Capitolo 21. Dentro – fuori, la partita del carcere minorile

– Maurice, c’è posta. Per la famiglia Delemberte.

Madeleine mi mostra una busta bianca trovata vicino alla porta, mentre preparo la sacca per una partita di calcio organizzata da Noè. E’ senza mittente, né timbro postale.

– Apri la lettera, Madeleine – le chiedo sospettoso.

La campagna sta andando avanti e insieme ai consensi stiamo raccogliendo anche una certa diffidenza. Le lettere anonime oltretutto non mi sono mai piaciute.

– C’è una fotocopia. E’ la pagina di un libro… Un’ Ode di Parini, “La musica”…

– La conosco…

– Qui sembra augurarci la morte, dice che siamo convinti di avere tutto, ma che meritiamo di morire.

– Cazzo! Cazzo! Ma che figli di puttana!

– Maurice, perché?

– Parini se la prendeva con la pratica dell’evirazione. Certi padri snaturavano i figli evirandoli per indirizzarli al canto.

– Perché a noi?

– Perché stiamo facendo la rivoluzione.

– E che c’entra col padre e con il figlio?

– Stiamo indirizzando Primavalle al canto, ma non credo abbiamo evirato qualcuno. Ci vogliono spaventare. 

– Ho paura, Maurice.

– Madeleine, stai tranquilla.

– Nella busta c’è anche della polvere nera.

– Fammi vedere! – le dico afferrando la busta velocemente.

– E’ polvere da sparo, Madeleine.

– Oddio! Andiamo alla polizia.

– Mi vesto.

Al Commissariato di via Maglione quasi non c’è tempo per queste cosette. Davanti a noi, una fila di immigrati in attesa del permesso, i signorotti col numeretto per denunciare lo smarrimento di qualche documento e poi i pianti di chi è stato scippato, derubato, malmenato. Ma anche la paura di chi è stato colto con le mani nel sacco.

Ci spiegano solo che può succedere, che è una lettera anonima e che dobbiamo stare attenti.

Madeleine mi dice che oggi non se la sente di starmi lontana, che mi starà attaccata, stretta stretta. Allora l’abbraccio scompigliandole i capelli, ma dentro di me penso, imbarazzato, che era l’unico giorno che l’avrei voluta lontana: oggi si gioca a calcio e mi sento terribilmente fuori forma.

Noè ha fatto bingo. Ha oramai piena autonomia ed è rispettato da tutti gli altri. Ha trovato il campo, e che campo! Quello del carcere minorile. Giochiamo contro la squadra dei detenuti diciassettenni. 

– Ha ragione Madeleine, questo posto ha tanti buchi, altro che le strade. Iniziamo a giocare là dentro poi lo sa quanti campi tireremo su per il quartiere! – mi ha annunciato con soddisfazione a cose fatte.

– Ma come hai fatto ad avere il permesso?

– Ho chiesto agli educatori del carcere, mi sono presentato come candidato assessore al sociale della nostra lista.

– Bravo Noè, ora ti manca solo una ragazza! – gli dico sorridendo.

Lui arrossisce e mi tira una maglia e dei calzoncini per distrarmi. E’ un completo granata con su scritto in bianco “Piccioni”.

– E’ un regalo di mia madre. Ce le ha fatte fare lei. Maurice, anche lei ha letto il suo libro! – mi confida fiero.

Arriviamo al carcere alle 15.00.

Madeleine, Anna e le mogli dei nostri compagni di squadra si accomodano sulle gradinate che, tra altri detenuti e qualche guardia, contano una cinquantina di persone. Noi andiamo nello spogliatoio.

Gino è il nostro allenatore.

-Giocamo cor quattro-tre-tre. Io me metto en porta. Ricordamose che questi so’ regazzetti. Che c’hanno li stessi problemi nostri, ma senza le stesse spalle. Quindi quarche golletto famojelo fa’. Famoli diverti’. Nun famo li stronzi. Maurice sta davanti co’ Noè. Amadou spigne sulla fascia, er Conte fa er metronomo. Come Albertini. Dietro ve vojo duri e siccome io nun so come Zeman, i terzini devono esse bloccati. Mo annamo e famoje er culo. O dovemo fa’ pe’ rispetto. Io quanno stavo dentro nun volevo la pietà de nessuno.

Usciti dallo spogliatoio entriamo in campo. E’ di terra battuta. Loro sono già lì. Mi accorgo subito che le nostre pance, dalla mia da bevitore a quella di Gino da lottatore di sumo, sono qualcosa in più dell’esperienza, qualcosa di troppo. I nostri sfidanti hanno tutti un fisico asciutto e muscoloso e delle creste alla El Shaarawi che mettono soggezione.

Siamo al centro del campo. Mi si presenta un ragazzo, un po’ strafottente ma emozionato:

– Io so’ er capitano. Lei è Maurice Delemberte? 

– Sì, sono io. Il capitano dei Piccioni.

– Mi’ padre dice che lei è l’unica speranza. Allora la prego, mi faccia uscire.

– Bello mio, ringrazia tuo padre. Ma cosa hai fatto?

– Niente.

– Dico sul serio. Cosa hai fatto?

– Niente. Mi’ padre dice che m’hanno messo dentro pe’ quello che nun ho fatto.

– Tuo padre è un buon genitore. Uscirai, spero il prima possibile. La vita è lunga, stai tranquillo. Pensa a quello che ti ha detto tuo padre. Se riesci a capirlo da solo hai vinto. Ora però credo che perderai.

-A signo’, ma che stai a di’? Ma che nun ve vedete come je state? Sete ‘n esercito de bidoni – mi dice ridendo. 

– Vedremo – gli rispondo ostentando una sicurezza che in questo momento non ho.

Arbitra il nostro parroco.

Dal fischio d’inizio, in tutti noi adulti, pur se in modo diverso, si è manifestato il nostro spirito paterno. E nei ragazzi, quello del figlio che se le inventa tutte per prolungare la partita con i genitori. Così ci accaniamo e loro ci fanno giocare. Ci lasciano le praterie. Sbagliano goal facili, ci favoriscono. Io mi preoccupo per ogni calcione che rifilo ai loro stinchi, chiedo scusa, interrompo la partita. Gli altri s’incazzano con questi ragazzi quando fanno troppi dribbling e si vantano per le loro giocate. Impartiscono loro lezioni di vita e invece di correre si mettono a raccontare aneddoti su aneddoti. Insomma, non so come, ma funziona. Stiamo anestetizzando la loro superiorità tecnica. Al 34′ del primo tempo mi arriva una palla sulla trequarti. La stoppo di destro, per errore me la allungo e spiazzo il mio primo marcatore, la raggiungo, ho di fronte a me un cileno, lo disoriento con una finta verso l’interno, mi butto sull’esterno, largo a destra. Mi manca il fiato, però. Non ho la forza di andare sul fondo o di convergere al centro. Devo fare qualcosa. Crosso, ma la prendo male, la palla si alza, ha una parabola strana. L’ho presa di esterno destro. Scende in direzione della porta ma il portiere è troppo avanti. Si aspettava il lancio in mezzo. Mi sento Del Piero, un Pinturicchio più raffinato che spolvera gli incroci con la parte di piede più difficile. Sto per fare quello che neanche Alex ha mai fatto. Ma la palla sbatte sui due legni, poi sulla riga. Attimi che sembrano ore, quando dal sonno di tutta la difesa sbuca Noè. Punta e goal.

Il capitano dell’altra squadra mi viene incontro:

– Aò! Complimenti! Ma come cazzo ha fatto?

– Un giorno ci riuscirai pure tu! – rispondo impettito.

– Magari!

– Non l’ho fatto apposta – confesso. – Ho avuto solo fortuna.

– No, no. Era voluto!

Mi convinco di crederci anche io, vado sotto gli spettatori e con le dita faccio il segno del cuoricino verso Madeleine. Lei si mette la mano sotto la maglietta, gonfia la maglietta come a mimare un pancione. Abbasso gli occhi sulla mia tartaruga al contrario. Mi chiedo sconsolato come possa essere cresciuta così tanto da farmi deridere da Madeleine mentre gioco a calcio.

Gino corre dalla nostra porta verso di me, il portiere dell’altra squadra gli tira il pallone, lui la afferra con i guantoni. Mi salta addosso. Cado, mi rialzo e lui mi mette la palla sotto la maglietta. Tutti ad accarezzarmi la pancia. L’arbitro si avvicina e mi fa il segno della croce. Non realizzo ancora finché Noè mi si avvicina esultando:

– Auguri Delemberte!

Sto per perdere i sensi. Il pancione non era il mio. Guardo Madeleine che muove dolcemente le labbra per dire “l’Insugherata”.

Sono uno scrittore, un politico, un grande calciatore, mi minacciano di morte, sono incinto. Ho una marcia in più. 

I ragazzi cercano subito di pareggiare, ma resistiamo tutto il primo tempo. 

Prima della ripresa, Gino ci incita:

– Adesso catenaccio, palla a Maurice e s’abbracciamo.

Mi chiedo se ce la farò a sopportare il peso di tutte queste cose.

I diciassettenni esagerano di rabone e doppi passi. Colpiscono anche loro un palo e Gino compie tre o quattro miracoli. Poi il nostro primo contropiede. Amadou si fa da solo tutta la fascia. La butta in mezzo ed io, non so come, a volo d’angelo la butto dentro. E’ il due a zero.

E’ qui che Primavalle mostra il suo cuore granata. Ci guardiamo negli occhi e scegliamo il momento giusto per mollare.

La partita è finita 5 a 2 per loro, ma possiamo dire di averli fatti vincere.

– Ragazzi resistete – li incoraggiamo salutandoli.

E loro ci rispondono fiduciosi:

– Cambiatelo ‘sto posto, fatelo pe’ noi.

Gino mentre ci facciamo la doccia mi domanda:

– Ma secondo te c’è differenza tra dentro e fuori? Perché per me non ce n’è molta.

– Fuori puoi cambiare qualcosa, dentro credo sia dura – gli rispondo. 

Gino annuisce, poi parte un coro per ringraziare l’organizzatore dell’evento:

– E Noè, lalalalalallà, e Noè lalalalalallà!

Lui mi chiede se può parlarmi in disparte.

– Si ricorda cosa mi ha detto oggi? Sulla ragazza… Forse mi piace Anna.

– Bravo Noè.

– Ecco, volevo chiederle… Non potreste aiutarmi, lei e Madeleine? Sono un po’ timido. 

– Noè, non chiedermi queste cose da bambini. 

– Per favore, non so come fare. Io non la conosco bene. Per lo meno vorrei sapere se lei mi ha notato.

– Ok, vedrò di darti una mano, ma tu devi contraccambiarmi il favore. Ho ricevuto questa – gli dico mostrandogli la lettera anonima ricevuta in mattinata. –  Guardala, dimmi se ti viene in mente chi potrebbe essere stato.

– Maurice, non posso aiutarla – mi risponde deciso. 

– Dimmi almeno se può essere qualcuno dei nostri.

– No. Non posso aiutarla proprio per questo. Perché sono sicuro che nessun primavallino che io frequenti possa aver fatto una cosa così cervellotica. La vogliono spaventare. Saranno i suoi rivali, ma stia sicuro che con lei si fermeranno qui. Non c’è nessuno che farebbe il lavoro sporco contro di lei. Nessuno, neanche il peggiore dei delinquenti in zona le farebbe male. Lei anche per chi non la voterà è un amico. La mafia può comprare manovalanza per pochi soldi, convincerla che uno è un pezzo di merda con facilità. Ma non è possibile farlo contro di lei.

– Perché ne sei così sicuro?

– Perché lei ora è Primavalle.

Mi sento bene. Sento questa vicenda già alle spalle. Esco dagli spogliatoi e corro da Madeleine gridando:

– Grazie!

Lei mi sorride:

– Allora?

– Sono meglio di Pelè!  

Grosso respiro e poi continuo:

– Ti amo.

FOTO DI GIOVANNA D’AMBROSIO

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