La pace che cerchiamo disperatamente. Esperienze e riflessioni sulla marcia contro la guerra

ROMA – Il 19 ottobre migliaia di persone, provenienti da tutta Italia, hanno partecipato alla ventunesima edizione della “marcia della pace Perugia-Assisi”. Una grande bandiera arcobaleno, come da tradizione, è stata la protagonista dell’ apertura di un evento che ha voluto far riflettere sugli ultimi cento anni di guerra, rappresentati simbolicamente dal rumore di cento esplosioni.

Alla marcia hanno partecipato anche un gruppo di rifugiati politici con i quali abbiamo seguito l’evento. E’ stato un privilegio condividere questo momento con  persone che, al di là di ogni possibile retorica, conoscono bene sulla propria pelle il significato della parola guerra ed il valore della parola pace. Per loro è stata una giornata diversa, piacevole, importante. H., uomo di origine afghana, è rimasto sorpreso del fatto che in Italia ci siano così tante persone che pensano alla pace e si attivano per essa. B., una donna eritrea, ci ha fatto riflettere sull’ importanze di portare alla luce della cronaca le guerre dimenticate e sepolte, quelle di cui nessuno parla. La guerra non è solo in Siria, non è solo in Iraq. La difficile arte della convivenza è l’ unico antidoto capace di far calare i venti di guerra. E’ una pratica complicata che richiede impegno ed esercizio costante. All’ interno del gruppo si è verificata una bella condivisione culinaria. La donna eritrea aveva preparato un gustoso “zighini”, la famiglia afghana un piatto tipico a base di riso e pollo. Abbiamo letteralmente gustato il sapore dello scambio culturale. Nella quotidianità la pace si traduce in volontà di conoscenza, in desiderio di esplorazione. Si può considerare la diversità dell’altro, rispettarla ed apprezzarla. Non è affatto un percorso semplice, tanto per un individuo che per una comunità. Ecco perché la lotta per la pace è una vera lotta e non ha mai fine. E’ lotta in quanto comporta la messa in atto di azioni specifiche. Non può restare una mera finalità astratta. 

Lo sapeva bene il filosofo Aldo Capitini, il “Gandhi italiano”, ideatore nel 1961 della prima edizione della marcia per la pace. L’evento testimoniò, usando le parole del suo promotore, che “…il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta…”. La pace dunque, da semplice assenza di guerra, diviene una presenza vitale, tanto nella coscienza del singolo quanto nel sistema sociale. Non è un ideale può crescere, svilupparsi ed attuarsi in assenza di un preciso impegno. Volere la pace significa lavorare per la pace, favorire l’emergere di quelle condizioni, tanto culturali quanto materiali, che riducono il rischio di conflitto bellico. Papa Francesco, in un messaggio rivolto ai partecipanti di questa edizione della marcia, ha posto l’accento sul primo aspetto auspicando che “…la marcia della pace Perugia-Assisi sia un’occasione per un maggior impegno nella diffusione della cultura della solidarietà, ispirata ai valori morali e al servizio della persona umana e del bene comune”. Anche Laura Boldrini, presidente della camera dei deputati, ha parlato di pace nei termini di “valore importante”. All’ interno del fronte pacifista, tuttavia, è emerso… un conflitto. Il movimento nonviolento, fondato da Aldo Capitini all’ indomani della prima marcia, ha deciso infatti di non partecipare a questa edizione volendo porre l’accento sull’ importanza delle effettive politiche internazionali. Il rischio a loro avviso, se si tralasciano gli aspetti concreti, è quello di cadere nella semplice  “ritualità e nella celebrazione fine a se stessa, a scapito dei contenuti”. La marcia dunque dovrebbe richiedere l’assunzione di responsabilità dei partecipanti nei confronti di obiettivi politici chiari e ben delineati. Per il movimento nonviolento la retorica politica pacifista cozza con la cruda realtà data dal fatto che “il nostro Paese  continua a vendere armi a tutte le parti in conflitto”. Come si vede dunque, anche il fronte del pacifismo è variegato e diviso al suo interno. L’identità di vedute ed opinioni è irrealizzabile ed in definitiva neanche auspicabile. Il confronto che prevede la possibilità di un’intesa attraverso un dialogo aperto ed equilibrato è uno degli strumenti imprescindibili dell’ agire pacifico e democratico. Non si può far finta che tutti la pensino allo stesso modo o abbiano gli stessi interessi, non si può credere che la sopraffazione dell’ altro sia il metodo privilegiato di risoluzione dei conflitti. A monte c’è la ferrea volontà di sganciarsi  dalla classica impostazione romana per la quale “si vis pacem para bellum” (cioè “se vuoi la pace prepara la guerra”) o addirittura  “si pace fruivolumus, bellumgerendum est” (ossia “se vogliamo godere della pace, bisogna fare la guerra). Il dibattito sulle “operazioni di supporto alla pace” in cui è coinvolta l’Italia è sempre aperto. 

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