Capitolo 23. Neve a Primavalle

E’ il giorno tanto atteso. Siamo qui, dove tutto ha avuto inizio. In un lurido pub di legno a bere una birra scura che non è niente di che, ma che non possiamo più disprezzare. La saracinesca è tirata giù. L’ingresso secondario è controllato da uno zingaro, il locale è pieno. I ragazzi sono seduti a terra. Noè con la sua bella Anna. Amadou con la moglie e le bambine, il Conte con in braccio Rosetta, con l’unico sorriso in tutta la sala.

Ed io con Madeleine che si accarezza la pancia ininterrottamente da ore. Lo fa per scaramanzia. Gliel’ho chiesto io. Sono le sei del mattino, abbiamo fatto tutta una tirata. Alle otto ci divideremo per andare nei seggi, per rappresentare la nostra lista e controllare lo svolgimento delle operazioni. Da un’oretta abbiamo smesso di parlare, qualcuno si è assopito, qualcun altro è stremato. Nella realtà siamo terrorizzati. 

Noè per tutta la nottata ci ha spiegato chi sono i votanti di Cagazza: i ricchi, ma soprattutto gli anziani.

“Una mattina mi son svegliato…”. Parte la mia sveglia, ci riprendiamo all’improvviso tutti quanti e continuiamo a cantare la canzone.

Nené allora si rivolge al cameriere:

– A Eminem, facce ‘n’ottantina de caffè, se li meritamo.

– E chi paga?

– I Lavazza li paga Cagazza!

In cinque minuti l’odore del caffè riempie di caldo il locale. E’ pieno inverno, abbiamo tutti il giaccone, ma le nostre guance sono rosse. E’ il nostro giorno e basta poco per scaldarci.

Potrebbe essere il mio ultimo discorso, inizio con un:

– Ehm! Ehm!

Mi schiarisco la voce fino a quando produco il silenzio.

– E’ un bel posto qui. Dicono che la poesia non sia frutto dell’essere umano. Che lo attraversi, ma che non sia opera dell’uomo. Mi sono sempre chiesto allora chi sia il poeta. Non so perché, ma non ho mai trovato interessante cercare una risposta. Mai, finora. Mi sono chiesto cosa ci fosse dietro alla creazione. Mi sono sempre risposto: una musa.

Guardo Madeleine, poi riprendo:

– Mi sono soffermato sul processo creativo. Ho capito che può essere individuale, ma che deve essere collettivo per non essere troppo fine a sé stesso. Ma mai avevo trovato interessante sapere chi fosse pienamente il poeta. E a dirvela tutta, non saprei dirvi se io sia o non sia un poeta. Di poetare poeto, ma se realmente fossi solo attraversato dalla poesia? Se realmente fossi solo uno strumento? Me lo chiedo ora perché la nostra storia è una poesia. Non è un romanzo. Un romanzo si può leggere per un po’, poi se ci si stanca si può  interrompere. C’è una trama e c’è un finale. Quel finale potrebbe essere cambiato, di sicuro è voluto. Lo scrittore ha pieno potere sul proprio romanzo. E lo ha anche il lettore. Lo si può portare dove si vuole. Il poeta invece non ha la stessa forza decisionale su una poesia. Non ne può scegliere la fine. Sempre ammesso che la poesia abbia un inizio e una fine. Ecco, ho questo dubbio amletico: possiamo realmente noi decidere come andrà a finire la nostra opera? Siamo attraversati da questa, sia chi l’ha messa in piedi, sia chi l’ha accompagnata nel suo percorso. Ma ora, ora che mancano gli ultimi versi, cosa possiamo noi, di fronte a lei?

Interviene Nico lo stagnaro:

– E che potemo? Potemo chiama’ er Mago Silvan! A Delemberte, lei è uno che prende la monnezza e ce fa l’oro. La domanda che me faccio io è: lei ce riesce pe’ magia o perché nella monnezza ce stava già l’oro? ‘Nsomma, er poeta è un bugiardo oppure è uno che ce vede mejo dell’artri? Pe’ quanto so ignorante io, credo che er poeta deve esse uno che ce vede mejo dell’artri. Ma deve esse uno che fa vede’ l’oro nella zozzeria pure a chi nun la vedeva prima. Insomma uno che apre l’occhi. Pe’ fallo, lei usa le parole giuste, qua sta la magia. La magia nun pò sta nella trasformazione della monnezza. L’oro ce deve esse sempre stato. Nun è mica robba de Gesù Cristo!

– Allora, questa storia o la vinciamo o la perdiamo. Voglio dire, abbiamo creato una poesia o ci siamo raccontati una cazzata per settimane?

– Delemberte, a lei j’è capitato de scrive ‘n libro e poi aspetta’, pe’ vede’ si c’aveva successo o se era una fetecchia? 

– Certo.

– Ecco, stamo messi così. 

– Mi è capitato anche che cose bellissime non avessero riscosso il successo sperato e lo abbiano fatto solo a distanza di tempo.

– Cazzo, qua se complica tutto. Noi l’avemo oggi la risposta. Nun se potemo permette de aspetta’.

– Per alcuni la poesia viene da una dimensione astorica, potrebbe non conciliarsi con la storia. E qui, noi l’abbiamo portata addirittura in politica. 

– Ce stai a di’ che ce vole culo?

– Un po’ sì e un po’ no. E’ una domanda. Siamo poeti comunque? Siamo in grado di sopportare noi per primi la nostra parola nonostante non ne abbiamo il dominio fino in fondo? 

– So’ e sei e trenta de mattina, me stai a fa veni’ l’angoscia.

– Niente angoscia. Anzi. Io non ho mai provato a rispondermi perché da solo mi sarei risposto di non farcela, ma ora siamo in tanti. Ce la facciamo a sopportare tutto ciò, tutti assieme, comunque vada?

L’istante che ho tanto aspettato vuole che abbia gli occhi bassi, che alla risposta qualcosa si interponga. Vorrei alzare gli occhi e poter leggere gli sguardi altrui, vorrei avere un confronto, vorrei sentire l’altro. Io non aspetto di meglio per sentirmi totalmente un poeta, quando si sente da fuori la voce di un bambino:

– Che bello, papà! Nevica!

Lo zingaro alza di botto la serranda. Tutti si alzano di scatto, corrono fuori. Li seguo.

Fiocchi, tanti fiocchi. Forti, spessi, pesanti. In pochi minuti i tetti delle macchine diventano bianchi e anche l’asfalto lentamente diventa un letto di panna montata.

Madeleine rastrella con le sue dita da terra tanta neve da formare una palla. La compatta e mentre io cerco di realizzare il perché di tanta euforia, lei mi scaraventa la neve addosso e mi dice:

– E’ guerra! Fino alla fine! E se andrà male: ‘sti cazzi! E’ stato bello lo stesso.

Noè segue l’esempio di Madeleine. E lo fanno tutti gli altri.

Sono preso di mira dalla mia squadra. Botta su botta inizio a sorridere anch’io.

– A Primavalle nun nevica mai – esclama Gino. – E’ ‘no spettacolo, me sembra de sta’ ‘n Canada. Che figata!

Alle sette e trenta siamo ancora dì fronte al pub, mentre le macchine dei passanti sono arenate, con le ruote sofferenti perché ingabbiate dalle catene. Imbustiamo le nostre calzature con dei sacchetti di plastica e ci incamminiamo. Il Conte ha rimediato una tavola di legno e invita Rosetta a provare l’ ebrezza di uno slittino artigianale. Si buttano sul marciapiedi, due metri e poi si rovesciano, si abbracciano, si baciano. Sono i bambini che la fanno da padrone, ovunque accorrono tirando i propri genitori per il giaccone. E’ una grande festa.

Ci salutiamo con un in bocca al lupo collettivo.

Guardo Madeleine: 

– Ti va di fare un pupazzo di neve?

– Certo. Ma non vuoi andare al seggio?

– C’è tempo.

Ci appartiamo nel cortile di un condominio. 

Io mi occupo della base, poi recupero la neve, gliela passo e lei l’attacca. Una volta inserito il malloppo per la testa, Madeleine mi chiede di fargli da modello.

Mentre lei lavora, io le chiedo:

– Sono bello?

– No. Sei bellissimo.

E ancora:

– Sono una brava persona?

– Sì, bravissima.

– Sono un grande scrittore?

– Sei il migliore.

– E’ vero?

– Che te ne importa?

– Stronza! Mi ami?

– Sì.

– Anche io. Ma sei sicura? Nel senso: è vero che mi ami?

– Sì. Cosa c’è? Dimmi?

– Abbiamo vinto le elezioni. Gli anziani non andranno a votare.

Madeleine salta in aria, felice come quando l’ho conosciuta.

Poi mi guarda negli occhi, scorge il mio sorriso triste che solo lei può comprendere.

– E’ giusto, Maurice. Andiamo via, come Antonine?

– Sì, andiamo via.

Un piccione è felice quando raggiunge quel mondo per cui ha tanto lottato. Una farfalla è libera quando conquista un suo passo. Dietro al bosco c’era un’altra realtà. Lì dove gli ultimi sono i primi, le farfalle vivono cento anni e i piccioni maturano ali dorate. Non occorrono più sogni per rimboccarsi le maniche e vivere le proprie vite. In odore d’amore, sulle note dell’uguaglianza. E ci furono matrimoni e ci fu un giovane reggente. All’assemblea si votarono le proposte più belle. E la parola era ben ascoltata da tutti. Era una carezza, era un abbraccio, un appoggio, una fortezza. Ai voli si alternavano le passeggiate e agli aiuti le cortesie. Dietro al bosco sorse il loro mondo, un mondo giusto, un mondo arcobaleno. 

Ma Antonine non si fermò. Andò via. Un uomo è vivo quando fa la rivoluzione. Un poeta cammina dove l’uomo vola, vola dove l’uomo cammina. Sempre insieme alla sua musa, tiene in braccio la parola. Attraversa il mondo e non lo sfiora. Non ha casa, ma la trova. Lascia quel che ha guadagnato perché è insieme al vento, comunista in movimento. Se l’uomo ha una storia, il poeta si tira fuori dal tempo. Antonine scomparve nel nulla. Alla ricerca di un altro niente che sappia di vita per fare una nuova rivoluzione.

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