Un pazzo assassino o un assassino pazzo nella Venezia del Settecento

VENEZIA – Una delle problematiche più frequenti che passano sotto l’osservazione dello psicologo forense è la simulazione di sintomatologie psichiche.

Un imputato può intenzionalmente accusare dei sintomi psichici o fisici allo scopo di ridurre le proprie responsabilità giuridiche. Ma quando nasce la psicologia forense? Storicamente, la nascita la si può far risalire all’apertura del primo laboratorio di psicologia sperimentale, nel 1879 a Lipsia in Germania, ad opera di Wilhelm Wundt. Il primo caso documentato di uno psicologo chiamato a testimoniare, in veste di esperto, avviene nel 1896 in un caso di omicidio plurimo; Albert Von Schrenk-Notzing fece notare alla giuria, argomentando in base alle sue conoscenze sulla natura della memoria e la suggestionabilità, come i testimoni oculari chiamati a deporre, non fossero più in grado di distinguere tra quello cui avevano effettivamente assistito e quello che, invece, era stato pubblicato dalla stampa. Ma la pazzia è sempre stata presente  e c’è un caso, accaduto nella Venezia del Settecento, nel quale venne riconosciuta l’infermità mentale a scapito della premeditazione dell’atto criminale.

In un freddo 2 dicembre del 1721 in un letto di una casa ubicata nei pressi della parrocchia di San Martino, non troppo distante dal famoso Arsenale, giace una donna agonizzante. Quella donna si chiama Caterina Ceschi ed è la moglie di Marco, un arsenalotto. Il chirurgo Zorzi Berti si china e la guarda mentre esala l’ultimo respiro. Caterina ha cercato con tutte le sue forze di combattere la morte ma alla fine ha perso. Le ferite erano troppo gravi. Il chirurgo presente è lo stesso che l’aveva assistita otto giorni prima. Si ricorda molto bene quel giorno. Quando arrivò a casa della donna, su chiamata del Capo Contrada, l’aveva trovata seduta in cucina, completamente insanguinata, con le vesti parzialmente bruciate e nei pressi di un fuoco ancora acceso. Non sapeva ancora cosa fosse successo ma gli avevano detto che il fratello della donna, Zuan Maria Ceschi, si era rinchiuso nella chiesa di San Martino. Tale Betta detta Piccola Velera, residente sotto il portico di Ca’ Zorzi, aveva incrociato Zuan Maria con una “bertola” che stava scappando verso la chiesa.

 

La “bertola” o “bandella” era una lama di ferro da conficcare nelle imposte degli uscii o delle finestre o porte. Il problema era che quel ferro grondava di sangue. Il “nonzolo” di San Martin, dopo aver sentito le urla, aveva tentato di entrare in casa da una scala ma aveva trovato i balconi chiusi. Bisognò abbattere il portone centrale, dal quale poi era entrato il chirurgo. C’era un ulteriore testimone. Antonio fruttivendolo, fratello di Zuan Maria. Antonio continuava a ripetere alla gente che stava accorrendo che aveva intuito che quel giorno sarebbe successa una tragedia, suo fratello Zuan Maria, non usciva dalla camera da almeno due giorni e quella mattina, stranamente, gli aveva detto che quello era il giorno nel quale avrebbe dato fuoco ad una strega. La strega era la loro sorella ma ovviamente si trattava solo di una fantasia malata del fratello.

Ma Zuan Maria era veramente pazzo ? Non era dello stesso parere un altra loro sorella, Anna Ceschi. Dopo la morte di Caterina, Anna inviò una lettera al magistrato Angaran, il quale stava seguendo le indagini per conto della Quarantia Criminal, per dirgli che Zuan Maria aveva premeditato tutto. Da sempre nutriva un odio per le sorelle e nel suo piano diabolico quella mattina aveva aspettato che il fratello uscisse di casa, per poi chiudere con il catenaccio la porta principale e i balconi. A quel punto aveva acceso un fuoco e si mise ad attendere. Quando Caterina, vestita per andare a messa, scese le scale la prese di forza e la trascinò fino alla cucina, gettandola sopra il fuoco, le vesti si incendiarono subito e lei cercò di scappare da quella stanza urlando con tutta la sua voce ma lui la colpi tredici volte, alla testa, al braccio ed alla mano sinistra. La colpi proprio con la bertola vista dalla piccola velera. Si fermò solo quando la sorella fu a terra priva di sensi e poco dopo scappò da una porta segreta che conduceva in una calle che immetteva nel campiello di fronte alla sacrestia. Da li si nascose nel campanile della chiesa di San Martino. Questo era quanto Anna denunciava di suo fratello. A supporto della premeditazione aggiunse anche che di professione Zuan Maria faceva il barbiere nella contrada di Santa Trinità e nessuno dei suoi ultimi cliente si era lamentato di qualche gesto pazzo. Infine, suo fratello possedeva diversi pegni, argenti e contanti e dopo il fatto li pose in salvo presso il reverendo Don Paolo Bertuito di S. Martino. Quanto scritto era confermato da alcuni testimoni e dalla perizia del chirurgo sul povero corpo di Caterina. Quanto descritto non sembra il comportamento di un uomo privo di senno. Anna concluse la sua lettera con la citazione biblica: “E come il sangue d’Abele chiama da terra vendetta a Dio contro il fratricida Caino”. Gli indizi erano gravi ma anche abbastanza chiari. Il 28 aprile il magistrato Angaran ritiene che l’assassino dovesse venire arrestato e meno di una settimana dopo il Capitan Grande Sebastiano Bonapace inviò il capitano Zuanne Zaniol detto Fui con gli uomini a casa dell’accusato. Ma non riuscirono a trovarlo. Il 27 maggio venne pubblicato sopra le scale a Rialto il bando nel quale si ordinava che il barbiere si presentasse di sua spontanea volontà per discolparsi delle gravi accuse. Ma nessuno bussò alle carceri di Palazzo Ducale. Dove era finito Zuan Maria Ceschi? La risposta arrivò quasi un mese dopo. Il medico fisico Georgius Sachellanius scrisse al magistrato che Zuan Maria era sotto la sua cura per “oppresion di mente”, ovvero per sofferenza della mente. Per curarlo gli stava praticando dei salassi continui e delle purghe. Legato al letto giorno e notte era impensabile poterlo interrogare. Questa situazione continuò fino al 22 luglio quando finalmente il medico decise di cambiare cura e di somministrargli “delle pilole ceffaliche per espurgar il cervelo”. Non sappiamo esattamente in cosa potessero consistere queste pillole ma due giorni dopo Zuan Maria si presenta dai giudici.

Di fronte alla grave accusa di aver volontariamente ucciso sua sorella con quel sistema orribile, il barbiere si difende presentando una lunga aringa nella quale sottolinea che: “Vuole il Giudice esterno, che qualunque anco più atroce delitto, quando non sia risolutamente volontario, non acquisti sembienza di peccato, ne men veniale presso l’infallibile sua Giustizia.”. In altri termini lui di quel delitto non può dir nulla al magistrato perchè non era in se. Ma affermare questo non era certo sufficiente, bisognava anche dimostrarlo e cosi cosi a motivo della sua pazzia racconta ai giudici che nel mese di gennaio dal presidente del collegio marittimo era stato assolto dalla tassa e “tagion” per la sua bottega di barbiere. Il taglione era una imposta dal Senato a tutte le arti e mestieri di Venezia e del Dogado, che si esigeva dal Collegio della Milizia da Mar. Ovviamente allega copia della terminazione della Milizia da Mar nella quale si legge che la Tassa da tansadori dell’arte dei barbieri non veniva applicata a seguito dell’attestazione del “male di frenesia”. Se il Governo aveva già riconosciuta la sua pazzia tanto da non fargli pagare le tasse, non poteva certo questo magistrato cambiare le carte in tavola!  E cosi Angaran se ebbe dei dubbi sulla reale pazzia non se la senti di contraddire un alta carica del Governo. Il 25 luglio Giovan Battisa Saura prese in consegna Giovan Maria Ceschi. Saura ebbe l’obbligo di tenere presso di se e custodire con tutta la diligenza la persona del Ceschi detto Conzin. In un periodo in cui non esisteva la psicologia per smentirlo o delle strutture per curarlo, Zuan Maria Ceschi riusci a fuggire alla pena capitale dimostrando che non fu un pazzo assassino ma un assassino pazzo.

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