O Madre o lavoratrice. La drammatica scelta delle donne

ROMA – Stepchild adoption, maternità surrogata, adozioni per coppie omosessuali, il dibattito di questi giorni si sta scatenando, in particolare sul web dove si moltiplicano le discussioni e le posizioni contrapposte. I leader politici e dello spettacolo sbandierano la loro opinione, appoggiando o criticando chi ora è sulle luci della ribalta per aver voluto soddisfare il bisogno di creare una famiglia o la voglia di paternità.

L’Italia sembra abbia voglia di fare un passo avanti, recuperare il gap con gli altri paesi del mondo, più aperti all’accettazione delle diversità e pronti a sfidare le leggi della natura in nome della libertà di scelta.  Ma la realtà dei nostri giorni, nei posti di lavoro è ancora un’altra.

La realtà è ancora che un lavoratrice che mette alla luce un bambino, nella totale naturalità di un gesto o con qualsivoglia tecnica moderna, viene messa ai margini del mondo del lavoro. La realtà è che le donne si trovano ancora di fronte ad una scelta: essere madri o lavoratrici, perché la società non riesce a gestire e assicurare un posto a chi questa scelta non vorrebbe farla.

È la storia – forse purtroppo come tante -di Chiara (ovviamente nome di fantasia), lavoratrice nella ristorazione, che rientra dalla maternità e non ritrova il suo posto di lavoro. La sede della mensa dove lavorava era in ristrutturazione, ma mai avrebbe immaginato di non riuscire a trovare un’altra collocazione, vista la grandezza della sua azienda, che ha incarico diversi servizi di ristorazione.

“Sapevo che la struttura dove lavoravo doveva chiudere per lavori, cosi appena rientrata dalla maternità, ho chiesto subito quale sarebbe stata la mia destinazione, perché avendo una bambina di 8 mesi, mi sarei dovuta organizzare” racconta Chiara. L’azienda però non le sa dare una risposta, e dice che riceverà una raccomandata a casa. Chiara è l’unica, tra le sue colleghe, che non è stata ancora assegnata ad una sede, tutte le altre hanno già ricevuto la loro destinazione.

Dopo ripetute telefonate, a due giorni dalla chiusura della struttura, finalmente viene comunicato a Chiara, tramite raccomandata appunto, quale sarà la sua futura sede di lavoro. “Un posto dove si lavora 7 giorni su 7 con un riposo a turno e con tre tipologie di lavoro, tra cui il turno serale che finisce verso le 20:30/21:00, lontano dalla mia abitazione.” Un cambiamento totale quindi, oltre che di posto di lavoro, anche di orario e turno. Un trattamento diverso rispetto alle sue colleghe che, pur cambiando sede, hanno mantenuto i loro orari.

“Disperata” prosegue Chiara, “ho chiesto all’azienda se potevano trovare un’altra soluzione, in particolare per le difficoltà a dover gestire la bambina durante i turni serali. Ma non mi hanno offerto alternative”.

“Allora, sempre più presa dalla disperazione, ho chiesto se potevo almeno essere esonerata dal turno serale; ma niente, nessuna risposta positiva.” “Non c’era un posto provvisorio da nessuna parte per me” ammette Chiara con desolazione. Con la speranza che intanto si trovasse una nuova destinazione, Chiara richiede il congedo parentale per 6 mesi al 30% dello stipendio, e poi, per problemi di salute, entra in malattia. Anche le richieste della Filcams Cgil di Roma e Lazio cadono nel vuoto: “Abbiamo insistentemente chiesto all’azienda di individuare una sede più vicina all’abitazione della lavoratrice o la modifica dell’orario di lavoro, ma l’azienda è inamovibile” racconta Elena Schifino della Filcams Roma e Lazio, che già la prossima settimana ha un ulteriore incontro programmato con i responsabili del personale.

Pur giustificando la scelta come un’esigenza occupazionale, l’azienda ha dimostrato la mancanza di volontà a trovare una soluzione che permetta a Chiara di continuare il suo lavoro, senza dover essere costretta a rinunciarci.   “E tutto questo” conclude Chiara, “solo per aver concepito un figlio?”.

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