Musica. Intervista al cantautore Giampiero Mazzone. Il tempo? E’ una illusione. Una magia

Giampiero Mazzone un cantautore siciliano profondamente legato alla sua terra e alle sue origini. Una proposta musicale la sua, ricca di sfumature, che guarda al jazz e al blues, che spazia dal teatro alla letteratura senza mai perdere quel tratto di potente umanità, quella più legata ai racconti tradizionali, ai ricordi della sua terra. La bellezza dei testi, avvolta in atmosfere eleganti a volte quasi teatrali, si delinea attraverso descrizioni cariche di vita, di profonda intensità, spesso molto intimistiche e introspettive, con uno sguardo sempre rivolto all’inesorabile scorrere del tempo.

Dazebao lo ha intervistato.

Vincitore per ben due volte del premio Fabrizio De André. Viene spontaneo chiedere il legame che esiste con questo grande cantautore e l’influenza che ha avuto sulla tua formazione musicale.

Naturalmente sono onorato che traspaia una sua influenza nella mia musica. È un legame che esiste si può dire da sempre, sin da bambino quando vivevo a Vizzini, in provincia di Catania (il paese di Giovanni Verga e del “Mastro don Gesualdo”). Assieme ai canti dei carrettieri, ai venditori per strada, ascoltavo Modugno e anche De Andrè.  Direi che l’ho ascoltato sempre, in particolare i suoi ultimi tre lavori: “Creuza de mà”, “Le nuvole” e “Anime Salve” scritto a quattro mani con Ivano Fossati.

Certamente c’è qualcosa di suo nella mia proposta musicale, è inevitabile. Ma ci sono anche Ignazio Buttitta, Rosa Balistreri, Ciccio Busacca.. Il lavoro sui testi, per esempio, di cui curo i minimi particolari perché le immagini che propongo devono essere precise evitando se possibile il luogo comune, il già detto. Ciò che mi ha sempre colpito molto però sono stati il suo rigore morale e la sua coerenza. E poi il raccontare sempre degli ultimi, di quelli che vengono dopo i poveri, di quelli di cui neanche ci chiediamo della loro esistenza. Motivo per il quale mi viene da accostarlo a Caravaggio e a Pasolini.

Continuando il discorso delle influenze, quali sono quelle che delineano maggiormente il tuo percorso artistico? È evidente anche un legame molto forte con la tua terra di origine, la Sicilia, questo in particolare per quanto concerne i testi, mai banali sempre molto profondi e ricercati. Quali sono le influenze letterarie che hanno avuto maggiore suggestione su di te?

Innanzitutto il clima della mia infanzia, i giochi, i nonni, Siracusa alla fine degli anni 50, mio zio Giovanni che suonava il clarinetto nella banda municipale di Vizzini. Le processioni del venerdì santo. L’aria che ho respirato, la mia Sicilia, l’isola. Tutto quello che ho vissuto e ascoltato, compresi i racconti degli anziani. Io ho iniziato a suonare – a parte i tentativi da piccolo di imparare a suonare la chitarra da solo a Vizzini – intorno ai primi anni ’70 a Catania appassionandomi alla musica popolare grazie alla NCCP, di cui ora mi vanto di essere amico. Facevo parte di formazioni di musica tradizionale e di riproposta, ma me ne sono andato in giro munito di registratore a cassetta per raccogliere racconti e brani dalla viva voce della gente. Questi i miei inizi. La musica popolare, quindi, senz’altro mi ha molto influenzato. Le prime composizioni erano molto ispirate allo stile tradizionale popolare. Poi è arrivato Pino Daniele e con lui il jazz ed il blues e la possibilità di poter scrivere in siciliano senza essere etichettato come, appunto, “popolare”. 

La mia Sicilia è presente anche quando scrivo in italiano viste le mie frequentazioni letterarie: Verga, Sciascia, Pirandello, Consolo e molti altri. Ma anche Carlo Levi con “Cristo si è fermato a Eboli”, poeti come Leopardi, Quasimodo, Ungaretti e letture di etnoantropologia come Ernesto De Martino, Alberto Mario Cirese e Lombardi Satriani. Potrei continuare per ore…

A tutti questi vanno aggiunti i racconti di mio padre, dei miei nonni. “Mastro Don Gesualdo”, per esempio, ha molto influenzato il mio “modo”, anche perché lo sceneggiato omonimo – fiction, come si direbbe oggi – con la regia di Giacomo Vaccari, Enrico Maria Salerno come protagonista insieme a Turi Ferro e Sergio Tofano, fu girato proprio a Vizzini. 

Tuo padre era un autore teatrale, quanto è stato importante il teatro nel tuo lavoro?

Mio padre, Alfredo, era anche regista teatrale. È stato lui ad inventare il “Teatro di Reviviscenza” a Vizzini. Quelle che oggi chiamano “Le Verghiane”, dimenticandosi completamente di mio padre. Prendeva le novelle di Verga, ne faceva un trattamento teatrale e le metteva in scena nei luoghi descritti dal Verga a Vizzini. Vi hanno partecipato attori del calibro di Arnoldo Foà, Giulio Brogi, Orso Maria Guerrini, Regina Bianchi, Luigi Pistilli e tanti altri.

Il teatro mi ha formato umanamente, culturalmente e anche come disciplina di palco. Uno dei miei sogni è quello di mettere in scena una mia vecchia idea che prevede sia la musica che la recitazione. Ma non so se ci riuscirò mai. È difficile, tanto. È già difficile trovare spazi per proporre dei concerti. Il teatro è importantissimo per la formazione culturale ed umana di una società civile. Vedi i greci. 

Pur sapendo che non ami le etichette, di fatto molto restrittive, vieni però talvolta definito un cantautore ‘antimafia’, tema che spesso hai trattato nei tuoi testi (come in ‘Gramigna’, ma non solo). Ti consideri effettivamente un cantautore ‘politico’, visto che nel tuo lavoro trapela sempre una forte coscienza sociale?

Sì, “Gramigna” è dedicata a Graziella Campagna. L’etichetta di cantautore “Antimafia” nasce da un equivoco, dal fatto che nei miei concerti dedico una parte di essi alla questione criminalità organizzata e al fatto che mi occupo, nel mio piccolo, di educazione alla legalità nelle scuole in cui insegno. In realtà sono un cantautore “normale” che riflette e denuncia quello che lo colpisce e indigna. La coscienza sociale è vero è molto presente. Appartengo a quella generazione degli anni ’70 in cui l’attività politica e civile era alla base della vita. Ho militato nel Movimento Studentesco, partecipato a centinaia di cortei, assemblee, occupazioni, volantinaggi e quant’altro. Ne sono orgoglioso e, se si potesse, rifarei tutto. Cantautore “politico”? Perché no? Anche, ma non solo. Anche cantautore intimista…

Nei tuoi progetti musicali tendi a seguire un taglio unitario, un filo rosso che accompagna l’intero album?

Ci provo. Questa unitarietà è soprattutto nei testi, nel racconto. Quando penso alla realizzazione di un disco lo vedo come un libro di racconti, il cui legame non è una trama unica, ma tanti racconti brevi che compongono l’opera. Certamente un filo conduttore c’è, ma è molto interiore. E questo avviene anche quando penso al concerto dal vivo. Sui testi lavoro tantissimo. Anche quando descrivo vicende o esperienze di altri, in fondo c’è molto della mia vita. Non sono mai contento. 

Il tuo lavoro sembra nascere essenzialmente da una grande passione, in quanto estraneo e lontano dalle logiche di mercato. È evidente anche che nasca da una voglia di raccontare qualcosa, di raccontarsi e di assumersi anche delle responsabilità rispetto a ciò che si narra, il tutto sempre arricchito da una attenta analisi testuale. C’è un qualcosa che vuoi trasmettere in particolare, un messaggio etico che vorresti fosse recepito? 

La musica è sempre stata la “benzina” della mia vita. Quando me ne sono allontanato, per stanchezza, per l’infinita fatica necessaria anche solo per fare ascoltare un brano a un discografico o a un produttore o magari per qualche delusione, ho avvertito un vuoto fisico anche pesante. Non ho mai tenuto conto delle logiche di mercato né mi sono mai strappato i capelli per conoscere per forza un big. Scrivo perché mi fa bene, perché ne ho bisogno, perché mi piace raccontare. Raccontare cosa? Quello che mi accade, quello che mi colpisce, quello che mi manca; anche rabbie, frustrazioni, passioni. Nessuna presunzione di lanciare messaggi o dare lezioni, ci mancherebbe altro. Racconto me stesso e attraverso me vicende che stanno nell’aria, che si trovano per strada…spesso quasi per caso.

I tuoi lavori sono molto intimistici, disegnano un percorso, oltre che artistico, anche umano. L’amore è uno dei temi che affronti con una certa frequenza, quanto conta nella vita di un uomo… e nella tua vita?

L’argomento “amore” è delicatissimo. È facilissimo scivolare nella retorica, nel già detto, nei luoghi comuni banalizzando un sentimento immenso che non è semplice descrivere. Io non ho scritto molte canzoni “direttamente” sull’amore e sai perché? Semplicemente perché mi mette soggezione. Anche nella vita. Non so come spiegare… E poi incontrare le parole adeguate che raccontino, che descrivano, che dipingano con i suoi colori quello che si prova… se si ha il privilegio di provare. Perché non è detto. C’è il rischio di inflazionarlo … un po’ come il termine “amicizia”: non sono tutti amici o amiche le persone che frequenti.  È vero che quando l’amore si presenta lo riconosci subito, ma da qui a saperlo descrivere ne passa. Almeno a mio modesto parere. L’amore conta ed è centrale. Ho perso mia moglie 7 anni fa dopo una vita insieme: è stato devastante e in tutti i sensi: fisico, spirituale, esistenziale. Mi è mancata d’improvviso la luce. Ho camminato a tentoni sbattendo contro spigoli, cadendo spesso e spesso senza trovare la forza e l’appoggio per rialzarmi.

8) La copertina del tuo ultimo album, ‘Cent’anni’, raffigura un uomo anziano, un uomo segnato dalla vita. Un riferimento al senso del tempo che passa inesorabilmente, alla memoria, alla fatica dell’esistere?

L’uomo della copertina è mio nonno materno Giuseppe Scibilia di Siracusa. È stato uno dei “ragazzi del 1899”, quelli della prima guerra mondiale, quelli del Piave. Artigiano, uomo sensibilissimo e attaccato a me da un amore immenso. Uno dei punti di riferimento più importanti della mia vita assieme a mia moglie Daniela. È scomparso più di 40 anni fa e mi manca ancora. Ricordo praticamente tutto dei “nostri” momenti: la colazione, l’andare da Ortigia alla “borgata” prendendo la barca vicino alla ex posta di Siracusa; la bicicletta verde e le passeggiate alla Marina; la bottega che odorava di cuoio; i suoi amici. Pensa che aveva 60 anni quando è morto: io ne ho 61 … ho la sua età.

Il tempo. Ecco: il tempo. È un argomento, un tema che tratto continuamente nelle mie canzoni e da sempre, perché lì dentro c’è tutto, ma proprio tutto. La cognizione del suo inesorabile passaggio, della sua continua danza che come nel tango modifica ed evolve le figure quando ci sembra che sia volato e poi quando abbiamo l’impressione di riuscire a fermarlo anche se per poco. È un’illusione esistenziale come  l’illusione ottica della prospettiva lineare: se uno si mette al centro di un viale, nota che gli alberi vicini sono molto più alti e con una massa maggiore rispetto a quelli che man mano fugano verso la fine. Se però uno incomincia a percorre il viale, si accorge che non è così e che quegli alberi – gli ultimi – che sembravano minuscoli hanno la stessa dimensione dei primi. Ecco il tempo è una illusione. Una magia. Non riusciamo ad accettarne il suo scorrere. Dentro tutto questo c’è la memoria personale e collettiva che andrebbero coltivate, innaffiate quotidianamente, perché sono utili come attrezzi di un mestiere … proprio alla fatica dell’esistere, come dici giustamente tu. Il tempo segna, non c’è dubbio: segna il nostro passo, ci costringe a modificarlo, addirittura a trasformare il nostro incedere e il nostro sguardo sulla vita. Hai mai notato che paradossalmente, quando si diventa anziani, più ci si avvicina alla conclusione della nostra parte nella vita e più le giornate sono lunghe?

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