DEF: la manovra che inguaia l’Italia

ROMA – Il problema di questo sventurato Paese è che, sostanzialmente, vige sempre la filosofia del “gattopardo”, ben esposta da Tomasi di Lampedusa in un romanzo ormai divenuto un classico della letteratura.

Prendete, ad esempio, il recente varo del DEF (il Documento di Economia e Finanza) del quale si è parlato poco o nulla non perché siano comparse all’orizzonte notizie così trascendentali da relegarlo nelle pagine interne dei quotidiani ma, più semplicemente, perché se se ne parlasse sul serio, il governo avrebbe parecchi problemi a giustificare la propria propaganda. 

Prendiamo, per dire, la crescita del PIL, inizialmente annunciata intorno all’1,6 per cento e oggi degradata dallo stesso Padoan all’1,2 e dall’autorevole Nomisma addirittura all’1: una smentita clamorosa degli annunci del Premier, il quale già pregustava uno slancio dell’economia in grado di tirare la volata alla campagna referendaria d’autunno e alla successiva campagna elettorale per le Politiche. 

E il rapporto deficit/PIL? Un altro disastro. Perché va bene che l’Italia rientra comunque all’interno dei parametri di Maastricht, con un rapporto che dovrebbe attestarsi nel 2017 intorno all’1,8 per cento, ma è altrettanto vero che lo scostamento di sette decimali dall’1,1 che avevamo concordato inizialmente rende l’idea di una Nazione inaffidabile. Nessuno di noi, sia chiaro, nutre la minima simpatia nei confronti dei guardiani teutonici del rigore né, tanto meno, siamo mai stati estimatori del falco finlandese Katainen, il cui paese è in crisi, benché si tratti di uno stato solido, che ha fatto tutte le riforme in linea con il pensiero unico doninante, con un debito pubblico relativamente basso e un tasso di corruzione e criminalità che noi ce lo sogniamo; fatto sta che siamo sempre stati convinti, al contrario, che si possa persino compiere una scelta come quella francese di sforare, e anche in maniera netta, il tetto ormai anacronistico del 3 per cento, a patto di farlo consapevolmente e presentando un piano di riforme adeguato alla crescita. 

Siamo dell’idea, infatti, che con i venti sandersiani che spirano da oltreoceano e di fronte al paese fallimento delle politiche di austerità attuate negli ultimi anni, anche gli arcigni controllori europei avrebbero storto il naso ma, alla fine, avrebbero consentito all’Italia di compiere un momentaneo sforamento del rapporto deficit/PIL, in cambio di un programma di riforme volto all’abbattimento del debito e, contemporaneamente, alla creazione di posti di lavoro e al rafforzamento e alla stabilizzazione di una ripresa che si conferma purtroppo anemica.

Se, come abbiamo fatto noi, si pretendono invece continui sconti e una costante benevolenza per finanziare bonus elettorali, mance populiste elargite a dritta e a manca e riforme inutili e dannose come il Jobs Act, il quale, come previsto da alcuni osservatori, non ha creato un solo posto di lavoro, se ci si presenta senza uno straccio di visione del futuro, per giunta con un’arroganza degna di miglior causa,  se non si mostra la necessaria serietà e affidabilità, è chiaro che diventa impossibile instaurare un rapporto costruttivo con le istituzioni comunitarie. Se a ciò aggiungiamo poi che gli unici, esigui posti di lavoro creati in Italia sono dipesi da sgravi contributivi che, oltre a mettere in ginocchio l’INPS, gravato da un passivo alquanto preoccupante, ora che volgono al termine, rischiano di trasformare in altrettanti disoccupati coloro che erano stati assunti con contratti scritti sull’acqua, si comprende perfettamente la ritrosia dei commissari econonici europei, Katainen e Moscovici, nel concederci ulteriori vantaggi.

Senza contare che questo governo, che oggi chiede per sé agevolazioni d’ogni sorta, è lo stesso che nel luglio scorso ha abbandonato al proprio destino la povera Grecia, schierandosi come un sol uomo al fianco dei liberisti duri e puri alla Schäuble e contribuendo attivamente a un massacro che rischia di provocare l’uscita del paese dall’euro e, di conseguenza, lo sfaldamento dell’Unione nel suo complesso. 

Improvvisazione, scarsa lungimiranza, mancanza di coraggio nel seguire una via antitetica ai dogmi del liberismo, egoismo e attenzione rivolta unicamente alle prossime scadenze elettorali rendono questo esecutivo inadeguato, non in grado di rilanciare e rendere strutturale la crescita e incapace di trasformarsi nel pilastro di quel Club Med che solo potrebbe provare a sfidare il monolitico asse rigorista del Nord Europa. 

Perché ciò avvenisse, tuttavia, servirebbe la politica: virtù sconosciuta non solo a gran parte dei nostri rappresentanti ma anche a molti dei loro colleghi europei, ancora convinti che le ricette fallimentari  e vecchie di trent’anni seguite finora possano essere la soluzione anziché costituire una cospicua parte del problema. E così oggi i maggiori europeisti sono il progressista liberal Obama e il socialista Sanders: due americani che hanno combattuto aspramente e avviato il superamento della “reaganomics”, due politici che pensano alle prossime generazioni, due uomini di cultura che si sono impegnati affinché la ripresa in America fosse effettiva, anche se pure da quelle parti non ha ancora raggiunto i ceti sociali più deboli e non è stata in grado di rifondare quella democrazia del ceto medio che sola può costituire un argine ai populismi arrembanti.

Loro, nondimeno, si sono rimessi in cammino; noi viviamo alla giornata, in attesa di un miracolo che, dato il rallentamento dell’economia mondiale, la fragilità dei nostri istituti bancari e l’assenza di una spesa interna all’altezza, purtroppo non si verificherà.

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