Capitolo 19. A lezione da un cattivo maestro

Quando arrivo a scuola, mi basta guardare la facciata per sentirmi vivo: uno striscione, fatto di vecchie lenzuola, parte dal tetto e si srotola giù per mostrare la scritta “ITIS okkupato. Collettivo Liceo delle tecniche dell’uomo”. E accanto, e intorno, altre lenzuola, altri striscioni: “Io studio. Non mi esercito a lavorare”, “Mamma, cazzo, a scuola mi hanno fatto operaio”, “Disoccupato per disoccupato, voglio dire che qualcosa ho imparato”, “Diritto di studiare, diritto di sognare” e poi “A professo’, domani non mi interroghi. Stasera leggo”.

Superata la cancellata esterna mi avvicino all’ingresso della costruzione, quando un urlo assordante che proviene da dentro, mi fa accelerare il passo.

“Miiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii aaaaaaaaveteeeeeeeeeeeeeeee rooooooooottooooooooooo il cazzooooooooooooooo! – si sente strillare – E mo licenziatemi pure! Ma vaffanculo!”.

Vedo uscire da un’aula un professore che, con le mani tra i capelli, si dirige in aula magna e si va a sedere tra i ragazzi. Ce l’aveva con il preside, il grande professor Gianluca Delio Maria De Monte Cucuzza, e con i suoi scagnozzi. se la prende subito con me:

– E bravo, mi ha messo contro anche i docenti! – se la prende Monte Cucuzza appena mi vede.

Entro in aula magna. Mille ragazzi seduti per terra, uno accanto all’altro, stretti stretti. Festeggiano il mio arrivo come fossi il salvatore. Sono belli, vivi, diversi, forti, giocosi. C’è un piccolo palco ma preferisco sedermi per terra anche io.

– Fate i bravi!

Ridono.

Uno di loro tira fuori un foglio con disegnato un piccione. Gli faccio l’occhiolino.

Mi raggiunge subito Monte Cucuzza:

– Non posso lasciarla solo con questi ragazzi! Neanche un attimo! Non mi fido!

– Bene Monte Cucuzza! Iniziamo da qui.

– Da qui dove?

– Dal tuo nome.

– Questa storia proprio no – mi dice abbassando la voce, – lasci perdere Cagazza.

I ragazzi che riescono a sentirlo scoppiano a ridere.

– No, mi riferivo a Gianluca Delio Maria. Come vuoi che ti chiami? Gianluca, Delio o Maria?

– Mi chiami professor Monte Cucuzza.

– Mi darai del lei per tutto l’incontro?

– Sì.

– Allora io ti darò del tu.

– Faccia come le pare. Vedete ragazzi, la mancanza di educazione. Delemberte ha problemi a mantenere un tono professionale, non è in grado di elevare la conversazione.

– Non è per questo, se tu mi avessi dato del tu, io ti avrei dato del lei.

– Cosa è un gioco?

– No, è che con quelli come te preferisco mantenere le distanze.

– Non ho capito ma faccia come le pare.

– Ok, cosa significa per te elevare una conversazione?

– Parlare in maniera forbita.

– Secondo te questa è la forma?

– Sì, certo.

– Parlare in maniera forbita non è la forma. Qual è secondo te la forma di una parola?

– Cosa significa?

– La forma di una parola. Non ci hai mai pensato? Vediamo ragazzi, cosa può essere la forma di una parola. Non abbiate paura di sbagliare.

– E’ difficile – interviene un ragazzo – mi devo immaginare l’oggetto che voglio indicare e, se è brutto, cerco di modificare la parola per descriverlo in modo ancora più brutto. Per esempio, una brutta ragazza, potrei chiamarla cozza. Quella può essere la forma…

– Perché no? Ora però vi faccio un altro esempio. Ho davanti a me delle cipolle sbucciate andate a male. Puzzano tantissimo. Potrei dirvi che ho di fronte a me delle leccornie preparate minuziosamente al tramonto e lasciate riposare tutta la notte. Ho elevato la conversazione oppure ho detto una cazzata? Ho espresso correttamente la forma dell’oggetto a cui mi riferisco?

Interviene Monte Cucuzza:

– Con questo cosa vuole dire?

– Voglio dire che la conversazione per essere elevata deve trattare temi importanti, deve avere dei contenuti, deve essere corretta. Non basta darsi del lei e usare belle parole.

La platea rimane in silenzio. Un silenzio pensante, vivo.

– Ma veniamo alla scuola – continuo. 

– Bene! Allora ha visto cosa ha combinato? – si affretta ad accusare il professore.

– Vuole dare a me il merito di tutto ciò? – gli rispondo sorridendo. – Quello che vediamo oggi qui è così bello che vorrei fare i miei complimenti a tutti i ragazzi!

Monte Cucuzza è visibilmente turbato e mi attacca furioso:

– Lei è un delinquente!  La denuncerò per incitamento a delinquere!

– Questi ragazzi non stanno commettendo nessun reato a mio parere.

– Stanno interrompendo un servizio pubblico!

– Non mi sembra, anzi stanno facendo un servizio pubblico.

– Ah, sì? E quale?

– La scuola prima era aperta solo la mattina, ora è aperta per 24 ore su 24.

– Ma i professori non possono svolgere il loro lavoro!

– Innanzitutto ti chiedo: qual è il lavoro del professore?

– Sono anni che faccio questo mestiere. I ragazzi devono apprendere le nozioni di base delle materie caratterizzanti. Questo è un istituto tecnico.

– Nozioni di base… devono… caratterizzante… Mi spaventi. Quanto ti senti un educatore? Quanto un formatore?

– Tantissimo. Direi anche un istruttore.

– Sbagli.

– Chi è lei per dirmelo? E cosa crede che dovrebbe essere un professore, uno zio buono?

– Dovresti essere un “diseducatore”. Uno stimolo continuo alla critica delle cose che non vanno. Un braccio a cui aggrapparsi ogni volta si cade a terra, ogni volta che si esce distrutti da qualcosa. Non c’è bisogno che rimproveri e indichi il modo giusto di ricomporre i pezzi, basta esserci. Istruttore di cosa? Di nozioni di base e caratterizzanti? Le tue nozioni caratterizzano degli uomini?

– Certo che sì.

– Le nozioni? Scusa, ma questi ragazzi sono qui per cosa?

– Per essere pronti ad entrare nel mondo del lavoro.

– Ma se sono adolescenti? Quando impareranno a sbagliare? A sognare? Ad amare? A giocare? A soffrire? A ragionare? A scegliere?

– C’è tutta la vita davanti… – risponde come se stessi dicendo delle inutili banalità.

– Forse c’è tutta la vita davanti per trovarsi un lavoro… Ma torniamo a noi. Dunque, tu insegni economia.

– Certo – mi risponde immediatamente, orgoglioso, come se finalmente fosse giunta una parola degna di senso alle sue orecchie.

– Dimmi allora, uno più uno quanto fa?

– Mi prende in giro? – mi fa stizzito. – Fa due.

– Non sempre. Tu sai che zero virgola sei viene approssimato a uno.

– E allora?

– Allora zero virgola sei più zero virgola sei, che fa uno virgola due, può essere approssimato a uno e, quindi, fare uno. Allo stesso modo – continuo – uno virgola quattro, che può essere sempre approssimato a uno, più uno virgola quattro, fa tre. Allora possiamo dire che uno più uno non fa sempre due.

Il prof scuote la testa. In questo momento sono Tyson, so che è il momento giusto per dargli un altro colpo.

– Valgono di più mille lire o un euro?

Il prof ha un attimo di orgoglio, cerca di imbonirsi i ragazzi dopo la figuraccia che ha appena incassato. Si rivolge a loro e come farebbe un insegnante delle elementari con degli alunni di prima:

– Allora, chi risponde? Tutti insieme!

Nessuno lo segue e così lui cambia volto ed espressione e conclude seccato:

– Un euro, ovvio.

– Una signora di settanta anni gestiva meglio le mille lire rispetto a come gestisce ora un euro – inizio a raccontare. –  Mille lire erano di carta oppure erano la somma di tante belle monetine colorate. Un euro è solo una moneta. Meno bella delle cinquecento lire, più piccola delle cento. Oggi con un euro non ci compri un chilo di pane, con mille lire ce la facevi. L’euro, con la sua breve storia, è utile per prendere il carrello al supermercato! Nei lunghi anni di corso della lira, invece, le banconote da mille hanno trasportato, insieme al loro valore, messaggi sulla loro filigrana: scritte particolari, disegni, imprecazioni e milioni di “Ti amo”.

Il mio contendente è al tappeto, ma si rialza.

– Io non insegno matematica. Ma economia.

Si rivolge ancora ai ragazzi:

– I vostri genitori, i vostri genitori! Sono loro a sapere cosa è il sacrificio, non voi. Loro sanno cosa significa fare gli straordinari per pagarvi la retta a scuola. Loro, solo loro, possono spiegarvi l’importanza del mio mestiere. E sì, perché per quelli come Delemberte le storie sono importanti, ma poi nei fatti non sanno dove mettere le mani!  Solo con quello che vi insegno io potreste aiutare i vostri genitori. Sarò io con le mie politiche a risollevare le sorti delle vostre famiglie. Loro sono mangiati dalle tasse. Io posso ridurle e aumentare così il loro potere d’acquisto.

I ragazzi al momento sembrano degli adulti. Ipnotizzati, pendono dalle sue labbra. La parola tasse li ha responsabilizzati.

E allora io me li voglio inimicare, li voglio scandalizzare:

– Le tasse sono belle!

Alcuni ragazzi ridono, pensano che io abbia fatto una battuta e vogliono far credere di averne colto   un senso difficilissimo. Altri vogliono convincersi di non aver sentito e altri ancora si intristiscono. Come se davanti a loro avessero il loro supereroe preferito che si sta scopando una gallina.

Ma io ribadisco ancora:

– Sì, ragazzi, le tasse sono bellissime!

Il professore se la ride, sa che questo è un passo verso la mia impopolarità.

– Scusi, Delemberte, ma che sta a di’? – trova il coraggio di chiedere un ragazzo.

– Ascoltate. Cos’è che vi insegnano qui? Smith? Il capitalismo? Il mercato? Il liberismo? La Tatcher?

Uno di quei ragazzotti secchioni, che i professori riconoscono come genio, ma che è tutto tempo sui libri e arroganza da primo della classe, prende la parola:

– Ci insegna che le tasse bloccano la crescita, gli investimenti, e fanno ridurre l’occupazione.

– Perché?

Interviene il professore, pronto alla rimonta:

– Più tasse, meno potere d’acquisto, meno introiti. E allora, per rientrare nella norma, si taglia sul personale. Meno tasse, più soldi in circolazione, più acquisti, più lavoro. Il paese cresce. Crescono i salari.

Tutti credono che questa volta non possa reggere il confronto. Questo è però un campo a me non molto lontano. Non ho mai nascosto ai miei lettori di essere comunista e, pur se ai miei compagni di ideologia rimprovero l’eccesso di attenzioni all’economia, questa è la materia di cui mi sono cibato nelle mie controverse frequentazioni di circoli e sezioni.

Mi sono sempre chiesto come spiegare queste noiosissime questioni con semplicità e convinzione, senza usare il mero linguaggio dei numeri. Provo ad usarne un altro. Quello pittorico a parole. Dipingo delle immagine che possano restare impresse.

– Cinquanta euro diventano facilmente centocinquanta euro. Eccone cinquanta, compro da quella ragazza laggiù il suo cappello, lei spende i miei soldi per farsi fare il compito da quel ragazzo che mi ha detto cosa vi insegna il professore e lui acquista da un suo compagno due giochi del pc. Allora il vostro professore avrebbe ragione. Abbassiamo le tasse e io di soldi da spendere ne avrei di più. Te ne darei sessanta e così via fino ai centottanta. Però, però… Però ci sono almeno due però. Il primo è che, se i soldi arrivano nelle mani sbagliate, quella persona lì i soldi non li spende. Queste mani sbagliate non sono quelle delle persone povere che risparmiano qualcosa per la famiglia. Non sono le mani dei vostri genitori, che comunque i soldi li spendono per le cose necessarie, come il cibo, la casa, la luce, l’istruzione dei loro figli. Sono le mani dei ricchi. Sono le mani di quelli che già hanno tutto. Inoltre meno tasse significa meno ospedali pubblici, meno scuole pubbliche. Prendiamo i vostri genitori. A loro non possono essere abbassate più di tanto le tasse, ma sarebbero proprio loro a ritrovarsi con meno servizi. Costretti a dover pagare più soldi per pagare le vostre scuole e per curarsi, con  la pensione che si allontanerà e diminuirà a grande velocità.

– Perché ai nostri genitori, che ricchi non sono, non possono essere abbassate le tasse? – mi chiede il ragazzo secchione, seguendo il ragionamento.

– Innanzitutto spero che da molte siano già esenti e comunque hai ragione, mi piaci, stai iniziando a ragionare con la tua testa. Effettivamente a loro potrebbero e dovrebbero essere ridotte ulteriormente ma, per farlo, le tasse dovrebbero essere alzate.

– Ma come? Abbassi le tasse ai nostri genitori e le alzi al tempo stesso?

Guardo in faccia il già Cagazza Monte Cucuzza:

– Neanche questo gli hai spiegato?

Lui apre la bocca per rispondere ma in realtà resta muto, quindi continuo io:

– Le tasse sono belle perché prendono ai ricchi per dare ai poveri. Qui a Primavalle mi è stato detto che settecentottanta residenti guadagnano di più di quanto guadagna il resto della popolazione. Uno di questi ha un reddito dichiarato di quattro milioni di euro. Tassarlo del 40% significherebbe avere un milione e seicentomila euro da distribuire per le altre persone. Si potrebbe costruire un ospedale, una scuola, oppure si potrebbe coprire un anno di reddito di cittadinanza a tutti i disoccupati del quartiere.  C’è un problema, però.

– Quale? Quale? – mi chiede interessato lo studente, come se gli si fosse stata spalancata davanti una finestra che sembrava sigillata irrimediabilmente.

– Il problema è che i servizi non piacciono a quelli che le cinquanta euro se le tengono nel portafoglio. Quelli a cui sono stati sottratti tutti quei soldi. E lo sapete perché? Perché le loro tasse vanno alla collettività. Ma sbagliano, perché anche loro sono parte della collettività. Visto che l’uomo da solo non può altro che voler coltivare il proprio orticello, è lo Stato che gestisce parte dei nostri soldi. E lo dovrebbe fare nell’interesse di tutti, non dei singoli. Dovrebbe, addirittura, quando decide di mettere dei soldi in giro, verificare a chi li sta dando e accertarsi che vengano fatti circolare nel verso giusto. Le tasse potrebbero e dovrebbero garantire principi di equità sociale. Meno tasse significa tutelare i più forti. E’ una scelta. Nella giungla cosa occorre fare? Aiutare il leone a mangiarsi tutti gli altri animali o stare con le altre specie per non farle estinguere?

I ragazzi riprendono colore, iniziano a fischiare Monte Cucuzza. E lui entra nel panico, vorrebbe zittirli e vorrebbe che questi non avessero sentito. Li vorrebbe morti.

Io mi alzo, lo guardo con disprezzo:

– Vergogna, neanche un po’ di Keynes, Marx non ne parliamo! Di sicuro: vade retro Stigliz… Li faccia occupare per un po’, tolga la chiusura dei Licei dal suo programma e di questo nostro confronto non spiffererò a nessuno!

Lui non sa cosa dire. Vorrebbe che sparissi dalla sua vista e mi chiede:

– Ora che fa? Se ne va?

– No – gli rispondo avvicinandomi agli studenti.

– Avete una sigaretta? – chiedo provocando il più totale sconcerto nel professor Cagazza.

Uno dei ragazzi me la passa.

– Ora vi parlo del linguaggio, – dichiaro mentre accendo la sigaretta. – Non del mio linguaggio ma del loro linguaggio. Ve ne parlo perché ho un viziaccio. Quando una cosa non mi piace, e mi spaventa, finisco per studiarla. Così ho fatto per l’economia, così ho fatto per questa. E’ una cosa dolorosa ascoltare, ma è necessario, anche quando si ha di fronte il nemico. Il male. Ascoltare è un esercizio per rimanere in vita. Non farlo può significare rinunciare a noi stessi. Vi farò un breve corso di autodifesa dai messaggi subdoli. Così, tanto per avere un po’ di resistenza all’educazione che a pelle non condividete.

Cagazza è fuori di sé: – Lei è completamente pazzo!

Ma la sua voce viene coperta dal coro degli studenti che non vogliono perdersi la mia “lezione” e gli urlano:

– Fuori! Fuori! Fuori!

Il professore se ne va a gambe levate, sconvolto, lasciandoci così alle prese con Chomsky.

– Per non farci ascoltare – spiego – alle volte ci distraggono. Ci parlano di altro, magari di argomenti molto importanti. Lo fanno per infilarci dentro cose che lì per lì ci sembrano più leggere, meno attaccabili o pericolose. Noi in questo modo le facciamo nostre senza accorgercene, presi dal loro diversivo. E’ il caso della necessità di chiudere i licei: è normale che passi inosservato di fronte alla crisi economica e alla disoccupazione giovanile! A volte le loro soluzioni non sono legate alla loro intelligenza, capacità o generosità. Ma alla loro ignoranza, incapacità o egoismo. Sono risposte a problemi da loro volutamente creati. Perché lo fanno? Perché la soluzione che vogliono darvi è solo quella, le altre non hanno interesse a proporvele. Hanno però la necessità che voi la condividiate. Vi faccio l’esempio delle ronde nei quartieri. Dell’uso della forza da parte degli agenti. Della cosiddetta emergenza sicurezza. La paura nel girare per strada legittima il controllo sociale e l’uso della violenza per ristabilire l’ordine. Ma quel disordine, quella paura, si sono alimentati da sé? Non li si potevano evitare in altro modo?

Se devono comunicarvi qualcosa di brutto ve la diranno piano piano, col contagocce, frazionata in un lasso di tempo tanto più lungo quanto più brutta è la notizia. Oppure ve la diranno con falsa lungimiranza, ve la differiranno nel tempo. Per dirvi che rischiate di perdere il posto di lavoro, vi potrebbero dire che il prossimo anno ci sarà una ristrutturazione dell’azienda e che verrà deliberata una politica di riduzione dei costi del personale. Vi fanno la supercazzola. Loro sono dei maghi, più dei personaggi di “Amici miei”. Usano l’aspetto emotivo, e così ha fatto il nostro professore. Per parlarvi di economia ha fatto leva sulla vostra famiglia. Vi ha dipinti come un peso per i vostri cari. Ha giocato sui loro sacrifici, sul vostro essere figli alle loro spalle. Vi ha indeboliti. Attenti alla televisione, al cinema, a volte dietro racconti con la trama molto semplice, dietro messaggi pubblicitari che vi imboccano la minestra come foste dei mocciosetti, si cela un progetto maligno. Usano la tecnica del facilitarvi la digestione del rospo. Vi veicolano il messaggio come foste dei decerebrati che non aspettano altro che di essere presi in giro con un “bravo, hai capito tutto benissimo!”.

Ma torniamo alle vostre lezioni qui, al fatto che leggiate solo libri scelti dai vostri professori, che sentiate il suono di una sola campana. Questo fa comodo a chi vuole mantenervi nell’ignoranza, a chi vuole detenere più conoscenza di voi. Per dominarvi. Molti di voi vorrebbero avere milioni di ragazze, molte di voi vorrebbero essere corteggiate da milioni di ragazzi. Volete essere belli, popolari, ricchi. Per alcuni di voi i modelli giusti sono Corona o magari un concorrente di Amici. E’ fondamentale il trucco o correre più veloce su un motorino. Ok, ci può stare, ma ricordate che certi modelli sono stati creati ad hoc. Qualcuno vuole che voi crediate di moda le cose stupide per farvele seguire e diventare più stupidi.

Inoltre ci bombardano di messaggi che portano alla depressione. Ci convincono che qualunque cosa non va a buon fine sia solo per colpa nostra. Siamo single perché grassi. Siamo poveri perché non bravi a lavorare. Siamo delinquenti perché cattivi. Andiamo male a scuola perché non intelligenti.

Loro ci conoscono meglio di come noi conosciamo noi stessi. Mentre loro acquisiscono dati sulla nostra storia, sulle nostre debolezze, noi ci impegniamo a nasconderci, a camuffarci, a non riconoscerci.

E tutto ciò è molto triste. E’ stridente, ma passa inascoltato. Come un violinista nella metropolitana.

Attraversiamo radiazioni nucleari, lo facciamo senza accorgercene. E’ normale poi che ci ammaliamo.

I ragazzi mi applaudono. Io mi alzo, è finita la lezione.

– Rivoluzione! Rivoluzione! Rivoluzione! – gridano in coro.

– Bravi ragazzi! Questa scuola deve essere un pezzo importante della vostra vita. Che sappia delle vostre tante verità, magari sbagliate. Ma pur sempre delle verità.

 

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