Il peso dell’Arte. L’impegno etico di un artista dopo il Terremoto. Intervista ad Angelo Bellobono

L’arte ha spesso un peso che travalica il perimetro delle sue forme, ponendosi in relazione alla società anche in termini fattivi; le possibilità concettuali e formali possono essere molte, lo sappiamo, arte pubblica, arte relazionale, progetti partecipati, socially engaged art (come dicono gli anglofoni)…l’arte è una risorsa sempre, per chi la pratica e per chi la vive da spettatore, fruitore,  co-partecipatore.

L’arte può essere un attivatore sociale. Lo sa bene Angelo Bellobono, pittore con uno spiccato senso di comunità e capace di elaborare progetti che definirei quasi “ a servizio”, forse anche perché  ha un rapporto con la terra e la natura particolarmente forte pure per via della sua duplice vita professionale: artista e allenatore di sci. 

L’ultimo progetto di Bellobono in tal direzione è Io sono Futuro, una serie di laboratori artistici con i bambini e i ragazzi dei paesi terremotati del Centro Italia. Oltre ai laboratori, un progetto di crescita e riattivazione socio-economica che passa pure per una mostra a Roma, in cui sono esposte le opere realizzate da e con i ragazzi e il cui ricavato servirà per proseguire e sviluppare le attività iniziate.

Abbiamo incontrato Angelo nel suo studio romano, interessati a saperne dei più.

Io sono Futuro è una chiara dichiarazione di intenti. Un titolo che segna una assunzione di responsabilità nella consapevolezza di un ruolo anche sociale della individualità, è consapevolezza che nasce dalla volontà di non rassegnazione alla tragicità dei fatti.

Spesso nel tuo lavoro di artista ti sei assunto una responsabilità che travalica il rapporto tra l’artista e la sua arte per esplicitarsi fattivamente in una comunità sociale, cosa assai rara per chi si esprime attraverso la pittura, una pratica intima e di concentrazione solitaria.

Come si inserisce nella tua ricerca Io sono Futuro (ma anche Atlas(now) in Marocco e il tuo progetto coi Nativi americani)?

Comincio col dire che la pittura non è affatto estranea a tale attitudine. Francis Alys, artista che amo, ha realizzato interi cicli pittorici con tale modalità, e poi, la pittura, raccoglie opere di potente denuncia sociale, penso a Guernica, a Leon Golub, a Bacon, a Carol Rama e a molto realismo italiano e internazionale, solo per citare qualcuno. La pittura, alla stregua di ogni altro mezzo espressivo, può rivelarsi relazionale, e nella sua immediatezza, che non significa semplicità, può fungere da ponte eccezionale tra culture, purché contenga presupposti di senso necessari. Mi assumo responsabilità e sprono gli altri ad assumersene. Il futuro è di chi lo abiterà, ed in questo senso Io sono Futuro, assegna un ruolo attivo di costruttori di futuro a coloro che lo abiteranno, i giovani.

In questo progetto e in Atla(s)now  le caratteristiche del territorio mi hanno permesso di  fondere aspetti diversi della mia vita professionale e personale, utili a fornire punti di vista spiazzanti, come può esserlo raccontare un Marocco di neve e ghiaccio. Sono un pittore, un allenatore di sci, uomo di montagna e di sport. La pittura è un luogo in cui cerco e che si rivela attraversandolo. Un quadro può essere dentro di me, oppure essere qualcosa che fino a un momento prima non esisteva, un’atmosfera percepita che riaffiora. Poi c’è tutto il pensiero, tutta l’azione, le mani sporche e tanta contemplazione. Ecco, il tempo della contemplazione e forse quello che prediligo, è un assaporare visioni e coincidenze inaspettate che traghettano altrove, dove non sapevi di andare. Cerco di considerare il mondo non un parco giochi funzionale a me stesso, ma un complesso sistema in cui coesistere, sulla terra si può camminare o la si può calpestare, io ho scelto di camminarci. In questo i Lenape, i Nativi primi abitanti di New York, sono maestri. Le loro colline e il Marocco erano geologicamente uniti, e ciò mi ha spinto ha ricostruire un ponte tra questi due mondi in cui mi è capitato di vivere, dando sviluppo al progetto Before me and after my time, che dal 2014 ho cominciato insieme alla comunità dei Ramapough Lenape a Mahwah nel New Jersey e a New York.

Nello specifico, come è nata l’idea di Io sono Futuro? Quali sono stati i primi passi? Come sei riuscito ad entrare nelle comunità dei terremotati senza imporre una presenza estranea? 

C’è da considerare che, in talune pratiche, spesso l’effetto “invasione egoreferenziale” è frequente. Ma ciò non traspare mai nel tuo approccio che, di contro, sembra esprimere l’idea di arte come attivatore.

Da tempo sentivo la necessità di proteggere l’Appennino, territorio a mio avviso fondamentale per comprendere la nostra storia e il Mediterraneo e per scrivere futuri possibili, una colonna vertebrale vera e propria; il sisma ha solo accelerato tale processo. Combattere il senso di amnesia dei luoghi è uno degli obiettivi principali del mio lavoro. Non è necessario né obbligatorio che l’arte si occupi di temi sociali, ma quando lo fa, non bastano interventi effimeri e selfie sociali, che diventano mostre a uso e consumo di pochi, e che nulla hanno a che fare con le comunità coinvolte e non lasciano in esse nessun contributo.

Non dobbiamo permetterci di “parassitare” il disagio altrui per farne un balocco intellettualistico.  Quando comincio progetti di questo tipo, io non penso di fare arte, ma di usare, l’arte, come strumento di connessione e attivazione sociale. 

Ogni nuovo progetto è per me come un grande dipinto da cui lasciarsi portare: quasi sempre inizio da solo, ne esploro il senso, le necessità, le modalità e la fattibilità, tenendo sempre nel dovuto conto la possibilità di non far nulla. Per far ciò occorre competenza, passione, rispetto, delicatezza e condivisione, In questo caso ho preso l’auto e sono andato a stabilire il contatto necessario.

Un percorso ha sempre un punto di partenza, magari degli obiettivi, ma non sempre un punto di arrivo.

Spesso ci avviciniamo alle persone e ai luoghi, portandoci dietro una storia già scritta nella nostra testa, che è quella che vogliamo sentirci raccontare, dando a tutto il resto poca attenzione. Nel mio procedere, sono quasi sempre i luoghi e le comunità a coinvolgermi, più che io a coinvolgere loro. All’inizio c’è sempre un territorio, un’atmosfera, un urlo, un canto, un richiamo, due occhi o un albero; quasi sempre della fatica, spesso condivisa. Poi, per ascoltare una storia non basta sentirla raccontare, bisogna alzare la saracinesca dell’ego per far entrare il racconto.

Hai scelto di coinvolgere nella tua avventura anche alcuni colleghi…

Questa è un’ ulteriore modalità per rompere quel senso di diffusa egosolidarietà che distingue ogni sistema autoreferenziale, chiuso, esclusivo, iperspecializzato e paradossalmente ignorante, perché privo di mescolanza di saperi e di attori. Lo faccio perché ognuno può insegnarmi qualcosa, può apprendere, può dare e può ricevere. In quest’ epoca di incertezza, paura e verità personali, ognuno aspira a diventare popolo, stato, nazione, azienda, partito, sistema di propaganda personale. Le verità sono poche e sempre le stesse, da sempre, e tutti più o meno le conosciamo. Raccontarne troppe confonde le idee, specie a chi conosce solo il copia e incolla ed è pigro. L’arte in questo sta diventando maestra assoluta.

Oggi non c’è più tempo per cercare colpevoli, ma sentirci tutti tali è l’unica soluzione. In questa occasione desidero ringraziare Davide Dormino, Davide Sebastian e il mio collega allenatore di sci Francesco Cherri.

Il tuo è un progetto a lungo termine. Quali obiettivi ti sei posto? Al di là della attenzione per il momento post terremoto, oltre l’attuale “cura” per le fasce più delicate della popolazione (bambini, ragazzi, giovani), che cosa vedi e desideri?

In queste fasi progettuali sento una grande energia e vedo cose di cui faccio fatica a parlare, per quanto lontane e difficili sembrano, ma so che si realizzeranno. Sapevo fin dall’inizio che questa prima parte avrebbe rappresentato le fondamenta di un percorso ambizioso, che vuole diventare esempio pilota e replicabile nei territori montani soggetti ad abbandono. Atla(s)now è nato anche con la volontà di raccontare il Mediterraneo attraverso le montagne che lo incorniciano, e Io sono Futurodiventa parte di questo processo, attraverso cui costruire un ponte che connetta tutte le montagne di questo mare. 

Intanto grazie al successo della mostra e ai fondi raccolti, insieme alla direzione scolastica, stiamo programmando una lunga serie di laboratori ed attività legate all’arte e al territorio, da svolgere durante l’anno scolastico e nelle quali mi piacerebbe mettere in relazione i giovani con gli anziani. Immagino, un po’ come avvenuto con Atla(s)now, di realizzare opere ed interventi site specific per costruire un parco d’arte. Poi, anche sulla base della nuova legge scolastica sull’alternanza scuola lavoro, vorrei far sperimentare ai più grandi, attività legate alle realtà locali insieme a guide alpine, naturalisti, allevatori ed agricoltori che si distinguano per visionarietà. 

Fa parte del progetto la volontà di finanziare ad alcuni giovani del posto la partecipazione ai Corsi per Accompagnatore di media montagna, che rientrano nel programma di formazione del Collegio nazionale di guide alpine. Altra cosa molto bella, è la collaborazione offerta dall’Accademia di Costume e Moda di Roma, nella persona del direttore Lupo Lanzara e dell’insegnante Luigi Mulas Debois, che ringrazio commosso. I ragazzi del terzo anno dell’Accademia produrranno una linea di borse con alcuni giovani di Arquata, e alcuni di essi potranno usufruire di ampie facilitazioni qualora decidessero di frequentare l’Accademia. 

Prevedo anche nel breve termine, l’organizzazione di un trekking solidale e di una gara di sci alpinismo sui pendii della zona. Infine, più a lungo termine, c’è la volontà di realizzare un piccolo spazio polifunzionale ecosostenibile, in grado di promuovere e accogliere cultura, sport e sviluppo sostenibile del territorio.

La mostra a cui ti riferisci è appunto quella che prende il nome dal progetto e che è esposta presso la Galleria Emmeotto a Roma. Qui avete presentato le opere realizzate dai ragazzi nel corso dei laboratori artistici sul territorio, molte sono state acquistate, altresono ancora in vendita…

Esattamente. La mostra ha dato i risultati sperati, che permetteranno di proseguire quanto intrapreso in accordo con la direzione scolastica e la comunità.

Il progetto espositivo nasce da un periodo di circa un mese trascorso tra le popolazioni nelle tendopoli. I dipinti, realizzati dagli studenti di prima, seconda e terza media, e da alcuni più grandi tra i 17 ed i 22 anni circa, contengono in molti casi tracce di macerie raccolte insieme nelle aree crollate. 

Condividi sui social

Articoli correlati