostegno, Grazia e, poi, sua figlia.
Angiolella Dalla Valle, infine, conclude la prima parte del libro con la sua esperienza di vita così intensa e significativa, che l’ha vista dapprima lavorare con ragazzi ipoacusici, poi convivere e scoprire nella nipote con sindrome di Down “un buco nero, inizialmente, una stella del mattino nella realtà” e, infine, vivere sulla sua pelle la disabilità, con la perdita totale dell’udito e la riorganizzazione della sua vita, così come del suo essere insegnante, tra tante passioni e interessi riversati nella didattica, dal teatro alla danza, dalla musica alle nuove tecnologie.

Nella seconda parte del libro -“Quando è la scuola a doversi tradurre: vedere voci e toccare parole”- i racconti autobiografici degli insegnanti sono centrati sulle disabilità sensoriali, uditiva e visiva. Silvia Ceria racconta la sua storia all’insegna di uno speciale bilinguismo, quello sperimentato in una scuola di un piccolo paese montano del Piemonte, in cui scelse di “adottare” il dialetto piemontese per entrare in una reale comunicazione condivisa con i suoi alunni, accanto all’italiano, usato, invece, per la comprensione e la produzione di tutti i messaggi scritti. Un bilinguismo che tornerà nella sua vita, qualche anno dopo, nell’ideazione e progettazione, a Cossato (BI), della prima scuola statale italiana con all’interno classi miste di studenti sordi ed udenti, accomunati dallo studio della lingua dei segni (LIS) e dell’italiano. Un progetto che ancora oggi è operativo e che si sviluppa in verticale, dalla scuola dell’infanzia fino ad alcune scuole superiori della provincia. Entusiasmo, coraggio e voglia di mettersi in gioco sono le parole che Silvia Ceria sceglie nella narrazione di questo ardito e ben riuscito progetto, offrendo al lettore una meravigliosa definizione di integrazione: “un colore nuovo che si crea quando si permette ai colori di mescolarsi fra loro. Colore nuovo e inatteso che comporta su piani diversi il rischio della trasformazione, che può emergere solo accettando che si rompano gli schemi precostituiti, abbandonando il timore di perdere ciò che era e senza la presunzione di conoscere ciò che sarà”.
Con Salvatore Maugeri entriamo nel mondo degli Istituti Speciali, nell’Istituto per ciechi di Roma “Augusto Romagnoli”, in cui l’autore, non vedente egli stesso, insegnava proprio negli anni in cui si cominciava a mettere in dubbio il sistema di allontanamento dalla famiglia e la separazione precoce dei bambini ciechi dai compagni vedenti. Tra le ostilità di molti, comincia a farsi largo in lui la convinzione che l’integrazione fosse qualcosa di possibile e di realizzabile, anzi, dice Maugeri: “presto sarebbe diventata una delle battaglie che a lungo avrei combattuto”. Divenuto maestro nelle scuole elementari di tutti, Maugeri racconta le sue continue ricerche, la voglia di approfondire ancor di più gli aspetti pedagogici della didattica, che lo porteranno ad incontrare il Movimento di Cooperazione Educativa (MC), a sperimentare a scuola l’importanza del lavoro di gruppo, le classi aperte, un nuovo modo di praticare il “sostegno”, sino ad arrivare, infine, ad occuparsi per il Comune di Firenze di integrazione scolastica, presso un centro specializzato di consulenza psico-socioeducativa.
Riserve e perplessità su quello che viene definito l’ “inserimento selvaggio” degli anni 70 vengono espresse nel racconto di Marino Bennati, per molti anni direttore presso l’ex Istituto Pendola per sordi di Siena, impegnato presso il Provveditorato agli studi della città e presidente per diciotto anni dell’Associazione Italiana Educatori dei Sordi (AIES). Convinto sostenitore di un rinnovamento della scuola speciale, che avrebbe dovuto trasformarsi in un centro educativo-didattico a livello internazionale, Bennati propone un modello organico di scuola integrata per sordi, tenendo sempre a sottolineare la necessità di una didattica specifica, maggiormente competente nelle singole disabilità. Tema questo, quello della iperspecializzazione e della separazione delle carriere tra docenti di sostegno e docenti curricolari, ancora oggi al centro del dibattito sulla riforma della scuola.
La storia di Nicola Striano restituisce al lettore l’aspetto, mi si permetta il termine, “corale” del fare inclusione, l’importanza degli incontri di persone che, messe insieme, rendono possibile anche ciò che appare irrealizzabile. Striano parla della costituzione iniziale del Gruppo Lavoro Insegnanti Specializzati (GLIS), attivato presso la sua scuola “Edmondo De Amiciis” di Roma, composto da un docente curricolare, dagli insegnanti di sostegno e da uno psicologo particolarmente lungimirante, Giorgio Testa, con la funzione di analizzare, seguire, sostenere il processo di integrazione di ogni alunno, attraverso riunioni frequenti, confronti, idee e proposte utili a “non sentirsi soli” e a dare risposte anche ai casi più difficili. Un’esperienza che credo andrebbe ripresa e incentivata anche oggi nelle scuole. Dal GLIS all’Associazione culturale immagini e parole di Mario Mazzeo, con la realizzazione del Vocabolario Multimediale per alunni con disabilità linguistiche, fino all’impegno nel CTS (Centro Territoriale di Supporto), la cifra caratteristica di questo racconto è racchiusa nell’importanza del saper lavorare in rete, insieme agli altri, in team, in squadra.

La terza parte del libro, infatti, è dedicata ai Centri Territoriali di Supporto, istituiti proprio per costruire quella rete di contatti, competenze, buone prassi e innovazione didattica sul territorio e per le scuole. L’articolo di apertura di questa sezione è a firma di Flavio Fogarolo, ideatore dei CTS e promotore di un utilizzo strumentale del computer, dei software e dei programmi (noto agli addetti ai lavori il suo programma “10dita”, per l’utilizzo veloce della tastiera, e la sintesi vocale ALFa READER) in ambito didattico e in funzione inclusiva, soprattutto per compensare, attraverso un adeguato accompagnamento educativo, le difficoltà dei ragazzi con disabilità ai quali, evidenzia l’autore, il computer deve potersi adattare.
Daniele Barca, il preside che non voleva insegnare e che, penso, tutti i docenti di sostegno vorrebbero avere, nel suo racconto dà uno spaccato concreto della sua scuola, rivoluzionata negli spazi, nei tempi e nella didattica per orientarla verso quella che lui definisce “la priorità delle priorità”: la scuola inclusiva. Ne mostra l’organizzazione, i progetti, la declinazione originale del CTS, non solo come “distributore” di ausili tecnologici, ma da intendersi come luogo dell’apprendimento alternativo, nel quale è presente una biblioteca aperta a tutta la cittadinanza, dove si fa formazione con incontri, dibattiti, scambio di idee, materiali ed esperienze, in un contesto in cui circola la cultura che Barca chiama della diversità, dell’inclusione e della scuola attiva.
Accomunate dall’idea della tecnologia e dei software didattici come strumenti che devono essere altamente personalizzabili, flessibili e accessibili a tutti sono le storie “Un maestro che ha amato le tecnologie” di Walter Casamenti e “Un insegnante di sostegno artigiano” di Francesco Fusillo. Entrambi gli autori, attivi rispettivamente nel CTS di Bologna e in quello di Verona, raccontano i loro progetti e le loro sperimentazioni, con indicazioni pratiche e suggerimenti operativi molto interessanti. Così come fanno, in conclusione, Ugo Longo, operatore del CTS di Viterbo, che condensa nel motto “da persona a persona” la chiave della condivisione, dell’ascolto, della coscienza civile e della voglia di crescere nella scuola e Pietro Moretti, coordinatore del CTS di Ovalda (AL), ideatore di numerosi laboratori TIC per le diverse tipologie di disabilità e del “Quaderno ipermediale”, un software didattico libero, basato sul touch screen e sul legame tra immagine e audio, pensato soprattutto per interagire con i ragazzi con gravi disabilità. Interessante la rivoluzione copernicana nella didattica che ipotizza Moretti, qualora si realizzassero appieno le sperimentazioni realizzate con i disabili gravi che, in effetti, imporrebbero, necessariamente, l’urgenza di porre al centro della didattica l’alunno, il soggetto, l’autore dell’apprendimento e,in secondo piano,il sapere.

La quarta ed ultima parte del libro allarga gli orizzonti anche ad altre figure che compongono il complesso mosaico dell’inclusione: dirigenti, insegnanti curricolari, funzionari delle istituzioni.
Giuseppe Fusacchia, da dirigente scolastico, ci parla degli sforzi fatti per attivare le reti interscolastiche territoriali permanenti nel Municipio della sua scuola, così da mettere in connessione le diverse agenzie e i diversi servizi presenti sul territorio. Soltanto in questo modo, infatti, è possibile, dice Fusacchia, rispondere alla pluralità e crescente complessità dei bisogni educativi che emergono a scuola. Carmen De Sanctis ci conduce con delicatezza tra le stanze dell’Ospedale Bambino Gesù, dove è stata referente della scuola superiore per 11 anni. In trincea, da sola, nel quotidiano sforzo di trovare soluzioni e risposte adeguate, in un contesto segnato dalla precarietà e dalla sofferenza,e dalla necessità continua di adeguare la didattica secondo un modello flessibile ed agile: “la scuola in ospedale ha sempre avuto il privilegio di essere pioniera perché, finalmente, si parte dai bisogni del singolo e non da soluzioni standardizzate a cui il singolo deve adeguarsi”. Proprio lì, tra gli odori, gli orari e i ritmi dell’ospedale Carmen De Sanctis scopre una straordinaria “contaminazione di sensibilità” fra docenti, famiglie e studenti, pronti a studiare ai piedi del letto del compagno di classe. Con Giancarlo Onger, prima e soprattutto maestro specializzato, poi referente provinciale e regionale dell’area del disagio e della disabilità, rientriamo nel dibattito sull’ “inserimento selvaggio” degli anni ’70, ma da una prospettiva diversa e decisamente positiva: “se non ci fosse stato quel coraggio di buttarsi, se prima di iniziare avessimo aspettato la quadratura del cerchio, staremmo ancora discutendo”. Un coraggio nato dalla consapevolezza che “c’erano praterie da dissodare, seminare e coltivare” e che emerge dal sentito ricordo delle sue esperienze scolastiche, dal racconto, a tratti ironico, delle storie dei suoi alunni e dall’esperienza maturata presso il Provveditorato agli studi di Brescia. Conclude il libro la storia di Sabina Manes, che negli anni ’60, prima dell’abolizione della classi differenziali, aveva già
modo di sperimentare l’integrazione nella “stanza dei giochi”, un ambiente da lei ideato e predisposto, in cui far interagire, a piccoli gruppi, alunni con disabilità e alunni normodotati. Racconta: “nella mia stanza dei giochi si poteva far tutto: disegnare, dipingere, scrivere a macchina, usare il registratore, indossare gli abiti della cesta, drammatizzare, lavorare con i burattini, organizzare attività. Non vi erano indicazioni né divieti. L’unica cosa proibita era far male ai compagni”. Questo spazio potremmo quasi definirlo un prodromo di quella che, di lì a poco, sarebbe stata la scuola di tutti, con le problematiche e le opportunità che da quella sfida sarebbero nate.

Le storie del libro finiscono, eppure verrebbe voglia di continuare a leggerle, quasi fossimo entrati, dopo averne lette tante, nel meccanismo salvifico della Shahrazad di “Mille e una notte”.
Un libro che rende consapevoli della lunga strada, ardua e spesso in salita, percorsa da tante persone, che all’inclusione hanno dedicato la loro vita e le loro migliori energie, credendoci davvero. Un libro aperto al futuro, aperto a chi vuole continuare a scriverla quella storia, a chi, ancora oggi, ogni giorno, si impegna per realizzare la scuola di tutti.

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