4. Mio padre è un re di notte

Nel villaggio del Piccolo Principe gli spazi sono aperti, si può correre e cercare il sole che fa capolino all’orizzonte. Si possono vedere i suoi riflessi sulla superficie dove si cammina senza che si senta l’odore del chewingum sciolto.

Si può camminare scalzi. Qui, invece se si guarda oltre si vedono altri palazzi e l’asfalto brucia. Brucia molto più della sabbia sulla pelle, della mano vicino al fuoco per riscaldarsi. Brucia più del tè che si rovescia per errore. In Mali un adulto ti prende in braccio perché ti vuole bene e vuole giocare, per andare a prendere qualcosa di importante, l’acqua, il cibo, un regalo, per sculacciarti o se c’è la guerra per rapirti e farti combattere.

“Cammino piano, ma posso anche correre. Mettetemi giù, giochiamo a un altro gioco”, reclama il ragazzo. L’ufficiale dal cuore pulito lo tiene forte, ma non sa nemmeno lui perché lo tenga in braccio. Gli chiede il Piccolo Principe: “Hai paura che possa camminare più veloce di te?”, ma non ricevendo risposta prosegue: “Ho capito, mi state portando in un posto magico, come quando chiesi dove era finito mio padre l’anno scorso. Il giorno prima c’erano stati fuochi in città, li sentivamo chiusi nelle nostre case, mia madre diceva che faceva male agli occhi guardare fuori, che non erano buoni come quelli delle feste tradizionali, che erano modificati. Mia madre non si muoveva dalla sedia e io e mia sorella le stavamo sulle gambe. Ci chiudeva gli occhi e ci invitava ad immaginare i colori dei botti e la notte come una coperta che veniva ricamata. Mio padre portava gli occhiali, era stato fortunato, quando era giovane aveva sbattuto la testa mentre andava a scuola, lo avevano portato all’ospedale e gli avevano regalato degli occhiali magici, che gli facevano vedere di notte e che non gli davano problemi quando c’erano questi fuochi di fuori. Stava sempre in giro mio padre, a dare da mangiare agli animali, ma poi di solito tornava, con il fucile da caccia che usava per proteggere le pecore, e stanco, perché amava arrivare in montagna dai suoi amici, nelle tende. Quella notte non tornò, i fuochi durarono tantissimo, pensammo si fosse addormentato al fresco, ma non tornò nemmeno il giorno dopo e nemmeno quello dopo ancora. Il nonno mi prese in braccio e mi portò lontano, in una caverna dove non si vedeva nulla. Mi disse che questo gioco mi avrebbe reso grande, ma che dovevo essere forte. Restammo lì per due giorni, senza vedere nulla, con il nonno che mi imboccava di quel pane duro che la nonna conservava per le grandi occasioni avvolto in una fascia bianca, e che mi raccontava storie. Era un crescendo, dalle favole ai racconti di famiglia, fino al segreto su mio padre. Lui era il re del villaggio, ma solo di notte, mi disse che era una responsabilità, perché a differenza dei re di giorno i re di notte non hanno gli applausi del popolo, non hanno i soldi, ma i re di notte appaiono in sonno quando ce ne è bisogno e è grazie a loro se abbiamo degli ideali e se ci sentiamo al sicuro. Il nonno mi ha detto che da quel momento mio padre mi sarebbe apparso solo in sogno e che potevo partire, viaggiare, che avrei avuto una casa in ogni paese, che su di me mio padre avrebbe vegliato anche se fossi costretto a dormire per strada, che sono fortunato, sono un principe. Ero diventato grande, ero felice e il giorno dopo iniziai il mio viaggio”. L’ufficiale commosso ha raggiunto la caserma e lo rassicura: “E’ un gioco simile, per questo ti tengo in braccio, ora racconto questa bella storia a dei signori che ti daranno dei vestiti, poi andremo in un campo, con tante tende e potrai riposarti dal tuo viaggio”. “Uffa! Altri signori… Ma non ci sono i bambini?”, risponde il Piccolo Principe. “Ci sono tanti bambini, ma prima devi parlare con gli adulti, l’hai detto tu che sei diventato grande”. Il bambino accetta, ma precisa: “Quando si gioca però bisogna essere tutti bambini”. L’ufficiale mette il ragazzo a terra. La caserma ha le pareti del colore della paglia,  è vuota, c’è solo il commissario, nessuno degli uomini in servizio parla la lingua del Piccolo Principe. Nessuno conosce il francese. “Non parli inglese?”, chiede il commissario al ragazzo e lui “No, mi dispiace”. “E’ un problema. Cosa scriviamo?”, domanda il commissario all’ufficiale che lo ha portato in braccio: “Scriviamo che viene dal Mali, che si chiama Amadou e che è nato l’uno, uno 2004. Avrà undici anni…”. Il superiore prende appunti e domanda: “Il cognome?”, il Piccolo Principe sembra aver capito: “Quello di mio padre: Re”. Poi guarda l’amico ufficiale: “E ora?”, l’ufficiale gli risponde: “Ora sporcati il pollice con questo colore e poi puliscitelo su quel foglio di fronte al commissario”, il bimbo felice esegue il compito e guardando nuovamente il suo interlocutore: “E ora?”. “Ora andiamo al campo profughi”, risponde l’ufficiale.  

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