Venezia 1887. Marito geloso uccide la moglie e il preteso amante

VENEZIA – Un uomo entra in un caffè con passi tranquilli e decisi come se il locale gli fosse familiare. Chi è seduto lo riconosce subito, si chiama Antonio Rossetti e non è un caso che conosca quel locale, visto che il caffè “La fama” era suo fino a pochi mesi prima. La Fama si trova sulla riva poco distante dall’Arsenale ed a dieci minuti da Piazza San Marco.

Antonio Rossetti va a sedersi al suo solito tavolo ed ordina da bere un fernet. Poi si alza e si dirige verso un camerino dove una donna lo guarda con sospetto e supponenza. Il Rossetti le porge una lettera e le chiede se quella è la sua ultima volontà. Lei lo osserva ma non risponde e torna a fare quello che stava facendo prima. Compare una seconda donna più anziana che si rivolge ad Antonio dicendogli qualcosa di poco gentile. Lui, dopo un breve momento di riflessione, ritorna a sedersi al suo tavolo e questa volta chiede un bicchiere di rhum. Chi quella fatidica sera era presente ricorda solo che in un primo momento pensò che fosse scoppiata una rissa. Nella totale confusione c’era il proprietario del Caffè, tale Pedrocco che urlava:”Can te m’à assassinà”, mentre il Rossetti, che pochi istanti prima era seduto apparentemente tranquillo, gli era di fronte con in mano un coltello che gli rispondeva “Si, go mazzà ti e anca ela, tutti do”. Poco distante, distesa a terra sanguinante, c’era infatti la donna dello stanzino. Non era una donna qualsiasi, si chiamava Emma da Lezze ed era la moglie di Antonio Rossetti o forse sarebbe più corretto dire che era stata la moglie visto che avevano divorziato alcuni mesi prima.
Cosi come era scoppiata all’improvviso tutta quella confusione, all’improvviso tutto tornò a calmarsi. Con le due vittime agonizzanti che morivano dissanguate, il Rossetti si rimise a sedere come nulla fosse accaduto. Era seduto che beveva anche quando entrarono i Reggi Carabinieri, accorsi dopo esser stati chiamati dai presenti. Lui non oppose resistenza, pagò il conto e segui i gendarmi. Questa è la storia di uno degli omicidi che insanguinarono la Venezia dell’Ottocento. Il Pedrocco mori quasi subito mentre lo trasportavano in ospedale, la Da Lezze ci impiegò alcune ore prima di spirare e le sue ultime parole di incredulità di fronte ad una morte cosi tanto assurda, furono raccolte da una suora.
Il processo iniziò martedì 31 maggio 1887. Il giornale Adriatico del Mattino intitolò “Marito Geloso che uccide la moglie e il preteso amante” e il cronista seguì tutte le fasi processuali.
Antonio Rossetti narrò alla giuria dettagliatamente i suoi amori con la Emma Da Lezze, il matrimonio con lei concluso, i frequenti dissapori successivi alle brevi gioie, i tormenti della gelosia che per lungo tempo lo travagliarono. Disse che si era già accorto che sua moglie aveva posto gli occhi su un sotto ufficiale dei Bersaglieri, per discendere poi al vecchio Pedrocco. Ben che egli volesse rappacificarsi con la moglie trovò sempre un ostacolo in lui, oltre all’avversione della madre del cognato e dal compare. Si arrivò cosi alla separazione e dovette abbandonare la conduzione del caffè oltre la casa coniugale. L’amico e compare Pedroco che già lo aveva sovvenuto di denaro entrò direttamente nella conduzione del caffè, autorizzato dalla moglie e fu questo che portò Antonio a sospettare del nuovo tradimento. Quella sera si mise in tasca un coltello a serramanico che usava spesso nel suo Caffè. Quando lui le chiese di pacificarsi lei lo rifiutò, ricevendo in aggiunta parole ingiuriose da parte della suocera. Avendo il coltello sotto mano, senza sapere ciò che stava facendo, perse la testa e vibrò dei colpi che riuscirono fatali. Aggiunse, infine, che non poteva dare dei dettagli su quello che successe quella sera ne sulle parole che disse non ricordando nulla di più.
Apparentemente sembrava un normale raptus di gelosia, se un raptus può definirsi “normale”. Ma c’è chi intese che la causa dell’eccidio non fosse la gelosia bensi un negato prestito all’imputato da parte del Pedrocco. A questa teoria si sommava la testimonianza di alcuni che sostenevano di aver sentito Antonio Rossetti formulare altre volte il proposito di commettere il fatto ed aveva pure mostrato l’”arla”, ovvero il coltello a serramanico, che usava per l’esercizio e fu sempre lui a dire di ungerla d’aglio per aver certezza di ammazzarli entrambi. Di più. Un uomo raccontò di aver sentito l’imputato dire le parole “doman xe festa a Castello e la sarà anca al caffè la Fama”.
Ma l’avvocato della difesa aveva qualche carta da giocare a suo favore. Il giorno seguente l’eccidio nel canale sulla Riva degli Schiavoni erano state trovate delle carte riconosciute di proprietà dell’ucciso Pedrocco, il quale ferito veniva portato a braccia alla farmacia e da qui sempre per terra all’ospedale di San Giovanni e Paolo. Tra queste carte oltre ad una cambiale estinta, cartelle di lotteria, vi erano due lettere amorose, una sola delle quali essendosi letta la firma della De Lezze fu unita agli atti, le carte furono portate dai barcaioli al Sestiere di Castello. Quelle lettere per l’avvocato potevano sostenere la tesi della gelosia. Il fratello della vittima dichiarò che erano state scritte di pugno dell’uccisa. In quegli scritti Emma ricorda i primi amori, rivolge al compare Pedrocco delle frasi affettuose, si lagna delle sue assenze lo minaccia di tenerlo a digiuno di baci. Una lettera molto compromettente. Ma perchè tenerla addosso?

Il processo assume anche una spigolatura psicologica, forse tra le prime nell’ambito giudiziario dell’Ottocento pre Lombroso. Furono interrogati i medici Cesare Vigna e Bonavecchiato e gli si chiese se nella loro pratica ebbero a vedere coniugi infedeli in cui la gelosia si sia svegliata impetuosa, irresistibile in moda da assumere i caratteri della brutalità.
La risposa dei medici fu affermativa, e anzi la corroborano con dei fatti. Definirono la gelosia il timore che altri potessero possedere la cosa amata, non il pensiero di perderla.
Ma i Regi Carabinieri e la Questura indagarono a fondo sulle lettere e scoprirono che quella lettera era stata scritta da alcuni amici dell’imputato. Era un falso.
Alla fine del processo il pubblico ministero disse: “Non dissente dalla autorità della scienza medica che in rarissimi casi il marito infedele possa essere geloso, però è pure vero il fatto che il marito geloso non va a chiedere denari all’amante di sua moglie”. Al che l’avvocato della difesa,  l’avvocato Leopoldo Bizio, rispose con una lunga aringa, concludendo:“Spinta all’esecuzione fu la passione della gelosia ed invoca in suo appoggio la viva voce della scienza medica.”

Dopo il consueto riposo il presidente del tribunale diede lettura dei quesiti poi fece un breve ma imparziale riassunto. All’una e tre quarti i giurati entrarono nella camera delle deliberazioni. I quesiti loro sottoposti erano i seguenti: se il Rossetti avesse ucciso l’Emma Da Lezze, ed Angelo Pedrocco, se in quel momento egli fosse in stato di morboso furore, se il rossetti aveva ferito coll’intenzione di uccidere, se era in preda ad un semi-morboso furore, se c’era stata premeditazione, se ci fosse stata provocazione semplice o provocazione grave. I giurati rientrarono alle tre ed un quarto. Esclusero le scusanti del morboso ed ammisero pure la premeditazione. Accordarono all’imputato le circostanze attenuanti. In seguito a tale verdetto, il Pubblico Ministero chiese fosse Antonio Rossetti condannato ai lavori forzati a vita. La corte colla sua sentenza accolse le conclusioni del Pubblico Ministero.
Nel 1923, tra i venticinque ergastolani liberati per grazia sovrana, vi era anche Antonio Rossetti fu Sante, di Battaglia Terme presso Padova, erano passati poco più di trentasette anni da quando due vittime delle furia di quest’uomo riposavano nel cimitero di Venezia.

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