Un volo di 13 metri 1892

“Toni ti me fa mal !”. Una flebile protesta. Sul letto un limone a spicchi. Poi il silenzio ed un volo di tredici metri. Quando il delegato Basilicò e il maresciallo delle guardie Bortolotti salgono la lunga scala che dalla Calle del Campanile a San Polo da accesso ad uno degli appartamenti del palazzo è la sera del 29 febbraio del 1892.

E’ una delle ultime case, al quarto piano, e i due arrivano a bussare alla porta con il fiato corto di chi non è poi cosi giovane. In quella casa abita Antonio Mecchia il quale sta dormendo con le due figlie. Quando apre la porta si sente chiedere dal delegato dove fosse sua moglie. Senza nessun imbarazzo Antonio gli risponde che sua moglie ha una malattia che non la rende molto fedele e oramai non sa più dove vada a passare la notte. Il poliziotto lo osserva e lo arresta, scortandolo fuori in strada. Passano vicino ad un cadavere di una donna in camicia e corpetto, a bocconi sul lastrico della strada. Quella donna si chiama Marianna Facchinati ed è la moglie di Antonio, era volata dalla finestra per tredici metri prima di finire su quella strada dove morirà all’istante. Il marito nel passarle a fianco la osserva con distrazione senza aggiungere nulla.

Il processo per uxoricidio inizierà circa un mese dopo, il 6 aprile.

Anche questa volta lo spettacolo che si presenta sulle rive di Rialto è quello di un pubblico variopinto. Barche d’ogni forma e d’ogni specie sono allineate sul Canal Grande di fronte al tribunale. Barche da latte, da erbaggi, da pesca, da materiali da fabbrica e perfino da carne.

Gremite di uomini e ragazzi che per combattere l’attesa si lanciano addosso torsoli di mele e poi pezzi di mattoni raccolti alla rinfusa. Sono le 9,25 e la barca delle Assise ancora non arriva.

La gente è affacciata ai palazzi con i binocoli come al teatro. Perchè di questo si tratta, di spettacolo. Alle 9:35 arriva la barca con l’accusato.

Inizia il processo, per la difesa vi sono gli avvocati Marangoni e Orlandini, i quali sanno che avranno un bel lavoro da fare sulla giuria. Secondo la pubblica accusa Antonio Mecchia ha premeditato l’omicidio gettando la moglie dalla finestra. Una accusa grave che può costargli l’ergastolo in base all’articolo 366 numero 2 del Codice Penale. I giornali stessi non mostrano di avere le idee confuse a riguardo, il Gazzettino dopo aver narrato i fatti scriverà: “Cosi tutti i mariti alla Mecchia, che pur troppo non sono pochi, i quali se non finiscono affatto le loro povere donne, le martorizzano, che è peggio ancora, trovassero nella legge e nelle autorità il castigo che meritano”.

Antonio Mecchia ha 39 anni, ma ne dimostra qualcuno di più, è pallido magro fisionomia secondo alcuni poco simpatica, tipo assolutamente volgare lo definiranno ancora i giornalisti. Non è veneziano ma di San Vito di Tagliamento. Marianna Facchinati, aveva 40 anni ma ne dimostrava sessanta a causa delle sue condizioni psico-fisiche.

Le prime battute del processo puntano ad accertare la dinamica dei fatti. Dalla perizia medica del professore Cavagnis e dottor Moretti, si stabiliscono due pilastri del processo: il primo che la morte della povera Marianna Facchinati fu il necessario effetto delle lesioni riportate nella sua caduta dalla finestra, il secondo che non si può escludere che lei si sia gettata di sua volontà o che sia stata gettata ad opera altrui.

Il processo durerà fino all’8 aprile. Le perizie dimostreranno che per suicidarsi la donna avrebbe dovuto avere una forza che non possedeva più in quanto denutrita, era arrivata a pesare 45 kilogrammi. Dimostreranno che Antonio Mecchia la picchiava spesso e che l’aveva già più volte minacciata. Dimostreranno che vi furono tradimenti da ambo le parti ma che nell’ultimo periodo l’accusato diede chiari segni di irritabilità.

Rimaneva forse qualche dubbio sull’assenza di difesa o di grida da parte della donna prima di essere gettata fuori del balcone e su questo la difesa dirà: “Il fatto signori giurati, sollevò giustamente la pubblica opinione, ma il fatto non è punto provato, e nel dubbio il vostro verdetto deve essere di assoluzione”.

Dopo soli 20 minuti la giuria aveva il verdetto. Colpevole. Colpevole di uxoricidio ma con uno stato d’animo da scemarne grandemente la colpa. La corte lo condanna a 16 anni e otto mesi di reclusione e alla interdizione in perpetuo dai pubblici uffici.

Quando i quattro carabinieri lo portarono fuori la folla fischiò urlando: “pochi i xe stai, pochi i xe stai”. Nel processo d’appello svoltosi qualche mese dopo a Padova furono tolte anche le attenuanti, se questo fosse stato il primo giudizio Antonio Mecchia avrebbe avuto l’ergastolo ma oramai non si poteva più. I figli furono divisi e di loro nel tempo si persero le traccie.

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