Mi chiamo Bondi, Sandro Bondi

Si chiama Bondi, Sandro Bondi. Certo non ha il “phisique du rôle” di Sean Connery che esce dalle acque vellutate di un’isola caraibica con la spumeggiante Ursula Andress. E nemmeno l’omofonia con il celebre 007 fleminghiano riesce ad allontanarlo da una vita fantozziana, dove i “sissignore” hanno di gran lunga superato i “dovrei pensarci”, o i “lasciami riflettere” (di “no” manco a parlarne).

Per Bondi, Sandro Bondi, però, ora si prospetta una settimana difficile. Le opposizioni, di fronte al disastro di Pompei, hanno presentato una mozione di sfiducia individuale, che sarà discussa mercoledì. L’atto parlamentare non fa sconti al poco vigile ministro: “ha privilegiato il suo ruolo di coordinatore del Pdl” rispetto al compito governativo e quindi “si è dimostrato inadeguato al ruolo conferitogli”. Parole senza vie d’uscita, se non quella che porta fuori da un dicastero che, in Italia, dovrebbe essere il più importante e che invece un ceto politico semianalfabeta considera di “serie B”.

Bondi, Sandro Bondi, ha cercato di difendersi in Parlamento, come sa lui e come fa da sedici anni, cioè da quando è stato nominato attendente di campo del Cavaliere. “Non ho colpe, le mie dimissioni disonorano chi le chiede”, ha gridato. Utilizza la stessa tecnica del suo Capo: attaccare chi lo attacca, diffamare chi lo diffama. Con stampa e televisioni a disposizione, l’arduo compito può trovare un insperato successo.

Ma certo, per Bondi, Sandro Bondi, non deve essere un periodo fortunato. Lui sa che la sua vicenda è cementata a quella del suo Capo, al quale è legato dal 1994, quando, amico dello scultore Pietro Cascella, fu presentato al suo futuro dio. Cascella (uno dei più accreditati artisti italiani, morto nel 2008), in quegli anni, stava curando il mausoleo funerario per Berlusconi a Villa S. Martino. Il futuro ministro non sapeva, a 35 anni, cosa fare nella vita. Era stato dimissionato come sindaco comunista di Fivizzano (in paese lo chiamavano “ravanello”, perché era rosso fuori e bianco dentro); lui stesso ha più volte confessato che, quegli anni, furono molto difficili. Cascella lo portò lì, italianamente; chissà, qualcosa sarebbe potuto uscire fuori. Berlusconi non si fece intimorire dall’appartenenza comunista del curiale fivizzanese ma, anzi, rimase colpito dalla sua disponibilità ossequiosa, dal rigore di quelle affermazioni in cui non c’era nulla di dialettico: “Certo, ha ragione”, “Come no”, “lo farei subito”, “mi dica, sono a disposizione”. Insomma, il Cavaliere capì subito che non c’era bisogno di leggere un curriculum, il personaggio era perfetto. E fu così che Bondi, Sandro Bondi, diventò il segretario particolare del Capo, curandone la fittissima corrispondenza, per poi progredire fino ad occupare la segreteria del Pdl e il ministero romano.

La legge di Peters afferma che ogni individuo “raggiunge il limite massimo della sua incompetenza”. Noi non sappiamo, ovviamente, se Bondi, Sandro Bondi, abbia superato quel limite ma certo è che non sarà ricordato come il più grande ministro dei beni culturali. Il crollo della “Domus” dei gladiatori nel luogo più famoso del mondo ha fatto girare il suo nome in ogni angolo del pianeta e a poco sono valse le sue disperate controaccuse (“Anche con la Melandri crollarono le mura aureliane e nessuno chiese le sue dimissioni”). Seguendo l’andazzo della scriteriata maggioranza che lo contiene, aveva assegnato Pompei ad un commissario della protezione civile bertolasiana, spendendo e spandendo senza alcun controllo. Forse le decisioni passavano sopra la sua testa, ma anche in questo caso un ministro è comunque responsabile politico. E poi, diciamolo chiaramente: ammesso pure che Bondi, Sandro Bondi, non sia effettivamente responsabile diretto del degrado pompeiano, con chi possiamo prendercela? Con i guardiani notturni del sito archeologico? Con i cani randagi che fanno lì la pipì? Con il sole che, d’estate, picchia troppo forte sulle antiche mura delle case romane? Oppure – e forse potremmo cogliere nel segno – con i perfidi comunisti di Fivizzano e con i loro infamanti paragoni ortaggeschi, tutti interessati soltanto a distruggere l’immagine sua e del suo faraone Berlusconi IV? Lui ovviamente ne è convinto, anche se teme per il suo futuro: dovesse ritornare ad aprire le buste delle lettere dell’amato, in quelle grigie giornate arcoriane? E magari ricevere la telefonata di Manuela, che gli chiede: “Linguine al burro” o “ribollita”? E lui, come il suo quasi omonimo James: “Cocktail di gamberetti”?

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