Pericolose spinte protezionistiche negli Usa

ROMA – A margine dell’Astana Economic Forum tenutosi alla fine di maggio nella capitale del Kazakhstan, l’economista e premio Nobel Robert Mundell ha auspicato che gli Stati Uniti introducano misure protezionistiche a sostegno delle proprie manifatture e dei propri prodotti. Secondo noi sarebbe un errore.

Mundell è noto per essere stato uno dei fautori della reaganomics, nota per i tagli di bilancio e le riduzione delle tasse. E’ uno dei preminenti paladini del “free trade”, cioè delle politiche di liberalizzazione commerciale. In verità più recentemente è diventato anche il “padre spirituale” dell’euro. Il professore canadese riconosce che le politiche di stimolo non sono in grado di rimettere in funzione il motore della ripresa economica americana. Ciò è dovuto in particolare alla politica di “outsourcing”, che ha portato le imprese americane a cercare lavoro a basso costo fuori dai confini degli Usa, in particolare nel Messico, e in molti paesi asiatici, a cominciare dalla Cina. Naturalmente con la conseguente bassa professionalità.

Tale politica ha indebolito la struttura portante di molti settori come quello aeronautico assai rilevante. Tanto che la Boeing, per esempio, avendo assegnato importanti commesse nel campo elettronico ad altre imprese internazionali, si trova spesso in difficoltà ad affrontare le emergenze relative al surriscaldamento delle batterie in quanto i propri ingegneri non sono utilizzati in questo comparto. Mundell sostiene che gli Usa sono come una “donna nuda” rispetto al resto del mondo che opera attraverso coperture protezionistiche. Auspica quindi delle contromisure, soprattutto nei confronti della Cina, del Giappone e della Germania. Non propone delle vere e proprie tariffe doganali, in quanto ciò porterebbe ad uno scontro aperto. Suggerisce interventi più soft ma non meno efficaci, quali il Buy American, in particolare per le commesse statali.

A nostro avviso si tratta di segnali molto pericolosi che rivelano la mancanza di una visione strategica e aggravano i rischi di una competizione senza regole.

In pratica si vorrebbe puntare il dito contro gli altri, mentre si tende a negare che l’immissione di 100 miliardi di dollari al mese nel sistema economico americano è diventata di fatto la più grande misura protezionistica. In questo modo gli Usa mantengono artificialmente alti i consumi e le produzioni interne e al contempo pagano parte delle importazioni con risorse create dal nulla. Inoltre, la gran parte dell’enorme budget militare e di altri settori strategici è strettamente orientata verso i prodotti interni. Solo una parte viene “pilotata” verso Paesi dell’alleanza militare per ragioni geopolitiche.

Anche il recente aumento della produzione di gas ottenuto attraverso i nuovi metodi del fracking (la fratturazione idraulica di scisti bituminosi) non è stato orientato dal governo verso l’export, pur avendo i produttori la possibilità di ottenere alti profitti vendendo il gas in Europa dove il prezzo è di un 1/3 superiore.

In verità gli Usa non sono nuovi a risposte protezionistiche in situazioni di crisi. Nel 1930 la legge Hawley-Smoot cercò di rispondere alla crisi del ’29 con alti dazi su 20.000 prodotti di importazione che invece di rilanciare la produzione interna esacerbarono gli effetti della Grande Depressione a livello mondiale. Per i Paesi emergenti, invece, certe misure protezionistiche trovano una giustificazione perchè altrimenti non riuscirebbero in tempi brevi a realizzare un programma di industrializzazione se schiacciati dalla concorrenza in grado di imporre qualità e prezzo.

Dopo essere stati i primi responsabili della crisi finanziaria globale, gli Stati Uniti non possono pretendere di spostare il peso della crisi e dei loro tentativi di ripresa sui Paesi più poveri e su quelli emergenti. E’ evidente che gli effetti della crisi sono globali e che le scelte e le regole per fronteggiarli devono essere globali. Dopo il 2007 il crollo delle produzioni e del commercio, in particolare nel mondo Occidentale, è stato attutito dalla crescita rilevante delle economie del Brics e di altri Paesi emergenti. Recentemente però anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha dovuto rivedere molto al ribasso le aspettative per il 2013 del commercio mondiale.

Tra le riforme da affrontare vi è certamente quella del WTO. La cosa più deleteria sarebbe una competizione commerciale dura e senza esclusione di colpi che porterebbe il mondo in una spirale di guerre protezionistiche e monetarie.

 

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