Capitolo 2. Lezione numero uno: le farfalle

Non so più cosa fare, sono alla quarta pinta e inizio a pensare ad alta voce.

– Nel mezzo del cammin della mia vita, mi ritrovo in una sperduta periferia…

La voce è trascinata, fastidiosa, caricaturale, ma loro mi prendono sul serio. Dopo il giusto silenzio mi richiamano alla loro attenzione. 

– Delemberte, stia attento con le parole, questo posto non è solo una sperduta periferia, ha una storia: noi siamo primavallini. Ci ha fatti Mussolini, abbiamo ospitato le brigate rosse e anche il manicomio.

– Ciò che importa è che la diritta via è smarrita… – sospiro confuso, agitando il bicchiere.

– La smetta con la birra e ci dica: è dei nostri?

– Ahi quanto a dir qual è è cosa dura. Questa birra scura è amara…

– Non avrà mica paura?

– Dante, Dante! Cosa ne volete sapere voi della poesia…

– Tutto! La poesia salva la vita! – dichiara trionfante Noè.

– E no! La vita si salva da sé! – ribatto con inaspettata violenza.

E’ un attimo. Mentre pronuncio questa frase mi accorgo che sto lentamente morendo, che tempo addietro avrei tirato fuori il coltello e lo avrei inchiodato al tavolo, avrei schiaffeggiato il parlante e fatto a botte col metafisico significato di questa frase. Ora invece sono proprio io a soffocarmi l’esistenza e a spegnere i fuochi altrui con inumano cinismo.

Noé mi guarda deluso, poi cerca di giustificarmi davanti agli altri: – Lo so, è banale. Quanti cantanti, quanti scrittori hanno detto che l’arte li ha salvati solo per vendere di più? Mi scusi Delemberte.

– E no, figlio mio, sono banale io, sono irriconoscente, sono un deficiente.

Mi inizia a salire l’ansia, sto per avere una crisi, solo una cosa può illuminarmi il cammino: chiamare mia moglie. 

– Lezione numero uno: le farfalle.

Prendo il mega-tablet del campionario Cipt, inserisco la sim dati aziendale, apro Skype e chiamo mia moglie. Loro sono lì, stretti attorno al tavolo, come se aspettassero il fischio d’inizio della finale di Champions League. Mia moglie è nel suo studio, è bellissima con i capelli sciolti, senza trucco, le mani sporche di colori ad olio, gli occhi sempre vivi.

– Ma dove caspita ti sei cacciato? Chi sono queste persone? Ti ho già detto altre volte che non so dire le bugie, non mi mettere in imbarazzo.

– Non è per dimostrare la convenienza di questo affare che ti chiamo. E’ per quella storia sul fiore raccolto e il fiore donato.

Lei è un’eroina, la mia eroina. Ne sono dipendente. E’ una donna bionica che ha sostituito le droghe artificiali con la sua essenza nella mia dipendenza dall’irreale.

– Allora ce l’hai fatta, stronzo!

Non mi riconosceva più, erano tre anni che non mi chiamava stronzo. Sono tre anni che non facciamo l’amore. Sono tre anni che non scrivo.

– Maurice, finalmente!

Un po’ di silenzio, sento alzarsi qualcosa nel mio pantalone, faccio finta di nulla, conto i secondi, ma niente, non si ferma. Esiste, miracolo, esiste! Willy c’è ancora. La cosa si fa imbarazzante. Tra disoccupati, migranti, zingari e studenti, il mio cazzo ha iniziato a crescere a dismisura. Loro fissano Madeleine, io la contemplo inebetito, ma vorrei abbassare lo sguardo, ho paura di fare un danno. Mi concentro sulle sue labbra sottili e appena le apre so già cosa sta per dire.

– Tra il fiore raccolto e il fiore donato, il nulla. 

E mentre mi bagno come un ragazzino di dodici anni che non conosce a fondo l’arte della masturbazione, prendo la parola e mi copro il pacco con la sciarpa di qualcuno.

– Antonine era un poeta del nulla, raccontava il percorso, lo spazio, la storia di un gesto. Tutto quello che c’è, che sostiene, che unisce il fiore raccolto e il fiore donato. Quel corpo chinato che si rialza, quel cammino verso di lei. Quell’insicurezza, quella timidezza. Quel segreto, quella sorpresa. La solitudine prima dell’incontro, la fine dell’esser soli, la realizzazione di un intento. Il contatto, il dono.  Chi se ne frega del fiore raccolto, ma chi se ne frega del fiore donato. A noi deve importare del nulla. Perché quel nulla è la nostra vita. E solo la poesia può far sì che il niente sia più di una parola.

Noè interviene dubbioso: – Ma Delemberte, lei prima ha detto che la poesia non può salvare le nostre vite…

Madeleine cambia aspetto. I suoi occhi diventano rossi, temo che i suoi super poteri possano distruggere lo schermo del mio tablet. Parte un acuto con rincorsa.

– Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaapureton! Ancora lui! Non ne posso più!

Gino fa un salto sulla sedia e si alza in piedi: – Signo’, e no così non va bene, io non ce sto a capì ‘na mazza. Er nulla, la parola, il gesto. Dà dello stronzo a ‘sto distinto signore e mo’ pronuncia er nome de chi sa chi. Ma lei chi si crede di essere?

– E’ una farfalla, è mia moglie. Solo lei sa se io sarò dei vostri e solo se lei sarà con voi io mi unirò al gruppo.

Gino scuote la testa: – Ma lei non sa niente. Come può decidere per te?

Lo guardo, avvicino la mia bocca alle sue orecchie e gli sussurro: – Domandale se la poesia salva la vita.

Gino gira la domanda e Madeleine sorride istericamente, si passa una mano davanti al viso, come a rispolverare un vecchio ricordo. Dopo una pausa lenta e densa, per raccogliere ossigeno e pensieri, inizia a raccontare : – Avevamo una trentina d’anni, vivevamo ancora a Dejanville. In una casa popolare, all’ottavo piano. Avevamo una stanzetta, la cucina ed il bagno. Un divano letto e quattro sgabelli, tenevamo le luci spente perché ci distoglievano dalle discussioni. Consumavamo candele su candele. Una notte Maurice litigò con Apureton, quello che più tardi sarebbe diventato il suo editore. Iniziarono con la politica, poi una cannetta placò gli animi. Maurice per farsi perdonare trovò il coraggio di leggere due poesie di una sua raccolta allora inedita. La prima parlava dell’edificio dove vivevamo. Ad ogni verso, Apureton rideva. Erano versi tristi, toccanti. Dopo aver descritto le persone che popolavano il palazzo e la nostra povertà, la poesia diceva: è la mia casa, io ci sto bene. Apureton guardò Maurice e gli disse: “Allora, cosa vuoi?”. La seconda tra l’altro recitava qualcosa del tipo: Vuoi un film? Giralo. Vuoi una donna, innamorati. Vuoi una vita, scrivi. Il nostro amico segò Maurice: “Ascolta, per me queste parole non valgono niente, sono esercizi da sedicenni. Ci sono giochi di parole, qui? C’è   uno studio del verso? Non mi sembra affatto. E poi non significano nulla. Non hai equilibrio, Maurice”. 

Madeleine si ferma un attimo a riprendere fiato, è evidente che quel racconto non la lascia indifferente, anche se è passato tanto tempo. Guarda con ancora maggiore intensità nella piccola webcam, come per guardare negli occhi ognuno dei suoi interlocutori, e continua: – Ecco, se io dovessi descrivere Maurice, direi che ha un solo difetto: non ha stima di sé. Ha ideali forti, è coinvolgente, ha coraggio, ma per quanto possa abbaiare, non sa difendersi. Io lo amo, sono stata con lui sempre, tranne adesso e quando è stato in galera. Ma quei due anni sono serviti. Ci hanno dato forza. Ci hanno fatto capire cosa è la vita. Io non potevo vederlo, non eravamo sposati. Allora ci scrivevamo. E lui, per raggirare i secondini, per non tradursi e per impegnare il suo tempo, mi scriveva delle poesie. Tra quelle, c’erano anche quelle lette ad Apureton a cena da noi.

Interrompo il racconto di Madeleine, sono imbarazzato, sentire mia moglie che parla apertamente di me mi emoziona  ancora come un ragazzino. Decido di continuare io la storia di quella serata con Apureton: – Madeleine, in risposta alle acide accuse di Apureton, iniziò ad insultarlo. Gli disse proprio tutto ciò che avevo pensato quella sera, ma che mai e poi mai avrei potuto dire ad un ospite. “Ci hai portato del Sauvignon, ce lo hai descritto come un vino dal colore elegante, dal gusto equilibrato e tante storie, ma la verità è che sapeva di piscio di gatto. Hai detto che per risolvere i problemi della crisi economica occorre mandare via gli stranieri, senza pensare che sia io che Maurice siamo degli stranieri e che tra l’altro ti stiamo offrendo da mangiare. Fin qui passi tutto, ma attaccare un uomo che si mette a nudo è da vigliacchi. Sei un fascista, Apureton! La vita è nelle parole. Senza di queste non esiste la vita. Ma le parole non sono schifo che esce col fiato. Non sono leccate di culo o semplici giochi per intellettuali. Le parole sono la poesia. E la poesia sa di vita, non di stronzo. Fottiti, fottiti tu e i tuoi sorrisi da so tutto io”.

Madeleine sorride, questa volta è lei ad essere un po’ in imbarazzo, ma si vede che va ancora fiera della sua performance di quella sera, nonostante la schiettezza esagerata che aveva scalfito la sua proverbiale discrezione. Conquistata dal ricordo, riacchiappa la parola: – Apureton non era tipo da abbassare la testa ed andarsene. A quella che riteneva una provocazione, rispose spiegando, con una calma quasi snervante rispetto alla mia veemenza, che la  poesia non era reale. Quella frase mi infiammò: ”Non è di questo mondo, ma è reale!”. A quel punto Apureton chiuse la conversazione dandomi dell’immatura. Poi guardò Maurice e gli disse: “Tu mi stai capendo, vero?”. Maurice non rispose, ma si vedeva che era felice. Io ancora più incazzata, non capivo di cosa poteva essere felice. Chiesi a Apureton se aveva il coraggio di recitarci qualcosa di suo. Lo sfidai. Lui si dilettò in quello che ancora oggi considero lo strazio letterario più stupido che abbia subito. Un ammasso di ovvietà infiocchettate per le belle occasioni. Un’elegante filastrocca per gli animali. Quando ebbe finito, nessuno osò commentare e, in quel silenzio, Apureton cambiò volto, perse la sua corazza.

Madeleine si ferma ed io riprendo il racconto, anche perché l’umido del pantalone sta macchiando anche la sciarpa e non so come nascondermi: – Apureton disse che la poesia non è importante, che non faceva più parte della sua vita, che la vita si salva da sé. In realtà non l’ha mai pensato, ma fa di tutto per convincersene. Ha aperto la sua casa editrice, ma non è mai riuscito a scrivere un libro. O meglio, a farlo uscire dal cassetto. Nonostante tutto, a distanza di anni, pur pubblicando i miei testi, mi ha continuato a trattare come se l’oggetto del nostro legame fosse solo il denaro e non la parola.

Hanno tutti ascoltato con attenzione, ma sui loro volti scorgo sguardi interrogativi. Amadou mi guarda perplesso e mi chiede: – Ma perché lei era felice mentre sua moglie e il suo amico se le davano di santa ragione?

Io sorrido con timida soddisfazione: – Perché per la prima volta qualcuno mi stava difendendo. Anzi stava difendendo una mia poesia.

Allora Amadou, ancora più confuso, si rivolge a mia moglie:- Perché il Signor Delimberte ora vende contratti telefonici?

Madeleine sospira alzando gli occhi al cielo: – Tra il fiore raccolto e il fiore donato, il nulla. Sta a lui decidere se questa sua pagliacciata è parte di un gesto, oppure se è l’inizio della sua morte. L’alienazione dalla poesia. Maurice non vendeva più, i miei quadri non hanno mercato, abbiamo due figlie e Lugano è una città molto costosa. Volevo tornare a Dejanville, ma Maurice si impose. Vuole il meglio per le sue bambine. Allora ha iniziato a fare di tutto. Addetto stampa, autore di canzonette, fino a questo schifo. Agente e testimonial di un’azienda di telecomunicazioni. Ha venduto la vita al diavolo. In “Piccioni e farfalle fanno la rivoluzione” Antonine può fermare il suo cammino, c’è dell’acqua, c’è una porta aperta, ci sono i suoi genitori, c’è la pace. Lui si sdraia sul tappeto di ingresso. Saluta i suoi, odora quell’acqua, la guarda, ma non si bagna. Poi una farfalla lo distrae, la rincorre. Convinto di poterla prendere e tornare in quella dimensione di benessere. Mentre corre verso il nulla si trova dietro una folla di piccioni. Tutti a terra. Che segnano il loro percorso, lasciando impronte, segni sulla strada. Antonine manda a quel paese il diavolo e riprende il suo cammino.

Noè conosce bene quella storia. Sorride e si rivolge a Madeleine: – Signora Delimberte, noi vogliamo che suo marito resti qui con noi, crediamo possa essere il nostro Sindaco. Lei è dalla nostra parte? Vi ospiteremo noi, non vi dovrete preoccupare di nulla. Chiediamo solo di essere poetati.

Butto la sciarpa a terra e rapidamente mi infilo il cappotto. Mi alzo e mi risiedo nervosamente.

E Madeleine sentenzia: – Partiremo domani. 

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