Capitolo 3. Midnight in Millesimo

 

La comunicazione si chiude sulle ali dell’emozione collettiva. Un’altra birra, poi il sorriso lascia il posto alla più concreta insicurezza sul da farsi.

Mi tocco il pizzetto, me lo pettino, lo stringo tra le dita della mano destra: – E adesso?

– Eh, mo’ so’ cazzi pe’l culo, Delemberte! – risponde sogghignando lo zingaro, rispuntato fuori da non so dove.

Cosa voglia dire non lo so, so solo che Noè cerca di tranquillizzarmi ed ha un’idea sulla notte: – Domani faremo una riunione, ci informeremo su come possiamo presentare una nostra lista alle elezioni e chiameremo a raccolta un po’ di gente. Stanotte la affideremo al Conte Faz. Domani troveremo un bell’alloggio per lei e la sua famiglia.

Il barista rabbrividisce: – Ma che sei pazzo, lo vuoi lasciare solo con quer vampiro der Conte Faz? Er collezionista di siringhe? Per me può stare qui, non c’è problema. Starà con lo zingaro a fare da guardia alle bottiglie.

– No, non dire cazzate, – lo interrompe Noè. – Il Conte sarà utile alla causa, nessuno come lui può spiegare a Delemberte dove si trova in questo momento. E poi che figura ci farebbe Delemberte con tutta Primavalle, se domattina alle 6.00 i tuoi clienti lo trovassero steso sui tavoli a ronfare?

Non ho sonno e l’idea di iniziare la mia avventura chiuso in questo locale tutta la notte non mi alletta per niente. Ho bisogno di prendere una boccata d’aria.

– Va bene per il vostro amico, basta che non sia un serial killer.

– Non lo giudichi per l’apparenza – rispondono in coro.

Amadou si alza e mi dice: – Venga con me, può lasciare le sue cose qui. Io so dove possiamo incontrare Faz.

– Preferirei lasciare tutto in macchina.

– Perché, lei ha una macchina? Non l’avrà mica parcheggiata di fronte al bidone della spazzatura?

Esco fuori di corsa.

– Ma porca miseria!

La mia Horizon Talbot non ha più le ruote, hanno lavorato di fino, l’hanno poggiata su quattro blocchetti di tufo.

– Non si preoccupi, – afferma Piero, il meccanico – E’ normale da queste parti, noi conosciamo tutte le nostre auto, sono parte del paesaggio. Quelle dei forestieri devono essere battezzate. Lei si farà conoscere e vedrà che subito le ruote riappariranno. E se qualcuno già le avrà piazzate ci penserò io a recuperargliene delle nuove, magari con le gomme termiche.

Sto facendo uno degli errori più grandi della mia vita, ma penso che dietro questo gruppo di sbandati ci sia l’unica possibilità di recuperare la mia Magdaleine e allora spengo il fuoco dal cervello, mi calmo e mi affido ad Amadou, che mi sta indicando la strada: – Andiamo al Milletta, una delle poche piazze dove c’è vita di sera. 

Tra una cosa e l’altra si sono fatte le undici e trenta.

Il Milletta, meglio conosciuto come largo Millesimo, è una piazza che si sviluppa all’esterno di una curva di quasi novanta gradi. Una luna d’asfalto contornata da macchine parcheggiate in doppia e tripla fila, una chiesa e una gradinata. La piazza prosegue aldilà dei gradini con qualche localetto. C’è anche un minuscolo parco di una ventina di metri quadrati. Vi dormono abbracciati due rumeni obesi coperti da un cartone. Hanno gli zaini per cuscino e accanto ai loro piedi, tra i calzini dentro le loro scarpe, spuntano i colli di quattro bottiglie. La luce dei lampioni si riflette sui tappi e mi accorgo con sorpresa che si tratta di tre birre Chimay blu e di una bottiglia di Lagavulin.

–  Loro sono Fred e Ginger – mi spiega Amadou.

– Si trattano bene!

– A loro piace dormire al fresco, diciamo così.

– In realtà mi riferivo a quello che bevono, non sono i soliti barboni da birra Peroni.

– Vivono qui da più di dieci anni, si amano. La mattina presto vanno al mercato dei fiori, prendono qualcosa che vanno a vendere all’uscita della metropolitana. Fanno i soldi per un primo in trattoria e ne lasciano una parte per bere la sera. Sono innocui e si dicono felici.

Il gusto piuttosto raffinato di questa coppia a cielo aperto mi sorprende quanto la capacità di Amadou di esprimersi in un italiano estremamente corretto. Non mi trattengo dal complimentarmi con lui, ma noto che la sua reazione è piuttosto stizzita.

– Ho lasciato la mia casa, attraversato a piedi il deserto e viaggiato su un barcone per arrivare fin qui, ma questo non significa che non abbia studiato e che non ami farlo. Pensa forse che la stia accompagnando per chiederle l’elemosina?

Resto spiazzato da questa risposta, fredda e profonda al contempo, e per cambiare argomento gli chiedo del fantomatico Conte Faz. Amadou prima scuote la testa, poi manda giù una buona quantità di saliva. Infine mi indica la chiesa.

– A mezzanotte in punto lo vedremo fermo davanti a quel cancello ma potremmo vederlo passare prima attraverso il parchetto. Avrà un passo veloce, come una marcia di guerra e avrà una busta gialla del supermercato Pim legata al polso. Cosa ci tenga dentro è e sarà per sempre un mistero. Alcuni dicono siano dei vestiti, altri degli oggetti da collezione. Deve sapere che il Conte Faz ha delle manie strane. Io penso che la busta sia piena di medicine.

– Ma dove va? E come fai ad essere sicuro che sia così puntuale nel suo apparire?

– Lo conosciamo tutti, sappiamo che ogni notte lo si incontra, ma di lui, della sua vita di giorno, non sappiamo niente. Resta in giro fino alle sei di mattina, sempre. Ha tante amicizie, ma non ha una comitiva fissa. Preferisce scambiare due battute sconvolgenti e poi defilarsi. Non prende i mezzi pubblici, non ha una macchina. Ama passeggiare.

In quel momento vediamo una figura scura scavalcare Fred e Ginger. C’è un riflesso giallo, la sua busta che scompare nell’oscurità. Deve essere proprio lui. Amadou lo indica con lo sguardo sorridendo.

– Il Conte Faz per me ormai è un fratello. Vedi questa piazza? E’ un posto come tanti  ma per me e per gli altri è un luogo speciale.

La sua voce viene improvvisamente coperta dalle campane della chiesa che rintoccano dodici volte. Mi chiedo se sia normale da queste parti, a quest’ora. Ma ho un po’ di timore a domandarlo ad Amadou, potrebbe essere musulmano e non vorrei rischiare di provocarlo di nuovo. Allora mi porto le mani alle orecchie, in modo da attirare la sua attenzione. 

Amadou sembra cogliere la mia sorpresa e mi spiega: – Questa non è solo opera del parroco. Questa campana è… quasi clandestina. Ma ormai è una tradizione. Risale a una manifestazione per la pace organizzata anni fa. Eravamo tutti insieme, compresi il parroco e il nostro imam. E’ stata l’ultima giornata di festa per noi. Abbiamo suonato e ballato. Abbiamo pregato. C’era chi leggeva le poesie, chi faceva comizi. Giovani, vecchi, bambini. Poi la sera il Conte Faz si è intrufolato in chiesa e ha suonato dodici volte la campana. Prima di allora la si era sentita rintoccare solo per le messe. Ma quel gesto è piaciuto a tutti e da allora abbiamo continuato “a battere la nostra ora”. Dice il Conte che è un modo per ricordarci che dobbiamo resistere. Che prima o poi arriverà il nostro momento. Dobbiamo solo farci trovare pronti.

Guardo con interesse Amadou, la sua storia ha dell’irreale, eppure è così viva nelle sue parole. Poi gli chiedo: – Amadou, ma tu dove dormi?

– In una casa.

– E’ la tua?

Sorride: – Nei prossimi giorni sarò felice di averla ospite a cena, scoprirà la mia storia.

In quel momento ci voltiamo verso la chiesa e vediamo materializzarsi un ragazzo biondo dalla carnagione chiara, con il codino fermato da un elastico. Indossa una maglietta verde sotto il giaccone di pelle, jeans neri e anfibi ai piedi.   Cammina spedito nella nostra direzione e quando ci raggiunge si rivolge direttamente a me, come se mi conoscesse già: – Ciao, come va?

– Bene – gli rispondo un po’ sorpreso. – Piacere, sono Maurice Delemberte.

Faz appare concentrato e distratto allo stesso tempo. Quando gli porgo la mano sembra quasi essere piombato in quel quadrato d’asfalto da un’altra dimensione: – Sì sì, certo certo, dicevo?

– Ehm, ti stavi presentando…

– Sì sì, certo certo. Ciao Amadou, bello. Come va?

– Bene. Ti ha detto tutto Noè? – Amadou non sembra per nulla sorpreso dall’originalità del nuovo arrivato. Io invece inizio a capire perché erano tutti un po’ preoccupati di lasciarmi solo con lui. 

– Sì, ho trovato una sua lettera sul tergicristallo della macchina di mio padre. E insomma… Ah, sì sì, certo certo. Dicevamo? Ah sì, beh ciao Amadou. Andiamo che è tardi!

Non mi trattengo dal chiedere : – Tardi per cosa?

Lui alza il braccio, solleva la manica del giaccone, non è soddisfatto, arrotola la manica di pelle, guarda il suo polso, come se avesse un orologio posizionato al contrario, col quadrante rivolto verso l’interno Ma non ce l’ha. E ripete: – E’ tardi. Andiamo bello!

Di certo non è un tipo “ordinario”, il Conte Faz. Ma se mi hanno affidato a lui, ci sarà un motivo che scoprirò.

 

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