Jacko, fuga dalla normalità – racconto trentesimo

Nell’estate del 2001, durante il  quarantunesimo compleanno di Michael Jackson, nello stesso momento in cui era ospite il rabbino Shmuley Boteach, a Neverland arrivò la famiglia di un bambino malato per il quale il cantante stava pagando tutte le cure: Gavin Arvizo. 

Jacko si era interessato a lui dopo che un team medico di Los Angeles gli aveva diagnosticato un cancro di quarto stadio e il piccolo aveva espresso, come ultimo desiderio, di conoscere il re del pop. In qualunque parte del mondo si trovasse il cantante telefonava a Gavin nella sua stanza d’ospedale per sostenerlo: parlavano di video games, di giocattoli, della bellezza di Neverland che un giorno avrebbe visitato, di quanto fosse necessario avere fede nella guarigione.  Eppure quando Michael presentò il ragazzino a Shmuley Boteach,  l’uomo ebbe l’impressione che la star tenesse a quella presenza soprattutto come mezzo di riscatto,  per far mostra di quanta prodigalità fosse capace: prova che il senso di colpa per lo scandalo del ’93, pensò il rabbino,  aveva radici molto profonde.

I viaggi della famiglia Arvizo per incontrare Michael Jackson furono completamente a spese di quest’ultimo. Davanti al loro fatiscente appartamento a est di Los Angeles si fermava una limousine, li caricava e li trasportava a Neverland, dove la prima volta furono accolti dallo staff di cucina e da Michael che, mangiando un panino, disse a bocca piena:
– Vi darò una stanza degli ospiti e poi andrete in golf car a vedere il ranch…
Gavin allora portava un berretto che copriva la calvizie causata dalla chemioterapia, Jacko prese tra le mani il visetto infantile e disse:
Sei bellissimo, non devi mai vergognarti della pelata… ti rende unico… hai capito?
Gavin assentì e tutti guardarono il cantante con gratitudine,  tranne David Arvizo, il padre che, come a molti padri e mariti accadeva, entrò in competizione con il re del pop e deplorò l’entusiasmo dei suoi.  A sera  arrivò a lanciare addosso alla moglie Janet una lattina di soda,  perché aveva l’impressione che lei si stesse divertendo un po’ troppo. Ma suo figlio Gavin, nel libro di presenze degli ospiti a Neverland Valley Ranch, scrisse a futura memoria: “Caro Michael: grazie di avermi dato il coraggio di togliere il cappello di fronte alla gente. Ti voglio bene, Michael. Con affetto Gavin”.

In quell’agosto del 2001 i bambini dei Boteach e quelli degli Arvizo  presero a giocare insieme: si divertivano, ridevano, ma le figlie di Shmuley trovarono gli Arvizo timidissimi e spaesati, anche perché  Michael a un certo punto non si occupò più di loro. Il rabbino glielo disse con delicatezza:
–   Michael  quei poveretti sembrano pesci fuor d’acqua… non hanno mai visto simili meraviglie, falli sentire a casa…
La sera, il signore di Neverland,  condusse tutti  nel suo cinema privato, dove la cena veniva consumata su vassoi davanti a un grande schermo e  insieme agli ospiti guardò vecchi video con occhi che brillavano di nostalgia. All’ora di andare a dormire, rivolto ai piccoli, Jacko esordì:
Siete tutti invitati nella mia stanza … voi comprese –  continuò alludendo alle figlie del rabbino,   le quali, educate a evitare i contatti con i maschi fino all’età del matrimonio, religiosissime come il padre,  anche se dispiaciute, rifiutarono per obbedienza.
La famiglia Arvizo al contrario permise il capriccio e i bambini batterono le mani gridando di gioia.  Erano molte le occasioni in cui Michael dormiva con i giovanissimi, era accaduto con Gavin e il fratellino. Una volta il re del pop e il suo amichetto Frank Cascio avevano passato la notte per terra, per permettere ai due piccoli Arvizo di stare insieme sul materasso.

***

A quei tempi Michael Jackson appariva profondamente svogliato, abulico, distaccato dalla realtà e lavorava poco. Spesso chiamava al telefono il rabbino per dirgli che gli voleva bene, biascicando parole altisonanti e spesso incomprensibili.   Meravigliato, l’uomo non sospettava che lo strano comportamento fosse causato dalla droga, ma sentiva tutto il peso di quel precario equilibrio: si prodigò come poteva, gli fece da sostegno,  da confidente, cercò di aiutare Jacko a motivare la sua vita.
Nel mese di dicembre del 2001, dietro sua insistenza, il re del pop partecipò all’Angel Ball, serata di beneficenza per raccogliere fondi contro il cancro. Tra i vip presenti anche l’ex presidente Clinton e lo scrittore rumeno,  nobel per la pace,  Elie Wiesel.  Momento importante che serviva altresì a ricostruire la verginità di Michael Jackson. Dopo il meeting, di ritorno in albergo, Wiesel con sua moglie e la famiglia Boteach vollero prendere un caffè insieme, approfittando della chiacchierata per conoscersi. Il rabbino si premurò di coinvolgere il re del pop.
Scusate –  disse Michael – non posso partecipare… ho un terribile mal di schiena e ho bisogno di sdraiarmi…
Shmuley non comprendendo come non volesse approfittare dell’eccezionale compagnia, lo fissò stupito e desolato.
Se volete vi chiamo il mio medico personale – si premurò il premio nobel.
Sareste così gentile? – a Jacko si illuminarono gli occhi e sparì, rasserenato,  nella sua stanza.
Mezz’ora più tardi arrivò in albergo uno dei luminari di New York e subito fu condotto  dal cantante. Rimasero soli. Il luminare riapparve sulla porta, dopo un quarto d’ora,  sconvolto.  Wiesel e Boteach lo guardarono con occhi indagatori, in attesa. Il medico, ritto davanti a loro, disse piano:
–    Mi ha chiesto una quantità di droghe che ammazzerebbero un cavallo!
Mentre Elie Wiesel e il dottore, che non prescrisse alcun farmaco, si allontanavano scioccati, Shmuley spalancò la camera del cantante:
Il medico ha detto che gli hai chiesto tanta droga da ammazzarti…     
Il medico si sbaglia – rispose calmo Jacko – ho un livello di tolleranza altissimo, so quel che faccio.     
Folgorato il rabbino esclamò:
–  Dunque lo ammetti?! Quella roba è veleno, stai giocando con il fuoco. Devi abituarti a sopportare il dolore… prima che sia troppo tardi…

Michael  scivolava in un tunnel senza uscita, anche se a periodi riusciva, almeno fisicamente, a disintossicarsi da Demerol, Xanax, Propofol  e altre strane medicine, per lo più antidolorifici.  Si sottoponeva a cure accelerate e le energie per un po’ tornavano, insieme a chi lo aveva abbandonato perché inoperoso:  manager e  produttori lo pressavano affinché calcasse come un tempo i palcoscenici del mondo. Il sogni dello show businnes continuavano a esercitare su Michael quel fascino inalterato che anelava a livelli divini e, a poco a poco, il re del pop si stancò del moralismo di Shmuley, della sua aria pedante, dei suoi ingenui tentativi di riportarlo alla retta via,  normalizzazione forzata e a lui estranea. Il giorno che il rabbino lo condusse a Newark,  a una iniziativa dedicata all’alfabetizzazione e alla salute,  cui partner era Cory Booker –  sconosciuto consigliere allora di una frazione del New Jersey –   Jacko si arrabbiò perché una grande star non poteva trattare con gente qualunque. Il rabbino,  pensava, e con lui il suo staff, stava solo facendo perdere tempo prezioso. Un manager di Jackson incontrò Shmuley e concluse lapidario: “Lei vuole che Michael diventi normale. Quel che non ha capito è che lui è famoso perché non è normale”. Il loro rapporto finì. Qualche tempo dopo Cory Booker divenne sindaco di New York.

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Il duemilauno reca una data memorabile, quella dell’undici settembre. Per gli attentati alle Torri Gemelle Michael Jackson  riscrisse una canzone ispirata a Nelson Mandela, che avrebbe dovuto essere presentata con Pavarotti nei due concerti di Michael Jackson & Friends del giugno 1999 a Seoul e a Monaco:  “What more can i give”.  Fu incisa come singolo di beneficenza insieme a numerose star, tra cui Beyoncé, Mariah Carey, Celine Dion, Anastacia, Luis Miguel. La Sony all’epoca ritenne l’uscita del singolo concorrenziale all’album “Invincibile”  al punto che non venne mai pubblicato. Questo fu uno dei fattori che portarono il re del pop a etichettare Tommy Mottola, direttore della Sony e marito di Mariah Carey, come razzista e sabotatore del disco. Ulteriori polemiche si sollevarono quando si vociferò che una delle società del progetto benefico, The HELP Organization, era stata fondata dalla Chiesa di Scientology . Il 21 Ottobre 2001 comunque  “ What more can i give” fu  presentata allo United We Stand, uno  stadio di Washington, davanti a 46.000 persone e trasmessa da ABC TV il 1° Novembre dello stesso anno.

What more can i give – Michael Jackson with Friends

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Malgrado riuscisse ancora a scrivere canzoni di successo, giorno dopo giorno la deriva verso la quale Michael si stava avviando diventava più chiara e faceva soffrire tutti i suoi. I genitori del re del pop, Katherine e Joseph, non sapendo più cosa tentare, sentendosi impotenti, telefonarono  preoccupati a Shmuley Boteach e lo invitarono a Encino, nella loro villa di Hayvenhurst. Il rabbino incuriosito e stupito, malgrado non vedesse da tempo il re del pop, accettò di incontrarli domandandosi cosa volessero da lui. Seduti a tavola, di fronte ad una cena curata, messi da parte i convenevoli, Shmuley chiese:
–   A cosa devo  questa vostra chiamata?
Fu la madre a parlare per prima:
Nostro figlio è peggiorato dall’ultima volta: la sua dipendenza dai barbiturici è talmente grave che abbiamo tentato di tutto… tempo fa i suoi fratelli si sono presentati a Neverland  per convincerlo a sottoporsi a una cura di riabilitazione…quando ha saputo che stavano arrivando  Michael è scappato.
Il rabbino li guardò interrogativo.
Ci chiedevamo – continuò Joseph – se voi potevate ricontattarlo, fare qualcosa… potete salvare nostro figlio?
Shmuley sospirò:
–    Michael non ascolta i miei consigli… li giudica impegnativi… per lui sono diventato irritante…
Il rabbino rifletté come Katherine fosse  per Michael un porto sicuro, come entrambi avessero sul figlio molto più ascendente di lui. Salvargli la vita per loro due, un imperativo. Se non riuscivano a convincerlo loro, cosa  avrebbe potuto fare lui? Pensò alla morte del re del pop, si chiese se non sarebbe arrivata presto. Una fitta allo sterno e scacciò quell’idea che, comunque, gli appariva irreale e molto lontana.

***

Gavin Arvizo, a dodici anni, aveva sconfitto la sua terribile malattia grazie all’aiuto di Michael Jackson, alla sorprendente occasione che il destino gli aveva concesso. I capelli gli erano cresciuti, come anche la statura e stava diventando un ragazzino vispo e bello. Con Michael, in quel periodo, si erano frequentati quasi quotidianamente, proprio mentre con il re del pop abitava il giornalista anglo-pakistano  Martin Bashir che stava girando il documentario sulla vita della star “Living with Michael Jackson”,  poi andato in onda nel 2003. Nell’intenzione di Michael, oltre alla contropartita economica, le riprese e le interviste avrebbero dovuto riscattarlo agli occhi dell’opinione pubblica,  lavare il caso Chandler. Parlare di Gavin e della sua miracolosa guarigione poteva essere dunque un formidabile biglietto da visita. Con molto candore, non rendendosi conto del peso delle sue ingenue dichiarazioni, insieme al suo amichetto, Michael  aprì il cuore al giornalista, dolcemente, senza lontanamente immaginarne l’effetto : la sconfitta del cancro da parte di Gavin passò in secondo piano, Michael Jackson fu collocato fuori  della normalità e deflagrò un nuovo scandalo, che per la star fu l’ultimo e si rivelò letale.

Italia 1. “Living with Michael Jackson”, le abitudini non conformi

(continua)

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