Nadima, sei arrivata in una fredda mattina di Marzo travolta dal chiacchiericcio della gente. Ricordo i tuoi capelli lunghissimi, neri, che cadevano lungo il viso smilzo. Avevi labbra sottili e serrate e due occhi di legno liquido incorniciati da sopracciglia folte che donavano al viso un'espressione dura e feroce.
La signora abitava a poca distanza da casa mia: dal balcone della mia camera riuscivo a vedere quello della sua cucina. È proprio lì che l’avevo notata, perché usciva pochissimo in paese ed era raro incontrarla per strada, ma su quel balcone ci passava davvero tanto tempo.
Per il mio trentesimo compleanno i colleghi d’ufficio mi regalarono due biglietti per Parigi. Io a Parigi c’ero stato già due volte, la prima a vent’anni per andare a trovare un amico in erasmus; pochi monumenti, poche foto da turista, ricordo solo una sbronza clamorosa e un feroce mal di testa che mi perseguitò per i giorni successivi.
La seconda volta che misi piede sul suolo parigino la mia mano stringeva forte quella di Luisa: era il nostro primo viaggio insieme e Parigi era la città ideale per conciliare il suo animo romantico e la sua laurea in storia dell’arte.
Ecco, l’ho scritto. Non lo avevo mai scritto prima. In quasi ventiquattro anni avrò scritto milioni di cose … appunti scolastici, numeri telefonici, bigliettini d’auguri per Pasqua, Natale, compleanni vari; ricette di ogni tipo che poi non ho mai realizzato. Però questa frase non l’avevo mai scritta.
Sono nata in una famiglia di alti. Sì, a casa sono tutti più alti di me, mio padre, mia madre, i miei fratelli e anche mia sorella minore. Ecco, io sono l’unica nana in mezzo a questi vatussi che superano tutti il metro e settanta. Come è possibile direte voi? Di chi avrà preso?
Cosa ci porta a dire che stimiamo una persona? Esiste ancora la stima in questo mondo dove Homo Homini Lupus? In questo mondo fatto di palleggi di responsabilità, caratteristiche come la coerenza, la serietà e il rispetto potrebbero essere già valide per stimare qualcuno? Forse.
In una fredda domenica invernale mi ero concessa il lusso di un lungo sonno ristoratore. Quando aprii gli occhi erano pressappoco le undici. Fui felicissima di potermi stiracchiare nel letto per qualche altro minuto senza nessuna fretta, anzi rallentai all’estremo ogni singolo movimento proprio per il gusto di sfidare le lancette dell’orologio che negli altri giorni della settimana erano lame sottili contro il mio sistema nervoso.
Francesco è mio figlio. È bello, ha un viso delicato con lineamenti regolari, ha le labbra e la bocca del padre ma gli occhi li ha presi da me. Sono grandi, color nocciola, sembrano quasi di velluto, sono mobilissimi con un’ espressione sempre un po’ malinconica. Lo guardo e mi sembra il bambino più bello del mondo, così dolce, intelligente, riflessivo nelle sue cose.
Ero arrivata in anticipo, avevo le mani sudate, mi sedetti sulla panchina e inizia a guardarmi attorno. Fabio ancora non era arrivato. Ora avevo un po’ di tempo per calmarmi, dovevo respirare profondamente così quando sarebbe arrivato mi avrebbe trovata calma.
Il Covis19 si sta impossessando di tutto, in tutto il mondo. Disneyland, tempio del divertimento, chiuso da tempo per evitare assembramenti, è diventato un “centro covid”, dove al posto dei...
Le cellule cancerose sarebbero in grado di proteggersi in una sorta di letergo, quando sono minacciati dal trattamento chemioterapico. E' quanto emerso in una ricerca apparsa sulla rivista scientifica Cell.